2025-11-21
Così un matematico senza titoli chiuse il Paese
Stefano Merler in commissione confessa di aver ricevuto dati sul Covid a dicembre del 2019: forse, ammette, serrando prima la Bergamasca avremmo evitato il lockdown nazionale. E incalzato da Claudio Borghi sulle previsioni errate dice: «Le mie erano stime, colpa della stampa».Zero tituli. Forse proprio zero no, visto il «curriculum ragguardevole» evocato (per carità di patria) dall’onorevole Alberto Bagnai della Lega; ma uno dei piccoli-grandi dettagli usciti dall’audizione di Stefano Merler della Fondazione Bruno Kessler in commissione Covid è che questo custode dei big data, colui che in pandemia ha fornito ai governi di Giuseppe Conte e Mario Draghi le cosiddette «pezze d’appoggio» per poter chiudere il Paese e imporre le misure più draconiane di tutto l’emisfero occidentale, non era un clinico né un epidemiologo, né un accademico di ruolo. «Ho cercato il suo settore scientifico disciplinare sull’organico del Ministero dell’Università e della ricerca», lo ha sollecitato Bagnai, «e non sono riuscito a trovarla: lei è di ruolo nell’università italiana?». Merler ha risposto con un rassegnato «no», aprendo la strada a una ridda di considerazioni che portano tutte verso la stessa conclusione, condivisa anche dal presidente della commissione Marco Lisei (Fratelli d’Italia): il matematico, scelto dall’allora ministro della salute Roberto Speranza per governare i dati sulla base dei quali è stato chiusa l’Italia per due anni, si è trovato all’improvviso nella stanza dei bottoni senza mai essere stato contrattualizzato e senza avere alcun titolo universitario. Tant’è che il senatore Claudio Borghi della Lega non ha esitato a complimentarsi con lui: «Abbiamo un non-medico e un non-accademico che è stato considerato la voce più autorevole del Cts in una delle situazioni più drammatiche della nostra nazione: interessante». Ed è stato lo stesso Borghi, a questo punto, a chiedere a Merler come abbia fatto ad arrivare fin lì, domanda rivolta al matematico anche da Alice Buonguerrieri, capogruppo di Fratelli d’Italia nella commissione incaricata di fare luce sulla sciagurata gestione pandemica. Merler ha citato il Cnesps (Centro nazionale di epidemiologia) di Stefania Salmaso, poi Andrea Piccioli del ministero, poi Gianni Rezza. Fatto sta che - ed è questa la notizia - Speranza e Conte hanno costituito il primo Cts senza inserire né un clinico (come ha riferito Matteo Bassetti nell’audizione di lunedì scorso) né un epidemiologo: come fare la torta al cioccolato con tanti ingredienti ma senza cacao. In compenso, però, Conte e Draghi, che gli è succeduto a febbraio 2021, hanno affidato a un oscuro matematico della provincia di Trento, Merler per l’appunto, tutta la statistica pandemica nonché il piano di contingenza, dandogli accesso a tutte le informazioni e alle notizie riservate. Il tutto senza contratto e senza compenso, dunque a quanto pare pro bono. Basterebbe già questo per avere un’idea dello spirito brancaleonico che ha caratterizzato la gestione operativa di Speranza. Spirito afferente all’attitudine - più che alle competenze di tutto rispetto - delle 1.000 task force, comitati e commissioni che a vario titoli sono intervenute nella confusa gestione pandemica: il problema, infatti, è stato il mancato coordinamento e la riorganizzazione delle informazioni, oltre che l’assenza di un piano pandemico. Merler ne ha dato un’idea ben precisa rispondendo ad altre domande di Alice Buonguerrieri riguardo alcune affermazioni rilasciate da lui stesso alla procura di Bergamo, secondo cui aveva cominciato a studiare il virus Sars Cov-2 «prima di Natale 2019». «Come faceva ad essere a conoscenza di questi elementi prima ancora che lo stesso Oms li conoscesse? E chi ha ritenuto di informare?», gli ha chiesto Buonguerrieri. Merler ha dapprima nicchiato, poi ha ammesso a mezza bocca che gli erano arrivati alcuni dati in cui «i colleghi cinesi» avevano ricostruito la storia dell’infezione di alcuni pazienti riportandola a prima di Natale. Quindi ha riferito di aver informato già a inizio febbraio del virus e della sua pericolosa diffusività anche Speranza. Ma, come noto, in quei primi due mesi del 2020, governo e parlamentari del Pd minimizzavano andando a consumare gli spring rolls sui Navigli milanesi, salvo poi, con attitudine quasi schizofrenica, ribaltare l’approccio e diffondere il terrore in tutto il Paese dall’11 marzo 2020 in poi. Anche Lisei gliene ha chiesto conto: «L’adozione di misure di contenimento, come il lockdown, se adottate tempestivamente a livello locale possono essere uno strumento alternativo al lockdown nazionale?». «È una domanda maledettamente complicata, ma in linea di principio sì», ha replicato Merler. Confermando - ha chiosato Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori Fdi - «ciò che tanti scienziati e i parenti delle vittime della Bergamasca dicono da tempo: la zona rossa in Val Seriana andava istituita già a fine febbraio […], ma invece di chiudere per tempo e solo la Bergamasca, Conte decise di chiudere l’Italia intera con il lockdown nazionale. Il Governo Conte II pensò di far redigere un piano, incaricando un matematico, in piena pandemia, ma non ritenne di applicare un Piano pandemico influenzale già pronto, quello del 2006, che proponeva anche l’istituzione delle zone rosse».Alberto Bagnai e Claudio Borghi hanno incalzato il matematico di Trento anche sulle sue stime catastrofistiche diffuse sia nel 2020 (quando Merler previde 150.000 terapie intensive se avessimo riaperto a maggio), sia nel 2021, quando quantificò 1.300 morti al giorno a metà luglio per poi averne «soltanto» 23. Merler ha smentito che quelle fossero «previsioni» e ha scaricato la responsabilità alla cattiva comunicazione della stampa. Si è anche dichiarato «arrabbiato» con Mario Draghi che lo aveva criticato pubblicamente per quelle analisi errate. «Questo significa», ha osservato Borghi, «che tutti i giornali ci propinavano fesserie e forse anche il presidente del Consiglio ogni tanto qualche fesseria l’ha detta (a cominciare da quel “se non ti vaccini ti ammali e muori”, ndr)». Poteva andare peggio di così? Forse no.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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Il Comune di Merano rappresentato dal sindaco Katharina Zeller ha reso omaggio ai particolari meriti letterari e culturali della poetessa, saggista e traduttrice Mary de Rachewiltz, conferendole la cittadinanza onoraria di Merano. La cerimonia si e' svolta al Pavillon des Fleurs alla presenza della centenaria, figlia di Ezra Pound.