2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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«Il suo sogno era di arrivare in Europa», è partito «dalla Libia in guerra per rincorrere il suo sogno», aveva «il sogno di arrivare in un Paese in pace e democratico». L’articolo del Corriere della Sera sulla storia di Alaa Faraj Abdelkarim Hamad sembra Il favoloso mondo di Amélie: è tutto un sogno. Nel 2017, il giovane libico fu identificato dalla giustizia italiana come uno dei cinque scafisti di un barcone che, nella notte di Ferragosto di dieci anni fa, venne trovato con dentro i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante il viaggio. Malgrado le testimonianze che ne facevano uno degli organizzatori della traversata criminale, e malgrado le condanne, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha graziato, anche sull’onda di una campagna mediatica con pochi precedenti: dal programma di Rai3, Il fattore umano, a una sua raccolta di lettere pubblicata da Sellerio con il titolo Perché ero ragazzo. Come siano davvero andate le cose su quel barcone lo sanno solo i superstiti, ma in fondo, per il gigantesco dispositivo giustificazionista che si è messo in moto, la cosa è secondaria. Scafista, non scafista: fa davvero tutta questa differenza? In fondo gli scafisti non sono essi stessi dei poveri cristi travolti da un insolito destino? È questo l’obbiettivo finale di una campagna in corso da tempo: togliere allo scafista ogni stigma criminale, farne una vittima o, perché no, magari un eroe.
Un salto logico e concettuale già allegramente compiuto, qualche settimana fa, da Ilaria Salis, che al Parlamento europeo ha definito gli scafisti come coloro che «organizzano l’attraversamento di un confine chiuso per persone che hanno scelto volontariamente di partire e pagano per il servizio. Un servizio basato sul consenso e che non avrebbe motivo di esistere se ci fossero vie legali e sicure per la migrazione». Un vero e proprio elogio dello scafista, nobilitato da traballanti paralleli storici, in riferimento a quei «pescatori e montanari» che durante la seconda guerra mondiale «organizzarono reti clandestine per facilitare la fuga in Francia degli ebrei attraverso un confine chiuso e militarizzato. Compievano un’azione illegale, ma eticamente giusta. Di norma, come riportano le fonti storiche, si facevano pagare per il servizio offerto».
Vogliamo dire «scafista eroe»? Chi non ha problemi a dirlo è Stella Arena, avvocato del foro di Nola, che in un colloquio con «L’equipaggio della Tanimar» (ovvero «un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma» che nel 2024 ha svolto una crociera «nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo») sul sito meltingpot.org ha dichiarato: «L’autore del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene apostrofato in molti modi. “Scafista” perché guida materialmente lo scafo. Potremmo tradurre letteralmente dal Protocollo di Palermo il termine smuggler, contrabbandiere. Possiamo chiamarlo “capitano”, come ultimamente viene apostrofato dopo il film di Garrone perché, inconsapevolmente o meno, si trova a guidare un’imbarcazione. A me piace chiamarlo, “eroe criminale”, che è un termine coniato dal professore della Federico II Pasquale Palmieri, in un saggio». Eroe criminale: un po’ come ladro gentiluomo, insomma.
Questa ardita giravolta linguistica non nasce ora. Lo Scafisti official fan club diede il meglio di sé, in particolare, due anni fa, quando la Meloni annunciò di aver reso il traffico di esseri umani reato universale. Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, si indignò: «Poi un giorno qualcuno spieghi a Meloni, Salvini e a chi li vota che la gente non parte per colpa degli scafisti, ma perché noi siamo ricchissimi e loro poverissimi, perché gli abbiamo rubato tutto e portato la guerra in casa, in tutto il globo terracqueo». Stefano Cappellini di Repubblica rilanciò: «L’espressione “trafficanti di esseri umani” è di per sé un’invenzione narrativa della destra, un’arma di distrazione: i migranti non si fanno “trafficare” dagli scafisti, vogliono un futuro per sé e i loro figli e usano i mezzi che restano quando ogni porta è chiusa». Eleonora Camilli, giornalista per Redattore sociale, puntualizzava: «Meloni usa “scafisti” e “trafficanti” come sinonimi. Per “scafista” si intende chi è alla guida dell’imbarcazione. Il “trafficante” è chi organizza i viaggi all’interno di una rete internazionale e difficilmente si imbarca per un viaggio di morte. Ma la confusione non è casuale». La scrittrice Ginevra Bompiani aggiungeva, a Zonabianca: «I trafficanti non sono gli scafisti. Gli scafisti sono dei disgraziati, saranno anche antipaticissimi, ma sono dei disgraziati che vengono buttati, messi nelle navi dove corrono gli stessi pericoli…».
Un report del 2021 di Arci Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline Europe, faceva poi il salto definitivo. Dopo aver distinto cinque fattispecie (il «migrante-capitano forzato», il «migrante-capitano di necessità», il «migrante-capitano retribuito», il «capitano dell’organizzazione» e poi i vari «casi «misti»») il documento delle Ong tesseva l’elogio di tutte queste figure: «Attraversare la frontiera, oppure aiutare qualcuno a farlo, non dovrebbe essere di per sé un reato». E ancora: «La nostra ferma convinzione è che l’atto di guidare una barca e di trasportare migranti non dovrebbe essere di per sé un crimine. Le ragioni dietro la decisione di qualcuno di guidare una barca - che sia per il proprio progetto migratorio, o sotto minaccia di violenza, o per incentivi monetari - non modifica questa posizione». Ma quali eroi criminali: eroi e basta, a questo punto.
La famiglia nel bosco non torna a casa per Natale e dovrà sottoporsi a una perizia psichiatrica: il tribunale decide di completare la rieducazione dei genitori. Ne parliamo con Luca Telese e Red Ronnie.
A ridosso delle feste di Natale, sull’Ucraina è piombata la rappresaglia della Russia con oltre 30 missili e 650 droni. L’allerta era già massima: il presidente russo, Vladimir Putin, aveva negato la possibilità di un cessate il fuoco per le festività e la scorsa settimana aveva promesso una risposta russa agli attacchi ucraini alle petroliere nel Mar Nero. Dopo i bombardamenti, il ministero della Difesa russo, nel rivendicare i raid, ha affermato che sono stati condotti «in risposta agli attacchi terroristici dell’Ucraina contro obiettivi civili in Russia».
Il primo ad aspettarsi la risposta russa è stato il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Qualche ora prima degli attacchi, il leader di Kiev ha dichiarato: «È nella natura» di Mosca «sferrare un attacco massiccio al nostro Natale», che da due anni viene celebrato il 25 dicembre anziché il 7 gennaio. E ha aggiunto: «Stiamo approfondendo nuovamente la questione della difesa aerea e della protezione delle nostre comunità». Di conseguenza, lunedì sera, su Telegram, Zelensky ha condiviso le sue indicazioni: «I militari devono prestare attenzione direttamente e proteggere al meglio delle loro possibilità. Non è facile, perché purtroppo c’è carenza di equipaggiamento per la difesa aerea. E la gente deve prestare attenzione in questi giorni perché questi “compagni” possono colpire: niente è sacro».
Nelle prime ore di ieri, l’allarme aereo è scattato su tutto il territorio ucraino, con gli attacchi che sono stati segnalati a Kiev e in altre 13 regioni. E dato che la parte occidentale dell’Ucraina è stata presa particolarmente di mira, anche i caccia della Polonia sono decollati al fine di proteggere lo spazio aereo e «lo stato di prontezza» è stato raggiunto «dai sistemi di difesa aerea terrestri» e «dai sistemi di ricognizione radar» polacchi. Zelensky su X ha subito scritto: «Putin non riesce ancora ad accettare di dover smettere di uccidere» e «questo significa che il mondo non sta facendo pressioni a sufficienza» su Mosca. Il leader di Kiev ha anche sottolineato che si tratta di un massiccio attacco «alla nostra energia, alle infrastrutture civili, praticamente a tutta l’infrastruttura della vita». Si contano almeno tre morti nelle regioni di Kiev, Khmelnytskyi e Kharkiv, tra cui un bambino di quattro anni, e oltre dieci feriti. E ancora una volta, i cittadini ucraini sono rimasti senza corrente, soprattutto nelle regioni di Rivne, Ternopil e Khmelnytskyi. A Odessa, la prima a essere colpita, sono stati danneggiati più di 120 edifici e a riportare danni sono anche le infrastrutture energetiche e portuali.
Anche sul campo Mosca continua ad avanzare: il ministero della Difesa russo ha annunciato che è stato conquistato il villaggio di Andreevka, situato nella regione di Dnipropetrovsk. Ma non solo. Nella regione di Donetsk, a Siversk, le truppe ucraine si sono ritirate. A renderlo noto è stato lo Stato maggiore delle forze armate di Kiev su Telegram: «Per preservare la vita dei nostri soldati e la capacità di combattimento delle unità, i difensori ucraini si sono ritirati dall’insediamento».
E se i bombardamenti procedono a tappeto, le trattative di pace proseguono senza accelerazioni. Che l’esito positivo non sia dietro l’angolo è evidente dalle parole del portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: «Non possono essere considerati una svolta» i negoziati tra la delegazione russa e quella americana a Miami, ma si tratta di un «work in progress». Al quotidiano Izvestia, Peskov ha precisato che «la cosa principale era ricevere informazioni dagli americani sul lavoro preparatorio svolto con gli europei e gli ucraini e, in base a ciò, capire in che misura questo lavoro preparatorio corrisponda allo spirito di Anchorage». Peraltro, che l’orizzonte della fine della guerra non sia così vicino sembra emergere anche dalle dichiarazioni del viceministro Esteri russo, Sergej Ryabkov. Parlando delle relazioni bilaterali tra Mosca e Washington, ha reso noto che pur avendo affrontato «nel ciclo di contatti» gli aspetti «irritanti» che ostacolano la normalizzazione dei rapporti, «non sono stati compiuti progressi significativi» visto che «le questioni principali restano irrisolte». E ha annunciato che «il prossimo round» in tal senso potrebbe svolgersi «all’inizio della primavera».
A non essersi sbilanciato sui negoziati per la pace è il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump: «I colloqui su Ucraina e Russia stanno procedendo bene» ha fatto sapere da Mar-a-Lago, ribadendo che «c’è un odio enorme tra questi due leader, tra il presidente Putin e il presidente Zelensky».
Il leader di Kiev è stato intanto informato dai negoziatori Rustem Umerov e Andrii Hnatov sull’esito dei colloqui tra la delegazione ucraina e quella americana dello scorso weekend. A tal proposito, ha dichiarato: «Abbiamo lavorato in modo produttivo con i rappresentanti del presidente Trump e ora sono state preparate bozze di diversi documenti. In particolare, ci sono documenti riguardanti le garanzie di sicurezza per l’Ucraina, il ripristino e la struttura di base per porre fine a questa guerra». E attende «con impazienza di proseguire il dialogo con gli Stati Uniti». Nel tentativo di aumentare la pressione sulla Russia, si è poi sentito telefonicamente con il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen. I due hanno discusso «dell’importanza di sostenere la resilienza dell’Ucraina e di rafforzare le nostre posizioni al tavolo dei negoziati».
La Finlandia si prepara a innalzare il limite massimo di età dei riservisti fino a 65 anni, rafforzando in modo significativo il proprio sistema di difesa territoriale. La riforma, firmata dal presidente della Repubblica e destinata a entrare in vigore dal 1° gennaio 2026, estenderà l’obbligo di permanenza nella riserva militare per decine di migliaia di cittadini, in un Paese che considera la difesa nazionale un pilastro costituzionale. La Costituzione finlandese, infatti, stabilisce che ogni cittadino ha il dovere di partecipare alla difesa dello Stato, nei tempi e nei modi stabiliti da una legge ordinaria che disciplina la coscrizione. Fino a oggi, il sistema prevedeva che gli uomini fossero chiamati al servizio militare obbligatorio a partire dai 18 anni, con una durata variabile dai sei ai 12 mesi, al termine dei quali entravano nella riserva.
Il limite massimo di età era fissato a 50 anni per la truppa e a 60 anni per sottufficiali e ufficiali. Con la nuova normativa, invece, tutti i riservisti resteranno mobilitabili fino al compimento dei 65 anni, uniformando il sistema e prolungando di 5 o 15 anni - a seconda del grado - la permanenza in riserva. Secondo le stime del ministero della Difesa, questa misura consentirà di aumentare la riserva di circa 125.000 unità nei prossimi anni, portandola progressivamente verso la quota di un milione di cittadini mobilitabili entro il 2031. Un bacino di forza significativo, che si aggiunge a una forza armata permanente relativamente ridotta ma altamente addestrata, pensata per reagire rapidamente in caso di crisi. Il ministro della Difesa Antti Häkkänen ha spiegato che l’innalzamento del limite di età risponde al mutato contesto di sicurezza regionale: «Il rafforzamento della riserva aumenta la capacità di difesa della Finlandia in modo rapido ed efficace», ha dichiarato, sottolineando come l’esperienza e le competenze dei riservisti più anziani rappresentino una risorsa preziosa. Häkkänen ha inoltre precisato che la riforma non implica una mobilitazione automatica, ma amplia il bacino di personale che potrebbe essere richiamato in caso di necessità.
La riforma va letta nel quadro del profondo mutamento strategico vissuto dalla Finlandia, che nel 2023 ha abbandonato la sua tradizionale neutralità per aderire alla Nato: una scelta chiaramente dettata da una possibile minaccia militare russa. In questo contesto, l’ampliamento della riserva rappresenta uno degli strumenti principali di deterrenza, fondato sulla capacità di mobilitare rapidamente l’intera società in caso di crisi. La leva obbligatoria, infatti, continua a godere di un consenso molto elevato: secondo sondaggi recenti dell’Advisory board for defence information, oltre l’80% dei finlandesi si dichiara favorevole al mantenimento del sistema di coscrizione come irrinunciabile pilastro della difesa nazionale. Un dato che contribuisce a spiegare perché l’innalzamento del limite di età dei riservisti venga presentato da Helsinki non come una misura eccezionale, ma come un adeguamento strutturale a un contesto di sicurezza europea profondamente cambiato.
Il Tribunale civile di Roma ha rigettato l’istanza di nominare un amministratore di sostegno per Vittorio Sgarbi presentata, due mesi fa, da sua figlia Evelina che chiedeva, appunto, la nomina di un tutore per il padre in seguito alla profonda depressione che lo aveva colpito all’inizio dell’anno. Quindi il grande Vittorio Sgarbi, come dice il professor Ugo Ruffolo, difensore legale del noto critico d’arte, «è stato ritenuto perfettamente capace di intendere e di volere». Ma c’è un ma: perché una psicoterapeuta, nominata dal tribunale stesso, dovrà stabilire se Vittori Sgarbi ha quella stessa lucidità nelle «decisioni di particolare complessità e rilevanza» con specifico riferimento «alla gestione straordinaria del patrimonio e alla scelta di contrarre matrimonio» nonostante che sia riconosciuto il valido sostegno affettivo della sua compagna, che vorrebbe sposare, e di sua sorella, Elisabetta Sgarbi, a tutti nota nel mondo dell’editoria, della cultura e del cinema.
Ci appaiono due decisioni che mostrano delle contraddizioni. È noto, infatti, che molti artisti, creatori, filosofi e uomini d’azione sofferenti di depressione hanno continuato a produrre opere in senso lato senza che la depressione stessa influisse sulle loro capacità di intendere e di volere. E se questo vale in generale ci sembra, onestamente, che sia sommamente valido per la scelta di contrarre matrimonio.
Siamo abituati a sentire parlare della capacità di intendere e di volere generalmente nei processi penali per stabilire se l’imputato (a norma dell’art. 85 del C.p.) sia capace di percepire la realtà - intendere - e di autodeterminarsi - volere -, cioè di decidere cosa fare della e nella propria vita. La non imputabilità dell’imputato generalmente è legata a gravi infermità mentali e questo non ci pare assolutamente il caso di Vittorio Sgarbi.
Uso della ragione e uso della volontà sono alla base della libertà: lo hanno detto bene i teologi medioevali quando, come da me riportato recentemente in un altro articolo, hanno sentenziato che «nihil volitum nisi praecognitum», e cioè che nulla si può volere se ciò non è prima conosciuto dal soggetto. Vittorio Sgarbi ha dimostrato il suo genio anche quando, parlando della sua depressione, l’ha definita come una condizione in cui il soggetto si trova in un «treno fermo in un luogo ignoto». Chi ha provato la depressone sa che essa produce anche un tipo particolare di lucidità che è data dall’astrazione in qualche modo del quotidiano e che conduce a una sorta di essenzialità tipica di quella situazione. Chi ha visto l’intervista di Sgarbi rilasciata a Bruno Vespa nella trasmissione Cinque Minuti, dove parlava del suo magnifico libro Il cielo più vicino. La montagna nell’arte, ha visto certamente un uomo piagato ma non ha altrettanto visto piegate le sue capacità intellettive nell’esprimere concetti altissimi e di una grande capacità evocativa. Piagato dalla malattia ma non piegato nell’intelligenza, nella ragione: in ciò che ha costituito e costituisce da sempre il suo indiscutibile talento.
Quindi a noi sembra, sia pur da profani, che le precondizioni cognitive per voler contrarre matrimonio risultino presenti nella mente del nostro carissimo amico Vittorio.
Del resto, uno che è ritenuto capax iuris, capace di essere titolare di diritti e doveri in quanto capace di intendere e di volere, come può non essere ritenuto capax amoris, cioè capace umanamente di amare, che nel contesto cristiano si trasforma in una risposta all’amore di Dio e del prossimo, ma che nel contesto umano, come nel caso di Vittorio, si traduce nella capacità umana di amore dimostrato in un pluridecennale rapporto con la sua amata Sabrina e di cui il matrimonio non rappresenterebbe che la forma giuridica che esprime questo amore? Potremmo forse capire la questione che pone il giudice se si trattasse di un amore estemporaneo, magari che avesse preso corpo poco prima o durante la malattia e che, quindi, potrebbe destare legittimi sospetti sulla volontà e sulle finalità da parte della persona che vorrebbe sposarsi con lo stesso Sgarbi. Ma qui si tratta di un amore pluridichiarato, pluridecennale, conclamato da tutti e due i soggetti e addirittura definito da Sgarbi scegliendo come caratterizzante una venatura platonica del rapporto stesso; quindi, certamente non a caso, scelta come caratteristica di un amore disinteressato e gratuito che, alla fine, sono le caratteristiche di un amore vero.
Sgarbi ha dimostrato ampiamente, in questi anni, la sua attitudine e predisposizione ad amare ed essere amato, a ricevere e dare amore in modo maturo e completo nei confronti della sua amata Sabrina e se in un momento di alta sofferenza, ma anche di pari lucidità, ha espresso questo desiderio verosimilmente lo ha fatto proprio perché nella sofferenza della depressione, una sofferenza terribile, le persone amate, o la persona amata, permane nella mente dell’uomo che soffre con convinzione e ancora maggiore chiarezza. Sgarbi ha, in altri termini, dimostrato di essere capax amoris come la sua Sabrina e sua sorella (le due persone che lui stesso ha citato come le più vicine), in modo diverso, per sentimento l’una, Sabrina, per amore fraterno l’altra, Elisabetta, hanno dimostrato parimenti di essere anche loro capaces amoris.
I latini dicevano in infermitate salus, che significa che nella malattia c’è la salvezza, volendo esprimere il concetto che nel momento di difficoltà, quando la vita, come una barca, sembra definitivamente distrutta perché colpisce nella nebbia gli scogli, ebbene, proprio in quel momento, come sosteneva anche il filosofo esistenzialista Karl Jaspers definendola «situazione-limite», tutto ciò può portare a una crescita spirituale inattesa e inaspettata, ma egualmente di dimensioni consapevoli e profonde in un tempo.
E se fosse questo il caso del desiderio di Vittorio Sgarbi di unirsi in matrimonio con la sua amata Sabrina?
C’è un dipinto del Caravaggio, amatissimo pittore dell’amico Vittorio Sgarbi, e che ha contribuito a farlo conoscere a molti italiani come nessun altro, che si intitola così: Amor vincit omnia, che significa che l’amore vince tutto o che l’amore trionfa su ogni cosa. Mi piace pensare, in questo momento di sofferenza per Vittorio, che gli venga incontro il suo amato Caravaggio regalandogli questa sentenza ripresa da Virgilio e che lo sproni a compiere questo gesto di amore unendosi per sempre con la sua amata Sabrina.
Questo è anche il mio augurio al mio carissimo e stimatissimo amico Vittorio.

