2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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Sulle date del referendum è chiaro scontro. Ancora non aperto, silente piuttosto, ma reso palese dall’esito del consiglio dei ministri di ieri quando si sarebbero dovute stabilire le due date del voto. «Non si è parlato della data per il referendum della giustizia», ha confermato uscendo, il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci. L’indecisione non è dovuta a uno scontro interno alla maggioranza, certo, ma tra Palazzo Chigi e il Quirinale. L’esecutivo vorrebbe andare al voto il prima possibile forte di sondaggi che darebbero al sì, 10 punti di distacco sul no. I magistrati, con il loro capo, Sergio Mattarella, che da presidente della Repubblica presiede anche il Csm, vorrebbero prendere tempo per provare a influenzare l’opinione pubblica verso il no, nella migliore delle ipotesi, nella peggiore attendere l’esito di qualche inchiesta che potrebbe portare acqua al loro mulino. Ad ogni modo la scelta dei giorni, che si sarebbe dovuta prendere il 22 dicembre scorso, dovrebbe arrivare a gennaio. Una volta stabilite le date da Palazzo Chigi, il decreto dovrà passare per la firma del Quirinale e da lì devono passare sessanta giorni per andare alle urne. Non meno. Per questo slitta inevitabilmente l’ipotesi di votare il 1° e il 2 marzo come precedentemente ipotizzato.
«Ne parleremo a inizio gennaio, non c’è ancora nessun accordo» ha risposto il vicepremier e leader di Forza Italia Antonio Tajani ai cronisti alla Camera chiarendo: «Bisogna farlo, abbiamo sessanta giorni». In base alla legge 352 del 1970, il referendum dev’essere indetto «entro sessanta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza (della Cassazione, ndr) che lo abbia ammesso». Ma le opposizioni si sono appigliate ad una prassi che prevede che il governo, prima di convocare il voto, debba aspettare tre mesi dalla pubblicazione della legge in Gazzetta ufficiale, avvenuta in questo caso il 30 ottobre. Quindi non prima del 30 gennaio. Più tempo per raccogliere le firme e tentare di far slittare il voto.
Quelli del no, dalle opposizioni ai magistrati, parlano di blitz dell’esecutivo, ma verrebbe da pensare il contrario osservando come si sia messa in moto una vera e propria macchina per impedire che si vada al voto prima di metà aprile. Come scrive lo stesso fattoquotidiano.it «la leva per allungare i tempi e provare a informare e coinvolgere maggiormente l’elettorato è rappresentata da una raccolta firme avviata da un gruppo di 15 cittadini che hanno presentato un nuovo quesito già ammesso dalla Cassazione. Questa novità potrebbe evitare la forzatura a cui sta lavorando il governo. A favore della raccolta firme si sono schierati i principali partiti del centrosinistra. A partire dal Pd che con la sua segretaria Elly Schlein ha invitato i cittadini alla sottoscrizione». I primi sondaggi, effettuati negli ultimi mesi, danno un vantaggio di dieci punti al sì, quindi all’approvazione del provvedimento. Tuttavia gli indecisi sono così tanti (quasi la metà degli aventi diritto al voto) da non poter essere certi del risultato. Insomma tutto può succedere e la sinistra lo sa bene.
Nel frattempo ieri si sono riuniti alla Camera la segretaria del Pd, Elly Schlein, il presidente M5s, Giuseppe Conte, e i leader di Avs Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli proprio per parlare di referendum. All’incontro, guarda caso, ha preso parte anche il presidente del comitato referendario per il no che riunisce giuristi, giudici, avvocati e società civile, Giovanni Bachelet. Se la maggioranza sta pensando a un blitz, la sinistra se non altro sta palesemente lavorando al contro blitz. «Ci mettiamo a disposizione per dare una mano al Comitato nella campagna in cui ci saremo anche noi contro la riforma Nordio. Lavoreremo per coordinare gli sforzi e farli convergere in questi mesi di lavoro. Siamo contenti dell’incontro e molto disponibili a lavorare», il commento di Schlein al termine.
«Mi sembra che si prepari una bella campagna sinfonica di tutti i protagonisti del no, quelli che lo hanno fatto in Parlamento e i cittadini che vogliono difendere le proprie garanzie di “legge uguale per tutti”», così Bachelet. «Il 10 gennaio», aggiunge, «faremo una manifestazione per lanciare l’inizio della campagna elettorale e abbiamo anche lì invitato tutti i partiti del no». Sulla data del referendum, commenta: «Devono scegliere d’intesa il governo e il presidente. Finora non l’hanno fatto, ma io sono fiducioso che verrà fatta una scelta equilibrata». Bonelli ha spiegato che «bisogna avere attenzione sulla partecipazione dei cittadini»
Quello che emerge dai fatti è che da Palazzo Chigi non si intende andare allo scontro, ma allo stesso tempo si vuole evitare di cedere a chi vorrebbe votare a maggio. La trattativa con il Colle non è chiusa, ma serviva rinunciare all’ipotesi 1 e 2 marzo per aprire un dialogo costruttivo. Il governo lo ha fatto, ora spera che entro gennaio si trovi l’accordo per andare al voto il 22 e il 23 marzo. Ma per ora non ci sarebbe alcuna garanzia. Infine va ricordato che il 5 aprile cade la Pasqua. Un bell’impiccio per il voto e per la campagna referendaria.
Una seduta fiume notturna per esaminare tutti gli ordini del giorno, quasi 250, con relativa illustrazione. È l’ultimo atto della legge di bilancio 2026 che avrà il voto finale oggi entro le 13 dopo la fiducia posta dal governo Meloni.
Tra i 95 ordini del giorno del giorno depositati ieri dalla maggioranza nell’aula della Camera c’è anche quello dell’onorevole Andrea Di Giuseppe che punta a modificare le modalità di voto per gli italiani all’estero dopo lo scandalo patronati denunciato alla Procura di Roma. L’esponente di Fdi eletto all’estero aveva denunciato, già tre anni fa, che la regolarità elettorale degli italiani residenti in Centro e Nord America era minacciata dal rischio di brogli elettorali che potrebbero ripetersi anche in occasione del prossimo referendum sulla giustizia. Nel 2022 Di Giuseppe, dopo aver spedito materiale elettorale in modo casuale, aveva scoperto che una buona parte degli iscritti nell’elenco degli italiani residenti all’estero negli Usa, almeno un terzo, era deceduto. Eppure le schede elettorali continuavano a essere spedite e probabilmente intercettate da una o più organizzazioni intenzionate a condizionare il voto per favorire alcuni candidati a scapito di altri. I patronati sarebbero stati coinvolti perché a loro si rivolgerebbero molti italiani desiderosi di votare regolarmente, pagando profumatamente anziché essere assistiti gratuitamente.
L’odg presentato da Di Giuseppe mira ad abolire il voto per corrispondenza e ad impegnare il governo ad istituire le sezioni elettorali presso ambasciate e consolati per consentire ai cittadini di votare in presenza. Ha espresso soddisfazione per questo odg l’ex leader dell’Italia dei valori Antonio Di Pietro: «Questo odg nasce da una specifica richiesta che, con il Comitato Sì Separa, abbiamo fatto all’onorevole Di Giuseppe e ha come obiettivo quello di garantire un voto più trasparente in occasione del prossimo appuntamento referendario». L’ex magistrato infatti aveva denunciato il rischio brogli: «Si stanno già costituendo gruppi di persone, che hanno come riferimento specifici partiti e sindacati, che per controllare il voto preparano le buste contenenti voti espressi all’insaputa dei diretti interessati. Permettendo agli elettori di votare in presenza, con il proprio documento di identità, eviteremmo il rischio di brogli. Ora ci auguriamo che il Parlamento promuova rapidamente un provvedimento ad hoc».
Tornando alla manovra, la terza del governo di centrodestra, con 22,3 miliardi, tra 7,9 miliardi di tagli fiscali e maggiori spese per 14,4 miliardi, punta a tenere insieme tenuta economica, con la seconda riduzione Irpef e gli incentivi alle imprese, ed equilibrio dei conti pubblici aggiungendo anche una ministretta sull’accesso alla pensione. Un testo, dice Fratelli d’Italia, che «coniuga crescita, stabilità ed equità». Per il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti «l’ammontare complessivo, inizialmente pari a 18,7 miliardi, è salito perché con l’ultimo maxiemendamento abbiamo integrato gli stanziamenti per Transizione 5.0, la Zes e sull’adeguamento prezzi». Il ministro leghista ha però precisato: «Quello che vorrei sottolineare è che siamo intervenuti su questioni che sembravano quasi impossibili. La tassazione solo al 5% degli aumenti contrattuali era qualcosa che veniva chiesto da sempre dai sindacati e l’abbiamo fatto peri lavoratori dipendenti con redditi più bassi. La tassazione all’1% dei salari di produttività credo anche che sia sintomatica della direzione verso cui si deve andare. Quindi un bilancio positivo che dimostra come tutto il governo sostiene questa linea che abbiamo impostato tre anni fa».
Siete convinti che la legge tuteli le persone oneste? Beh, vi sbagliate, perché la legge sta dalla parte di ladri e rapinatori, per lo meno se si dà retta a certe sentenze. A Perugia, infatti, la Corte d’appello non ha riconosciuto le aggravanti a carico di un uomo che aveva cercato di sottrarre uno smartphone a una donna, strappandoglielo dalle mani mentre questa era all’interno della sua vettura. Nonostante la colluttazione nata tra il malvivente - che voleva appropriarsi del cellulare - e la vittima, per i giudici non si può parlare di rapina, ma soltanto di furto aggravato e dunque il delinquente è stato condannato alla pena minima di due anni e non a quella dai cinque in su prevista nel caso in cui il tribunale avesse deciso di riqualificare l’accusa.
La faccenda potrà sembrare una sottigliezza da azzeccagarbugli abituati a interpretare codice e norme. Invece si tratta di una questione dirimente, perché sottende un concetto, ovvero che se la donna vittima del tentativo di rubarle il telefono non si fosse opposta, tutto si sarebbe concluso con un semplice furto. Invece la poveretta, mentre era nella sua macchina, ha tentato di reagire, cercando di fermare il fuorilegge, con la conseguente colluttazione. Insomma, colpa della vittima se un banale furto, per quanto aggravato, abbia fatto pensare a una rapina. Se la signora non avesse fatto resistenza le cose sarebbero andate via lisce, cioè con il telefonino nella tasca del farabutto.
A voler seguire il ragionamento dei giudici, l’uomo si è trovato nelle condizioni di dover reagire di fronte a una tizia che non voleva mollare l’osso, pardon, il telefono. Che diamine! Non si fa! Se un ladro cerca di derubarti non ci si deve opporre: si consegna il portafogli senza fiatare, così la posizione del bandito non si aggrava. E se invece qualcuno proprio non ce la fa a non opporsi alla rapina, beh bisogna considerare tra le attenuanti che il ladro è stato indotto a usare la forza da chi non intendeva cedere il maltolto. Insomma, non è colpa sua se poi c’è scappata una colluttazione: fosse stata ferma la vittima, tutto si sarebbe risolto nel migliore dei modi, cioè con il ladro in fuga insieme con il telefonino.
Siete stupiti? Sbagliate. Del resto, non è la stessa filosofia che ha portato alla condanna di un orefice a cui hanno legato la figlia e minacciato la moglie con una pistola? Lo sciagurato ha avuto l’ardire di reagire, perdendo la testa e inseguendo i rapinatori per poi scaricare loro addosso l’arma che teneva nel cassetto del negozio dopo una serie di assalti dei malviventi. I giudici gli hanno appioppato l’omicidio volontario, condannandolo a quasi 15 anni di carcere. In vita sua l’uomo non aveva mai fatto male a una mosca e la sola colpa che gli si poteva attribuire era di essersi sempre fatto gli affari suoi, lavorando come un ciuco. Ma poi, invece di alzare le mani di fronte ai rapinatori che gli puntavano la pistola, al posto di dire ai malviventi: prego, accomodatevi, prendete pure ciò che desiderate, Mario Roggero li ha inseguiti e ha sparato.
Errore, errore grave, anzi gravissimo, che oltre alla pena detentiva gli è già costato quasi 1 milione tra spese legali e risarcimenti, perché i famigliari dei rapinatori ovviamente vanno indennizzati per la perdita dei loro cari. Ai famigliari delle vittime dei malviventi, se ci scappa il morto, vanno poche migliaia di euro, anche perché chi le ha colpite di regola non ha un soldo alla luce del sole. A quelli dei delinquenti invece bisogna concederne centinaia di migliaia.
Se non fosse ormai diventata una frase banale, dopo che il generale Roberto Vannacci ci ha scritto un libro, diremmo che è il mondo al contrario. Dunque, per non scadere nel già detto, diremo che la nostra sta lentamente diventando la Repubblica dei ladri. E, purtroppo, dei giudici.
Dura vita quella del Renzemolino, prezzemolino al sapor di Matteo Renzi. Voi mettetevi nei panni del leader di Italia (quasi) viva: è il 29 dicembre e tocca anche oggi trovare un modo per finire sui giornali. Che fare? Nonna Maria che compie 106 anni ce la siamo già giocata per Natale, il dibattito sulla manovra langue, le polemiche sul ceto medio non si confanno al post panettone, figuriamoci quelle sul campo largo o larghetto. E dunque? Nei giorni scorsi Renzemolino ha provato a lanciare una nuova parola d’ordine contro Giorgialand, ma la trovata (assai lessa) non ha fatto presa. Un po’ meglio la battuta sul dibattito in Senato «durato meno del concerto di Baglioni». Ma ci vuol altro per guadagnarsi un titolo mentre l’Italia prepara i botti di Capodanno. E così ecco il colpo di genio: aggrapparsi all’uomo dei miracoli, al comico che muove le folle, al re del botteghino e della visibilità. Aggrapparsi a Checco Zalone. Alle 10.55 di lunedì 29 dicembre arriva il post. E così, anche per oggi, Renzemolino è salvo.
Ora, però, che cosa dire di Checco Zalone? Lodarlo? Criticarlo? Il rischio della banalità incombe, e poi, si sa, bisogna fare polemica per fare discutere. Così quel genio del Renzemolino ne escogita una delle sue: non interviene direttamente sul film di Checco Zalone, ma se la prende con «il tentativo della destra meloniana di intestarsi Checco Zalone scagliandolo contro l’opposizione». Un tentativo che viene definito «IMBARAZZANTE» (in maiuscolo nel post). Con aggiunta al veleno: «Ma dico almeno a Natale si può andare al cinema senza che persino i film diventino ossessioni per Fratelli d’Italia? Ma dai: occupatevi delle tasse e della legge di bilancio. E giù le mani almeno da Checco Zalone». E in effetti, come dargli torto: giù le mani almeno da Checco Zalone. Non fosse che l’unico ad aver messo le mani su Checco Zalone in queste ore è, per l’appunto, il medesimo Renzemolino.
Non esiste in rete, infatti, una sola dichiarazione di esponenti di Fratelli d’Italia sul film. Nessuno ha parlato. Non la premier, non la sorella, non i capigruppo, non un deputato, non un senatore, non un nome di prima linea, nemmeno di seconda, di terza e nemmeno di quarta linea, nemmeno un consigliere regionale e nemmeno un consigliere comunale, a dirla tutta. Non c’è praticamente nessuno che abbia messo le mani su Checco Zalone (salvo rare e insignificanti eccezioni), oltre a Renzi medesimo che per altro non risulta rappresentare la destra meloniana. L’unica dichiarazione che si riscontra è un breve video di Italo Bocchino in cui il direttore del Secolo d’Italia dice che il film di Zalone manda in crisi la sinistra. Un video del 27 dicembre, per altro, passato piuttosto inosservato (482 mi piace, 328 commenti). Ma poi, anche fosse, si può forse identificare tutta «la destra meloniana» con un modesto video di Italo Bocchino? E che senso ha invitare Italo Bocchino a tagliare le tasse, dal momento che egli non siede al governo e neppure in Parlamento?
È evidente che Italo Bocchino non c’entra. Quel video neppure. Qui siamo di fronte a un puro colpo di genio. O, meglio, di invenzione. Ancora una volta, infatti, la fantasia dell’ex premier supera la realtà: pur di attaccarsi al fenomeno Zalone per godere un po’ della sua visibilità riflessa, Renzemolino s’inventa la cattiva destra meloniana che mette le mani sul film (ma come osa? Ma come si permette?), anziché occuparsi dei problemi degli italiani (perché non parlate di tasse?). Con il risultato, per l’appunto, che l’unico a mettere davvero le mani sul film, anziché parlare di tasse, è colui che accusa gli altri di farlo. Non è fantastico? Chi ha visto Buen Camino sa che, alla faccia dei giornaloni e dei loro critici, Checco Zalone fa sempre ridere molto. Ma Renzemolino di più.
Anche perché basta andare un po’ a ritroso nel tempo per capire che cosa faceva lui quand’era premier. Anno 2016, ricordate? Uscì Quo Vado? e lui, a differenza di Giorgia Meloni, il fenomeno Zalone lo cavalcò eccome. Lanciò addirittura una campagna per sostenere il suo jobs act, contro i fanatici del «posto fisso», dicendo che bisognava uscire dalla «filosofia checcozeloniana» e irridendo i suoi critici («Ora l’hanno capito anche i radical chic»). Lo stesso Zalone parlò di telefonate e sms con cui Renzi lo ha inseguito per mesi. Eppure nessuno allora lo accusò («ma dico, Renzi, almeno a Natale si può andare al cinema senza che persino i film diventino un’ossessione per te? IMBARAZZANTE Ma dai, occupati delle tasse e della legge di bilancio. E giù le mani da Checco Zalone»). Anche se, a differenza di oggi, ci sarebbe stato ben ragione di farlo…
Che ci volete fare? Ci vuole faccia tosta per fare il Renzemolino. Ma alla fine, vedete, ancora una volta ha vinto lui. Lui che con un partito al 2% riesce a stare sempre in tv, lui che ha ottenuto nel 2025 73 interviste (dato del Fatto quotidiano), una ogni cinque giorni, più di chiunque altro (eccezion fatta per il ministro Tajani), lui che scrive libri a manetta, che compare in ogni talk, che spara sentenze dal pulpito dei suoi fallimenti, lui che fatica ormai a raccogliere i voti dei parenti ma si ritiene un fenomeno, lui che si doveva ritirare dalla politica ma continua a imperversare nelle nostre vite, ebbene lui, il re dei ballisti ha vinto anche stavolta. Perché ha sparato una minchiata senza senso su destra meloniana e Checco Zalone, sapendo benissimo che non stava né in cielo né in terra, ma che avrebbe attirato un po’ di attenzione su di lui. E ha ottenuto il suo scopo. Infatti ci è toccato scrivere quest’articolo.
La Consulta frena la corsa della Toscana verso la liberalizzazione del suicidio assistito. Ieri, la Corte ha stabilito che la legge non è illegittima nella sua interezza, ma in diverse disposizioni viola competenze statali esclusive. E benché i rilievi non riguardino il merito - il collegio, che d’altronde aveva già indicato i principi generali in base ai quali bisognerebbe permettere l’accesso alla procedura, non si oppone certo al suicidio assistito in sé - essi, tuttavia, colpiscono alcuni aspetti essenziali della legge. Si tratta di dettagli con cui Eugenio Giani sperava di mettere il turbo all’agenda radicale e progressista sul fine vita. Un obiettivo che si allontana, anche se il governatore a caldo esulta.
Intanto, i giudici hanno dichiarato incostituzionale l’articolo 2 della norma toscana, giacché individua direttamente i requisiti per ottenere il suicidio assistito, facendo riferimento alle due precedenti sentenze della Consulta: quella del 2019 sul caso di dj Fabo e quella del 2024, che introduceva alcune precisazioni sul concetto di «trattamento di sostegno vitale». Alle Regioni, ha obiettato il collegio, è «precluso cristallizzare […] principi ordinamentali affermati da questa Corte in un determinato momento storico […] e oltretutto nella dichiarata attesa di un intervento del legislatore statale». Quei verdetti, insomma, non possono essere utilizzati dai governatori come un grimaldello contro il Parlamento. La Toscana ha violato «la competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento civile e penale».
Dell’articolo 4 è stata cassata solo la parte che prevede la possibilità di affidare a un «delegato» del malato il compito di presentare l’istanza: ciò, si legge nella sentenza, «deroga vistosamente al quadro normativo fissato dalla legge n. 219 del 2017», la quale «presuppone inequivocabilmente che la volontà di interrompere le cure (ovvero, in seguito alla sentenza n. 242 del 2019, di accedere al suicidio assistito) sia espressa personalmente». Sembra una minuzia, ma in effetti è stata blindata una garanzia ulteriore rispetto ai procedimenti più sbrigativi.
Incostituzionali anche gli articoli 5 e 6: entrambi prevedono, spiega il comunicato della Corte, «stringenti tempi per la verifica dei requisiti di accesso al suicidio medicalmente assistito e la definizione delle relative modalità di attuazione». Anche questo non è un particolare marginale: Marco Cappato e soci sono da anni impegnati in una campagna per il suicidio assistito «express». E continuano a lamentare la lentezza delle aziende sanitarie locali nell’esaminare i faldoni dei pazienti. La Corte ha obiettato che, ferma restando «la necessità di una sollecita presa in carico dell’istanza del richiedente», deve sempre essere consentita «la possibilità di svolgere tutti quegli approfondimenti clinici e diagnostici» che gli esperti ritengano «appropriati». Una valutazione scrupolosa mal si concilia con la fretta degli attivisti.
Dirimente pure la bocciatura dell’articolo 7, che impegna le Asl ad assicurare il supporto tecnico e farmacologico e l’assistenza sanitaria, in vista dell’autosomministrazione della dose letale. La Consulta, di nuovo, non si è espressa sulla liceità di coinvolgere il Servizio sanitario, terreno di scontro sulla proposta di legge che discuteranno le Camere. Ha però evidenziato l’illegittimità, per la Regione, di introdurre «un livello di assistenza sanitaria ulteriore». Fatto sta che proprio il tribunale di Firenze, in un’ordinanza poi ritenuta inammissibile, aveva sollevato il problema dell’obbligo, in capo alle aziende sanitarie, di reperire dispositivi azionabili con la voce o lo sguardo, qualora il malato fosse stato privo dell’uso degli arti per praticare l’iniezione fatale. Allora, la Consulta si era limitata a respingere le argomentazioni del magistrato, in quanto non adeguatamente motivate. Ma aveva sottolineato che, se quei macchinari fossero stati davvero reperibili in breve tempo, la persona che aveva invocato il suicidio assistito avrebbe avuto «diritto ad avvalersene». La questione, quindi, rimane aperta. E non sarà risolta dalla legge toscana, benché risultino «immuni da censure» le altre disposizioni della norma «federalista», che avrebbero mero carattere organizzativo e procedurale. Match quasi pari. Assist a chi caldeggia la legge nazionale.

