2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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Gli economisti avevano pronosticato sfaceli, crisi del sistema produttivo, crollo del Pil, ma a nove mesi (il 2 aprile scorso il primo annuncio di tariffe del 10% su tutte le importazioni mondiali) dall’ondata di dazi imposti dal presidente americano Donald Trump il cataclisma non c’è stato. Semmai, il maggior impatto si è avuto in modo indiretto dalle imposte doganali applicate alla Cina che, vedendosi sbarrato il mercato degli Stati Uniti, ha riversato un’ondata di merci sull’Europa.
A far risuonare le sirene d’allarme in Italia un po’ tutti i settori produttivi, che disegnando scenari apocalittici sono corsi a chiedere aiuti pubblici. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, senonché questa narrazione è stata smentita dai fatti, passati in sordina.
A fare un bilancio degli effetti dei dazi americani sul tessuto produttivo è uno studio della Banca d’Italia: «Gli effetti dei dazi statunitensi sulle imprese italiane: una valutazione ex ante a livello micro» (Questioni di Economia e Finanza n. 994, dicembre 2025). Un punto innovativo del report riguarda il rischio che i prodotti cinesi, esclusi dal mercato statunitense dai dazi, vengano «dirottati» verso altri mercati internazionali (inclusa l’Europa), aumentando la concorrenza per le imprese italiane in quei territori.
Dall’analisi di Bankitalia emerge che, contrariamente a scenari catastrofici, l’impatto medio è, per ora, contenuto ma eterogeneo. Prima dello choc, gli esportatori verso gli Usa avevano un margine medio di profitto del 10,1%. Si stima che i dazi portino a una riduzione dei margini di circa 0,3 punti percentuali per la maggior parte delle imprese (circa il 75%). Questa fluttuazione è considerata gestibile, poiché rientra nelle normali variazioni cicliche del decennio scorso. Vale in linea generale ma si evidenzia anche che una serie di imprese (circa il 6,4% in più rispetto al normale) potrebbe subire perdite severe, nel caso di dazi più alti o con durata maggiore. Si tratta di aziende che vivono in una situazione particolare, ovvero i cui ricavi dipendono in modo massiccio dal mercato americano (il 6-7% che vive di solo export Usa, con margini ridotti) e che operano in settori con bassa elasticità di sostituzione o dove non è possibile trasferire l’aumento dei costi sui prezzi finali.
I tecnici di Bankitalia mettono in evidenza un altro aspetto del sistema di imprese italiane: oltre la metà dell’esposizione italiana agli Usa è di tipo indiretto. Molte Pmi (piccole e medie imprese) che non compaiono nelle statistiche dell’export sono in realtà vulnerabili perché producono componenti per i grandi gruppi esportatori. L’analisi mostra che i legami di «primo livello» (fornitore diretto dell’esportatore) sono i più colpiti, mentre l’effetto si diluisce risalendo ulteriormente la catena di produzione.
Si stanno verificando due comportamenti delle imprese a cominciare dal «pricing to market». Ovvero tante aziende scelgono di non aumentare i prezzi di vendita negli Stati Uniti per non perdere quote di mercato e preferiscono assorbire il costo del dazio riducendo i propri guadagni. Poi, per i prodotti di alta qualità, il made in Italy d’eccellenza, i consumatori americani sono disposti a pagare un prezzo più alto, permettendo all’impresa di trasferire parte del dazio sul prezzo finale senza crolli nelle vendite.
Lo studio offre una prospettiva interessante sulla distribuzione geografica e settoriale dell’effetto dei dazi. Anche se l’impatto è definito «marginale» in termini di punti percentuali sui profitti, il Nord Italia è l’area più esposta. Nell’asse Lombardia-Emilia-Romagna si concentra la maggior parte degli esportatori di macchinari e componentistica, e siccome le filiere sono molto lunghe, un calo della domanda negli Usa rimbalza sui subfornitori locali. Il settore automotive, dovendo competere con i produttori americani che non pagano i dazi, è quello che soffre di più dell’erosione dei margini. Nel Sud l’esposizione è minore in termini di volumi totali.
Un elemento di preoccupazione non trascurabile è la pressione competitiva asiatica. Gli Usa, chiudendo le porte alla Cina, inducono Pechino a spostare la sua offerta verso i mercati terzi. Lo studio avverte che i settori italiani che non esportano negli Usa potrebbero comunque soffrire a causa di un’ondata di prodotti cinesi a basso costo nei mercati europei o emergenti, erodendo le quote di mercato italiane.
Bankitalia sottolinea, nel report, che il sistema produttivo italiano possiede una discreta resilienza complessiva. Le principali indicazioni per il futuro includono la necessità di diversificare i mercati di sbocco e l’attenzione alle dinamiche di dumping o eccesso di offerta derivanti dalla diversione dei flussi commerciali globali.
Questo studio si affianca al precedente rapporto che integra queste analisi con dati derivanti da sondaggi diretti presso le imprese, confermando che circa il 20% delle aziende italiane ha già percepito un impatto negativo, seppur moderato, nella prima parte dell’anno.
E alla fine anche l’argento ha deciso di smettere i panni del comprimario. Altro che cugino povero dell’oro, altro che metallo per il servizio di posate della nonna: oggi l’argento corre, sgomita e si prende la scena. A 77 dollari l’oncia, con un balzo del 160% da inizio anno, brilla come non mai e manda un messaggio chiaro ai mercati: non sono solo un bene rifugio, sono il metallo del futuro. Parola di Oxford Economics, che non è esattamente l’ultimo blog complottista sul Web, ma una delle bussole più ascoltate dalla finanza globale essendo un’articolazione della famosa università britannica.
Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.
Quello che hai udito non è, non è Francesco. Ma gli assomiglia. Con la parafrasi di un testo «sacro» di Mogol per Lucio Battisti si può raccontare un incidente in mondovisione occorso a Vatican News, il sito che da Oltretevere dirama faccende e notizie di fede e di Curia. Il 22 dicembre col vertice del cattolicesimo raccolto nell’Aula della Benedizione in attesa degli auguri di Leone XIV, si è sentito un sussurrato «I culattoni, tutti insieme!». Ecco: quello che hai udito, caro fedele dalle Americhe alla Cina passando per Trastevere, non è Francesco anche se Francesco ha detto di più. È tornato in mente il discorso che il Papa tenne nel maggio del 2024 ai vescovi italiani.
Ammonì: «Non ammettete seminaristi gay; nella chiesa c’è già troppa frociaggine!». Oddio, sbiancarono dalle parti della Cei e il cardinal Matteo Maria Zuppi era più che madido, zuppo di sudore. Dalla sala stampa vaticana si affrettarono a far sapere che la frase di Francesco andava interpretata: non ce l’ha con i gay; ha fatto un richiamo alla gerarchia perché eviti il disordine. Troppe volte - dicevano in curia - il pontefice si è espresso in favore degli omosessuali per sospettarlo di omofobia. Ha approvato la pastorale Fiducia Supplicans - emanata dal Prefetto del Dicastero per la Dottrina della Fede Victor Manuel Fernandez detto «Tucho» per un suo saggio sull’arte e il valore del bacio - con cui si dispone la benedizione delle coppie omosessuali. Evidentemente nel Sacro Collegio la questione però è carsica. Si potrebbe dire che tra i porporati la frociaggine è oggetto più di scherno che non di studio. Dopo l’incidente all’interno del Sacro Collegio si è aperta una sotterranea caccia all’«insolente» che non ha dato esito anche se chi ha diffuso la notizia - il sito Silere non possumus di Marco Felipe Perfetti - fa nome, cognome, indirizzo e numero di matricola del cardinale autore del sussurro al veleno. La ricostruzione dei fatti secondo il sito avvalora la sua indiscrezione perché la frase viene pronunciata (è al secondo 57 dall’inizio del collegamento di Vatican News) subito prima dell’esortazione che si fa quando sta per entrare il Papa in udienza: «Surgant, omnes» (Si alzino tutti). Ora quel «I culattoni tutti insieme» può essere, e senz’altro lo è, una maldestra traduzione dal latino.
Del resto si è detto che Francesco ha allargato assai il collegio cardinalizio pescando agli angoli più remoti della terra e dunque non tutti i porporati hanno una sciolta confidenza con la lingua dei padri. Hanno invece inteso bene il discorso che ha fatto loro Leone XIV che forse non è stato avvertito, ma ha parlato come se lo fosse. Al Sacro Collegio nel fare gli auguri per l’imminente Natale ha scandito: «L’amarezza a volte si fa strada anche tra di noi quando, magari dopo tanti anni spesi al servizio della Curia, notiamo con delusione che alcune dinamiche legate all’esercizio del potere, alla smania del primeggiare, alla cura dei propri interessi, non stentano a cambiare. E ci si chiede: è possibile essere amici nella Curia romana? Avere rapporti di amichevole fraternità? Nella fatica quotidiana -ha esortato il Papa - è ̀ bello quando troviamo amici di cui poterci fidare, quando cadono maschere e sotterfugi, quando le persone non vengono usate e scavalcate, quando ci si aiuta a vicenda, quando si riconosce a ciascuno il proprio valore e la propria competenza, evitando di generare insoddisfazioni e rancori». Chissà se tra questi rancori rientra anche il chiamare i «colleghi» culattoni, espressione peraltro molto italiana. Sta di fatto che su Vatican news dell’udienza del 22 dicembre è rimasto solo un breve filmato, montato con le immagini più significative e musiche sacre. Ma senza una parola anche se, direbbe Pietro Metastasio, «dal sen fuggita più richiamar non vale».
La storia della famiglia nel bosco sta assumendo i connotati di una serie tv di genere fantasy. Ma qui non siamo su Netflix, questa è vita reale. La fiaba di Natale a Palmoli (Chieti) dove, fino a un mese fa, Catherine Birmingham e Nathan Trevallion vivevano con i loro tre bambini, una di 8 anni e due gemelli di 6, in una una casa priva di acqua, luce, rete fognaria e servizi igienici, si spezza il 20 novembre, quando gli assistenti sociali e i carabinieri eseguono un’ordinanza del Tribunale dei minori di Chieti allontanando i bambini dai genitori. Sospesa la «responsabilità genitoriale». Il trauma della famiglia del bosco diventa pubblico. E l’Italia si spacca. Chi sta con la scelta neorurale dei genitori, chi la contesta. Chi chiede un immediato ricongiungimento, chi chiede il rispetto delle decisioni della magistratura minorile.
La storia ormai la conoscono tutti. I tre bambini vengono portati in una comunità di accoglienza per minori, a Vasto, insieme alla madre che però può stare con loro solo durante i pasti. E questa è stata la situazione anche il giorno di Natale. A papà Nathan sono state concesse appena due ore e mezza con la sua famiglia, dalle 10 alle 12,30, senza nemmeno pranzare insieme. Normalmente ha accesso alla struttura solo due volte a settimana, per un’ora. Il padre, stanco e debilitato, descrive il Natale come «una notte dolorosa e molto triste».
La richiesta di ricongiungimento presentata dagli avvocati, Marco Femminella e Danila Solinas, respinta dai giudici, suscita l’indignazione generale. La responsabile del servizio minori della casa famiglia di Vasto spiega che il ricongiungimento avrebbe creato un precedente anche per le altre famiglie presenti. Il vicepremier Matteo Salvini si rivolge ai giudici: «Mettetevi una mano sulla coscienza, almeno il giorno di Natale un atto di generosità e di rispetto ve lo potevate regalare. Cattiveria istituzionale gratuita, una violenza di Stato senza senso e senza precedenti».
Per settimane si è parlato del Natale come possibile giorno del ricongiungimento. Ma niente. La famiglia resterà divisa per almeno altri quattro mesi. Il Tribunale per i minorenni dell’Aquila ha stabilito una verifica sullo stato psichico dei genitori e un’indagine psico-diagnositica sui figli. Per i magistrati si rende «necessario un congruo accertamento tecnico sulle competenze genitoriali» e hanno nominato una psichiatra che inizierà il suo lavoro il 5 gennaio e che entro 120 giorni dovrà redigere una relazione. Intanto i genitori avrebbero accettato di trasferirsi nell’abitazione messa a disposizione gratuitamente da un imprenditore locale nel periodo necessario ad adeguare il loro casale alle prescrizioni del tribunale.
Una storia che inizia nel settembre 2024, quando a causa di un’intossicazione da funghi la famiglia si reca al pronto soccorso. E da lì la loro vita diventa pubblica. La Corte d’Appello, il 19 dicembre, decide che i bambini non possono tornare con i loro genitori nemmeno per le festività natalizie. Il forte ritardo scolastico dei bimbi è stato uno degli aspetti che più hanno convinto il magistrato a togliere la potestà genitoriale alla coppia. I tre bambini, non essendo mai stati iscritti a scuola, non sanno né leggere né scrivere, stanno imparando ora l’italiano. La bambina più grande, sotto dettatura, sa scrivere solo il suo nome.
A tal proposito, malgrado la contrarietà dei genitori, i giudici e la tutrice dei bambini del bosco, l’avvocato Maria Luisa Palladino, spingono per iscrivere i tre bambini a scuola. Palladino ha contattato il sindaco di Palmoli, Giuseppe Masciulli, per organizzare con lui un recupero educativo e culturale all’Istituto comprensivo Castiglione Messer Marino-Carunchio.
Non sembra superata neanche la lesione del diritto dei minori alla vita di relazione: «Nell’interazione con gli altri bambini presenti in comunità si denota imbarazzo e diffidenza», dicono le assistenti. E il tribunale denota anche «l’insistenza con cui la madre pretende che vengano mantenute dai figli abitudini e orari difformi dalle regole che disciplinano la vita degli altri minori ospiti della comunità». La routine adottata nel bosco era la sveglia all’alba e il riposo entro le 18. Scrive l’assistente sociale: «Gli operatori sono riusciti a fare la doccia ai bambini soltanto nella serata del secondo giorno di collocamento ma solo con acqua, non volendo usare saponi».
Gli avvocati della coppia le definiscono «ricostruzioni grottesche» e puntano alla dimostrazione che lo stile di vita scelto dai genitori non costituisce un pregiudizio per il benessere dei minori. Adesso c’è solo da aspettare. Se ne riparlerà a maggio. Per provare a sbrogliare la matassa bisogna mettere in ordine le carte giudiziarie e le testimonianze. Sforzarsi di restare neutrali di fronte al carattere fiabesco di questo Christmas Carol dei giorni nostri.

