2025-11-21
Sei maschio? Prova di non esser stupratore
Il tocco è il copricapo che viene indossato insieme alla toga (Imagoeconomica)
La nuova legge sulla violenza sessuale poggia su presupposti inquietanti: anziché dimostrare gli abusi, sarà l’imputato in aula a dover certificare di aver ricevuto il consenso al rapporto. Muove tutto da un pregiudizio grave: ogni uomo è un molestatore. Una legge non è mai tanto cattiva da non poter essere peggiorata in via interpretativa. Questo sembra essere il destino al quale, stando a taluni, autorevoli commenti comparsi sulla stampa, appare destinata la legge attualmente in discussione alla Camera dei deputati, recante quella che dovrebbe diventare la nuova formulazione del reato di violenza sessuale, previsto dall’articolo 609 bis del codice penale. Come già illustrato nel precedente articolo comparso sulla Verità del 18 novembre scorso, essa si differenzia dalla precedente formulazione essenzialmente per il fatto che viene ad essere definita e punita come violenza sessuale non più soltanto quella di chi, a fini sessuali, adoperi violenza, minaccia, inganno, o abusi della sua autorità o delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa (come stabilito dall’articolo 609 bis nel testo attualmente vigente), ma anche, ed in primo luogo, quella che consista soltanto nel compimento di atti sessuali «senza il consenso libero e attuale» del partner. Appare, peraltro, pacifico, in difetto di contraria previsione, che un tale consenso può anche validamente manifestarsi in modo tacito o «per facta concludentia», mediante non opposizione all’altrui iniziativa. Su ciò si è detto d’accordo, in un articolo a sua firma comparso su Il Dubbio del 18 novembre scorso, anche il professor Bartolomeo Romano, ordinario di diritto penale all’università di Palermo, pur annoverabile tra coloro che hanno espresso adesione, in linea di massima, alla nuova formulazione del reato. Non è dato, quindi, comprendere come il tacito consenso possa essere ritenuto inesistente o invalido quando la non opposizione, con la quale esso si sia manifestato, non sia riconducibile ad alcuna forma di violenza, minaccia, inganno ad opera del partner e questi non abbia neppure abusato della sua autorità o di condizioni di inferiorità fisica o psichica della presunta persona offesa. Né si comprende, in assenza di comportamenti di tal genere, come possa attribuirsi un qualsivoglia rilievo ad un dissenso espresso solo a parole, al quale si accompagni una totale, passiva adesione alle altrui richieste di prestazioni sessuali. Ma il problema è stato bellamente ignorato da chi, come, ad esempio, il magistrato di Cassazione Paola Di Nicola Travaglini, esperta in materia di reati sessuali, in un’intervista rilasciata a Repubblica del 14 novembre scorso, ha preferito mettere in luce quella che, a suo dire, sarebbe la «svolta storica» segnata dalla nuova legge. Svolta che, nell’essenziale, sarebbe costituita dal fatto che, finalmente, non sarebbe più «la vittima a dover testimoniare la propria resistenza all’aggressore per dimostrare di essere stata violentata» ma sarebbe «l’imputato a dover dare la prova di avere avuto il consenso della vittima». Si tratta di un’affermazione che - per dirla ipocritamente con un eufemismo in uso tra i frequentatori dei palazzi di giustizia - lascia «alquanto perplessi». La nuova legge, infatti, per quanto mal fatta, non incide sul fondamentale principio che, in materia penale, è l’accusa, rappresentata dal pubblico ministero, a dover dare la prova della sussistenza del reato e della colpevolezza dell’imputato. E la prova, nel caso della violenza sessuale, deve avere per oggetto non solo l’avvenuta realizzazione (o tentata realizzazione) di un atto sessuale tra due o più soggetti, ma anche - non essendo quell’atto, di per sé, ovviamente, un reato - l’assenza del consenso da parte di uno dei «partners». Assenza che da altra fonte non può desumersi che non sia quella della stessa vittima del vero o presunto reato, la quale dovrà, quindi, necessariamente chiarire anche se e come il dissenso fosse stato manifestato tanto da renderlo chiaramente percepibile alla controparte. Solo sulla base di tali acquisizioni l’imputato potrà poi essere invitato a fornire la sua versione dei fatti e potrà, eventualmente, addurre a sua difesa che il dissenso o non c’era o non era percepibile. Ed è da aggiungere, in proposito, che quand’anche di ciò egli non potesse fornire la prova, basterebbe soltanto la riscontrata verisimiglianza del suo assunto ad imporre, a rigore, una pronuncia assolutoria, sulla base del noto principio dell’«in dubio pro reo», anch’esso non derogato né derogabile dalla nuova legge. Nessun dubbio, quindi, che, sotto il profilo in discorso, non sia ravvisabile alcuna sostanziale novità rispetto al passato. Il che vale anche a smentire un’altra affermazione contenuta nell’intervista di cui si è detto, secondo cui «se il No non è chiaro, se è un “forse” bisogna sempre presumere il dissenso della donna» e, pertanto, la sussistenza del reato, giacché «il dissenso va sempre presunto». Ragionamento, questo, che sembra fondarsi su di un implicito quanto bizzarro presupposto: quello, cioè, che l’atto sessuale costituisca di per sé stesso un reato commesso dall’uomo in danno della donna, per cui quest’ultima sia da ritenere, fino a prova contraria, non consenziente, così come è da ritenere, fino a prova contraria, non consenziente chi sia stato vittima, ad esempio, di un furto o di una rapina. Ed è, questo, un atteggiamento mentale che appare ricalcato su quello del più fanatico e rabbioso femminismo, per il quale l’uomo, inteso come «maschio», è, per sua natura, sempre e comunque uno stupratore di femmine, quali che siano le modalità del suo approccio verso l’altro sesso, e merita, quindi, di essere in ogni caso punito, facendosi salva soltanto l’ipotesi che la donna voglia talvolta usarlo per suo piacere ovvero gli conceda, per malinteso e improvvido spirito di condiscendenza, di sfogare su di lei i suoi bestiali istinti. Sia consentito dire che lascia un tantino preoccupati il constatare che un siffatto atteggiamento mostri di aver fatto capolino anche tra chi è preposto all’amministrazione della giustizia.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
Continua a leggereRiduci
Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.