2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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Dal rischio di incostituzionalità a quello di mettere in ginocchio le Corti territoriali, gli scenari più grigi erano stati paventati tutti. E invece niente. La Corte Costituzionale ha dato ragione alla misura del governo che sposta la decisione sulle convalide del trattenimento dei migranti alle Corti d’Appello. Sottraendola alle sezioni specializzate. Come stabilito in un emendamento al decreto flussi presentato poco più di un anno fa da Sara Kelany responsabile del dipartimento immigrazione di Fratelli d’Italia.
Poi a maggio, un giudice della corte d’Appello di Lecce, ritenendo che su un tema complesso come la protezione internazionale il giudicante debba essere specializzato, aveva rimesso la questione nelle mani della Corte Costituzionale. Che invece, in materia di immigrazione, ha promosso il governo a pieni voti. Diversamente dalle misure in materia di pedaggi in autostrada che saliranno del 15% o del fine vita dove il ricorso del governo contro la regione Toscana è stato accolto a metà. «Per mesi le sinistre, ong e parte della magistratura ci hanno attaccato ferocemente affermando che avremmo voluto cambiare il giudice naturale e dicendo che la norma sarebbe stata illegittima», ha commentato Kelany. «Niente di tutto questo».
Il coinvolgimento delle Corti d’Appello era nato in risposta al muro eretto dal tribunale di Roma contro i trasferimenti dei migranti in Albania, con i trattenimenti nei centri sistematicamente annullati dai giudici. Carrellate di ricorsi e altrettanti accoglimenti fotocopia.
Un’alzata di scudi da parte delle sezioni immigrazione dei tribunali civili che hanno portato l’operazione Albania ad un impasse, ad utilizzare i centri di Shengjin e Gjadër come cpr per destinatari di provvedimenti di espulsione, e quindi a congelare la funzione per cui erano nati, quella di basi per operazioni accelerate di frontiera destinate a chi sbarca da paesi sicuri.
Ma proprio questo era il punto contestato dai giudici delle sezioni immigrazione che anziché valutare le posizioni dei singoli migranti, avevano messo in dubbio il diritto da parte del governo di stilare una propria lista di Paesi sicuri. Una posizione che i giudici dichiaravano di prendere solo in punta di diritto, in linea con la Corte di giustizia europea e il principio per cui un Paese o è sicuro per tutti o non lo è.
Caso dopo caso però, con i trattenimenti dei migranti tutti sistematicamente respinti, è emersa una matrice probabilmente ideologica visto che la Corte di giustizia europea non detta ai magistrati una linea ma dà l’opportunità di un controllo giurisdizionale. Che però, curiosamente, è andato sempre in un’unica direzione. Contraria a quella del governo.
In primis Silvia Albano, a capo della sezione immigrazione del Tribunale civile di Roma, presidente di Magistratura democratica e sostenitrice di una lettura a dir poco estensiva del diritto di asilo.
Ora però in linea con le scelte del governo c’è anche l’Europa visto che nel 2026, probabilmente già a febbraio, sarà operativa la lista sui Paesi sicuri. Tra questi anche Egitto e Bagladesh, rigorosamente nella black list dei Paesi più insicuri secondo i giudici. «I riconoscimenti che stiamo ottenendo a livello europeo dimostrano che le nostre decisioni non sono prese sulla base dell’ideologia ma della legge. Le persone hanno bisogno di norme certe di capire chi può essere accolto e chi no. A beneficio anche di chi ha veramente diritto alla protezione», così il senatore Marco Scurria di Fdi. Soddisfazione dalla maggioranza, con Nicola Molteni, sottosegretario al ministero dell’Interno che spiega come la decisione della Corte conferma che la strada intrapresa dal governo per contrastare l’immigrazione irregolare, di massa, senza regole è quella giusta. «Oltre il 35% dei reati in Italia sono connessi da stranieri che diventano oltre il 50% per i reati predatori da strada. Quindi bloccare l’immigrazione illegale è funzionale per garantire sicurezza nelle nostre città».
Linea sostenuta da sempre anche dall’europarlamentare della Lega Anna Cisint che punta il dito contro i rallentamenti causati da iniziative giudiziarie «su un tema che invece richiede decisioni rapide e responsabili. È sempre più ovvio quanto nel nostro Paese sia necessaria la separazione delle carriere. La gestione dei temi legati ai migranti irregolari, ai trattenimenti e alle procedure di estradizione è condizionata dall’azione congiunta di una parte della politica e della magistratura che operano secondo logiche ideologiche».
L’appuntamento referendario del prossimo marzo costituisce un’occasione da non perdere per una svolta riformatrice delle istituzioni. Si fronteggiano oggi due visioni culturali diametralmente opposte: da un lato il partito del No a tutti i costi, che col pretesto della sacralità della Costituzione nulla vuole cambiare - e che non a caso si identifica in un ben determinato schieramento politico e ideologico - e dall’altro il fronte del Si, più trasversale e multitasking, che abbraccia, oltre all’ala filogovernativa, anche una certa parte dell’elettorato che si riconosce nei valori della sinistra più moderata, moderna e consapevole.
Al centro del dibattito c’è il futuro assetto della magistratura, tra indipendenza e garanzie del cittadino.
Partiamo dalla prima, e cominciamo col chiederci se la riforma inciderà in maniera positiva sull’autonomia della magistratura, sia come ordine, contro i tentativi di condizionamento provenienti dalla politica, e sia al livello del singolo magistrato, a tutela della libertà di ciascun giudice di decidere secondo scienza e coscienza, a fronte di eventuali pressioni da parte di singoli soggetti o centri di potere interni alla magistratura stessa.
La risposta è certamente sì.
Cominciamo col dire che l’articolo 104 della Costituzione, come riformulato, prevede al primo comma che «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente». Inoltre, in base al quarto comma, i rapporti di forza tra componenti laici e togati all’interno dei due Csm (della magistratura giudicante e requirente) resteranno invariati (rispettivamente, un terzo e due terzi). Mentre l’Alta Corte, a cui secondo l’articolo 105 spetterà la giurisdizione disciplinare nei confronti dei giudici e dei pubblici ministeri, risulterà composta da 15 giudici, di cui tre nominati dal presidente della Repubblica - ovvero la massima istituzione di garanzia dello Stato -, tre estratti a sorte da un elenco di soggetti altamente qualificati eletti dal Parlamento in seduta comune, e altri nove estratti a sorte dai magistrati giudicanti e requirenti (sei giudici e tre pubblici ministeri) con almeno venti anni di esercizio delle funzioni giudiziarie, e che svolgano, o abbiano svolto, funzioni di legittimità presso la Suprema Corte di Cassazione.
Come si vede, quindi, l’indipendenza esterna della magistratura resterà garantita al massimo grado contro le invasioni di campo della politica.
Passiamo poi alla indipendenza interna, che uscirà notevolmente rafforzata dalla riforma attraverso il sistema del sorteggio, il vero e proprio perno intorno al quale ruoterà il nuovo assetto della magistratura, e contro il quale, nella reale sostanza, anche se non nella forma, si levano ora le voci di protesta delle correnti, dove con tale termine si intendono le conventicole interne all’Associazione nazionale magistrati, siano esse di destra, di centro o di sinistra.
Già molti anni fa, chi scrive rassegnò le proprie dimissioni dall’Anm perché non condivideva le logiche spartitorie e il ruolo di centro occulto di potere assunto dall’organismo sindacale delle toghe, soprattutto a seguito della riforma Mastella, che, sostituendo il vecchio sistema basato sull’anzianità di servizio con degli astratti e opinabili criteri di merito e attitudini, aveva di fatto finito con l’attribuire al Csm, e quindi alle correnti, una pressoché assoluta discrezionalità nelle procedure di nomina dei capi degli uffici giudiziari, sia giudicanti che requirenti.
Una discrezionalità di cui, invero, si è fatto un pessimo uso, e che di fatto è sconfinata nell’arbitrio, come ha dimostrato la vicenda Palamara.
Da allora, avvolta nella cappa soffocante delle correnti, la magistratura è diventata sempre più un luogo burocratico e senza anima, asfittico e soffocante, ideologicamente orientato, autoreferenziale e separato dal contesto sociale. Facendo leva sugli appetiti carrieristici, si è sacrificata la libertà dei singoli magistrati sull’altare della onnipotente pervasività delle conventicole associative.
Ma torniamo alla riforma.
Cosa vuol dire precisamente «separazione delle carriere»? Perché il fatto di separare le carriere di giudici e pubblici ministeri aumenterà le garanzie del cittadino? E perché il sorteggio dei componenti togati dei Csm garantirà una maggiore autonomia dei magistrati?
Per diverse buone ragioni.
In primo luogo, separare le carriere vuol dire che non solo gli avanzamenti in carriera, ma anche le promozioni e tutto ciò che riguarda le sorti professionali dei magistrati (e quindi, ad esempio, anche le ambite nomine alla Scuola Superiore della Magistratura) non verranno più decise nella comune «stanza di compensazione» di un unico Csm, ma da due Csm diversi, uno per i giudici e un altro per i pubblici ministeri. Quindi, non accadrà più che i pubblici ministeri decidano sulle carriere e sulle vicende disciplinari dei giudici e viceversa. Questo non potrà che rafforzare l’autonomia sia degli uni che degli altri.
In secondo luogo, il potere dell’Anm ne uscirà di fatto fortemente ridimensionato, in quanto la separazione delle carriere e il sorteggio ostacoleranno gli accordi spartitori delle correnti, liberando i magistrati dal soffocante giogo delle conventicole. Aumenteranno di conseguenza sia il tasso di autonomia interna della magistratura che le garanzie dei cittadini.
In terzo luogo, il sorteggio dei componenti togati del Csm reciderà il rapporto tra elettore ed eletto, rendendo più trasparenti le nomine dei capi degli uffici, che pertanto si baseranno più su criteri meritocratici che di appartenenza ideologica, facendo quindi anche diminuire, auspicabilmente, il numero dei ricorsi al giudice amministrativo, che negli ultimi anni sono esponenzialmente aumentati e hanno determinato un danno per l’immagine della magistratura.
Questi sono tutti fattori che rafforzeranno concretamente l’autonomia e l’imparzialità dei giudici, sia rispetto alle correnti che all’ufficio del pubblico ministero, rendendo, nel complesso, le decisioni di tutti i magistrati più trasparenti, autorevoli e libere da interferenze esterne. Di conseguenza, ci troveremo di fronte anche a una magistratura più efficiente e più attenta alle garanzie dei cittadini.
Ma separare le carriere vuol dire anche andare verso una maggiore specializzazione e aumentare la professionalità del magistrato. Il mestiere del pubblico ministero è infatti profondamente diverso da quello del giudice, perché occorrono specifiche competenze in vari settori del sapere quali l’informatica, la dattiloscopia, la medicina legale, la psichiatria, la grafologia e la criminologia, che sono propri più dell’inquirente che del giurista. Senza contare che il coordinamento della polizia giudiziaria richiede particolari attitudini e percorsi esperienziali diversi, oltre che, a volte, valutazioni di opportunità e persino di natura economica (costi-benefici) che sono estranee, in linea di principio, alla cultura della giurisdizione intesa in senso stretto. Una cosa è infatti scrivere una sentenza, ben altro è disporre od eseguire una perquisizione, svolgere un sopralluogo, oppure stabilire quante unità di polizia giudiziaria impiegare in una certa indagine.
In tal senso, la maggiore specializzazione consentirà anche una migliore qualità delle indagini, e un più efficace contrasto di ogni forma di criminalità.
E ancora, con il sorteggio verranno meno le gravi opacità emerse dallo scandalo Palamara, e sarà possibile recuperare almeno in parte la fiducia dei cittadini verso l’istituzione della magistratura, che viene oggi sempre più vista come una corporazione a sé, piuttosto che un ordine autonomo e indipendente al servizio dei cittadini.
Un’ultima importante osservazione. Il fatto che un’associazione privata come l’Anm, e quindi per definizione permeabile alla politica, possa decidere di fatto le nomine dei procuratori della Repubblica costituisce un’anomalia tutta italiana, che non ha precedenti nel mondo occidentale e determina un pericolo esiziale per gli equilibri democratici del Paese. Votare a favore della riforma vuol dire perciò porre riparo a tale anomalia e ricondurre l’Italia sui binari della normalità attraverso un più corretto bilanciamento dei poteri dello Stato.
Che altro dire? È questa la migliore delle riforme possibili? Forse no. Ma, come si sa, il meglio è nemico del bene, soprattutto se l’alternativa alla riforma è il sistema di potere correntizio anestetizzato dal non-pensiero delle false ideologie.
Soprattutto, questa è una riforma a tutela dei cittadini, ma anche di quei tanti silenziosi magistrati che non aspettano altro che di essere liberati dalla tirannia delle conventicole, e che per troppo tempo hanno dovuto tacere per non incorrere nell’ostracismo e nell’emarginazione.
Piuttosto, quel che è più grave è che - qualunque sarà l’esito del referendum - con l’abbracciare in maniera così drastica la causa del No, l’Anm si è fatto soggetto politico, e questo ha già determinato e determinerà un ancor più grave danno all’immagine dell’intera magistratura. Danno che sarà difficilmente sanabile nel breve periodo, e che non basteranno a riparare né le fake news o le improbabili chiamate alle armi a difesa della democrazia, e né tantomeno le coccarde sulla toga.
di Paolo Itri
Magistrato e scrittore, presidente di sezione della Corte tributaria di Napoli
La sentenza della Corte Costituzionale sulla legge per il fine vita potrebbe, ma su questo argomento il condizionale è doveroso, motivare il Parlamento a varare una legge nazionale che disciplini una volta per tutte e per tutti la materia. In questo senso, riporta l’Ansa, che ha interpellato diverse fonti di maggioranza, la commissione Affari sociali del Senato è pronta a riprendere i lavori sul ddl in materia di fine vita al rientro dalla pausa natalizia. Già dal 7 gennaio si potrà procedere a una convocazione delle commissioni riunite Affari sociali e Giustizia, dove potrà riprendere l’esame del testo interrotto dalla sessione di bilancio.
Alla luce dell’ultima sentenza della Corte Costituzionale sulla legge toscana, secondo le stesse fonti del centrodestra, è in atto una fase di studio e di approfondimento che potrebbe portare anche a una riapertura del termine per la presentazione degli emendamenti. Sulla necessità di procedere non ha dubbi il capogruppo al senato di Forza Italia, Maurizio Gasparri. «Bisogna fare una legge nazionale», dice Gasparri alla Verità, «prima che Regioni e Corte Costituzionale causino guasti maggiori. Non è facile trovare un punto di sintesi, ma bisogna trovarlo. La sentenza della Consulta in realtà mette dei paletti molto forti rispetto alla legge toscana ma lascia alcuni spiragli aperti al ruolo del servizio sanitario nazionale, in termini tecnici difficili da aggirare. È una delle questioni che in Senato è ancora in corso di approfondimento. Ovvio che», aggiunge Gasparri, «piacciano o meno, le sentenze della Corte determinano un orientamento. Valorizziamo i paletti che pone arginando gli sconfinamenti delle Regioni ma riflettiamo su alcune indicazioni. È un tema delicato che non si può affrontare con superficialità. Una deriva eutanasia nella società c’è e va arginata, tra mille problemi e difficoltà». «Dal mio punto di vista la sentenza non incide negativamente sull'impianto della nostra legg», ha detto all’Agi Ignazio Zullo (Fdi), uno dei relatori del testo presentato dalla maggioranza al Senato, «anzi valorizza il percorso delle cure palliative, la necessità di tempi più lunghi nella valutazione delle condizioni in cui versa la persona che chiede di essere aiutata a porre fine alla propria vita, l’organizzazione dei comitati etici e l’impossibilita' che la richiesta possa avvenire per delega».
È il ruolo del servizio sanitario nazionale ad essere il punto che divide più di tutti gli altri il centrodestra (che vuole escludere il Ssn dalla pratica del suicidio assistito) dalla sinistra (che invece vuole che il Ssn si faccia carico, in caso di richiesta, di questa prestazione). Nella sentenza, la Corte precisa che «la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, della legge regionale Toscana n. 16 del 2025 lascia intatto il diritto della persona, in relazione alla quale siano state positivamente verificate le condizioni per l’accesso al suicidio medicalmente assistito, di ottenere dalle aziende del servizio sanitario regionale il farmaco, i dispositivi eventualmente occorrenti all’autosomministrazione, nonché l’assistenza sanitaria anche durante l’esecuzione di questa procedura, come del resto affermato nella ricordata sentenza n. 132 del 2025, che riveste, da questo punto di vista, portata auto applicativa». Dunque, un ruolo il Ssn deve svolgerlo, seppure di assistenza e contorno, oltre che per la fornitura di farmaco e dispositivi. Il senatore del Pd Bazoli, vicepresidente del gruppo dem a Palazzo Madama, vede uno spiraglio: «Direi che, sotto il profilo del ruolo del Ssn», commenta Bazoli alla Verità, «la parte rilevante di questa sentenza è quella in cui ribadisce a chiare lettere che la persona che si trova nelle condizioni stabilite dalla Corte ha “il diritto” di ottenere dalle aziende sanitarie locali il farmaco, gli strumenti necessari e l’assistenza sanitaria opportuna per eseguire il proposito di suicidio. È una conferma importante, alla quale il legislatore nazionale ovviamente non può in alcun modo derogare. È un diritto pienamente riconosciuto e dunque pienamente eseguibile».
La Regione Toscana ha già messo in movimento i propri uffici per correggere la legge cassando o modificando i numerosi articoli bocciati dalla Corte. «La Corte costituzionale», dichiarano la segretaria nazionale dell’Associazione Luca Coscioni Filomena Gallo e il tesoriere Marco Cappato, «ha dichiarato infondata la richiesta del governo di cancellare la legge regionale della Toscana dell’Associazione Luca Coscioni sulle procedure di fine vita. È una decisione importante anche perché conferma il ruolo del servizio sanitario nazionale. Ora ripresenteremo il testo rivisto dalla Corte in tutte le Regioni». Le distanze tra centrodestra e sinistra restano intatte: si tratta di capire se esista una maggioranza convinta della necessità di legiferare. In assenza, la legislatura si chiuderà senza un testo approvato.
Il processo diplomatico ucraino prosegue nei suoi percorsi tortuosi. Ieri, il ministro degli Esteri di Kiev, Andrii Sybiha, ha respinto l’accusa russa, secondo cui l’Ucraina avrebbe effettuato un attacco contro la residenza di Vladimir Putin. «Non è mai avvenuto alcun attacco del genere», ha dichiarato Sybiha, per poi aggiungere: «La Russia ha una lunga storia di false affermazioni: è la loro tattica distintiva». Del resto, l’altro ieri, Volodymyr Zelensky aveva bollato le accuse del Cremlino come «una completa invenzione volta a giustificare ulteriori attacchi contro l’Ucraina».
Di parere opposto continua invece a mostrarsi Mosca. Ieri, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, ha accusato Kiev di aver condotto un «attacco terroristico», volto a «ostacolare gli sforzi del presidente Trump per facilitare una risoluzione pacifica del conflitto ucraino». «Vediamo che lo stesso Zelensky sta cercando di negarlo, e molti media occidentali, facendo il gioco del regime di Kiev, stanno iniziando a diffondere la narrazione che ciò non è accaduto. Si tratta di affermazioni assurde», ha proseguito Peskov, specificando inoltre che «la Russia continuerà il processo di negoziazione e il dialogo principalmente con gli americani». «Non credo che dovrebbero esserci prove se viene condotto un attacco di droni di tale portata, che è stato fermato grazie al lavoro ben coordinato del sistema di difesa aerea», ha continuato il portavoce del Cremlino. Nel frattempo, il premier indiano, Narendra Modi, si è detto «profondamente preoccupato» per «le notizie relative all’attacco alla residenza» di Putin, sottolineando che «gli attuali sforzi diplomatici rappresentano la strada più praticabile per porre fine ai combattimenti e raggiungere la pace». Ricordiamo che Mosca e Nuova Delhi hanno ulteriormente rafforzato i loro rapporti, come testimoniato dal recente viaggio dello zar in India.
In questo quadro, le relazioni tra Stati Uniti e Russia appaiono articolate. Da una parte, i due Paesi mostrano un avvicinamento reciproco. «L’amministrazione statunitense sta conducendo un lavoro di intermediazione attivo e mirato», ha dichiarato il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, aggiungendo che «l’iniziativa strategica spetta interamente all’esercito russo». Tutto questo, mentre, lunedì, Donald Trump aveva ostentato irritazione per la notizia dell’attacco alla residenza del presidente russo. «Il presidente Putin me ne ha parlato stamattina presto. Ha detto di essere stato attaccato. Non va bene», aveva affermato l’inquilino della Casa Bianca. Dall’altra parte, Mosca ha tuttavia espresso preoccupazione per la linea dura, promossa da Trump nei confronti dell’Iran. Peskov, ieri, ha infatti difeso le strette relazioni tra la Russia e la Repubblica islamica, esortando sia Washington che Teheran a evitare un’escalation. La posizione del portavoce del Cremlino è stata espressa dopo che, lunedì, il presidente americano ha minacciato di «fare a pezzi» il regime khomeinista, qualora quest’ultimo dovesse riprendere il suo programma nucleare e balistico.
In tutto questo, Zelensky ha reso noto lunedì che gli Stati Uniti hanno proposto all’Ucraina garanzie di sicurezza per 15 anni: un’offerta che Kiev considera troppo timida, chiedendo che il termine sia invece fissato a 50 anni. Il presidente ucraino e quello americano restano inoltre distanti sulla questione del destino del Donbass: area da cui il Cremlino vuole che le forze di Kiev si ritirino completamente. Dall’altra parte, ieri Zelensky ha annunciato non solo che i leader della coalizione dei volenterosi si incontreranno in Francia il 6 gennaio ma anche che è in fase di discussione l’eventualità di un impiego di truppe americane per attività di peacekeeping in territorio ucraino. Un punto su cui, almeno fino a ieri sera, la Casa Bianca non ha rilasciato commenti.
Nel frattempo, i leader europei continuano a tentare di acquisire peso nel processo diplomatico. «Stiamo portando avanti il processo di pace», ha affermato Friedrich Merz, dopo aver tenuto nuove consultazioni con i partner europei e canadesi. «Ora servono trasparenza e onestà da parte di tutti, anche della Russia», ha continuato il cancelliere tedesco. «La pace è all’orizzonte, non c’è dubbio che siano accaduti fatti che lasciano sperare che questa guerra possa finire, e anche piuttosto in fretta, ma è pur sempre una speranza, ben lungi dall’essere certa al 100%», ha dichiarato, dal canto suo, il premier polacco, Donald Tusk, per poi specificare: «Quando dico che la pace è all’orizzonte, mi riferisco alle prossime settimane, non ai prossimi mesi o anni. Entro gennaio, dovremo unirci tutti per prendere decisioni sul futuro dell’Ucraina, sul futuro di questa parte del mondo». Secondo il Guardian, Tusk «ha suggerito che Kiev dovrà scendere a compromessi sulle questioni territoriali». Infine, fonti vicine a Emmanuel Macron hanno riferito che non ci sono prove dell’accusa russa di un attacco ucraino contro la residenza di Putin.
In tutto questo, ieri Mosca ha reso noto di aver schierato i propri missili Oreshnik, con capacità nucleare, in territorio bielorusso. Stando al ministero della Difesa russo, questi missili hanno una gittata di circa 5.000 chilometri. Nel frattempo, la Marina militare ucraina ha affermato che due navi civili sono state colpite a seguito di un attacco di Mosca nel Mar Nero.

