2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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Ha parlato circa due ore e tre quarti. E ha scritto un pezzo di storia di questo Paese. Il procuratore di Caltanissetta Salvo De Luca, in commissione Antimafia, ha ricostruito l’indagine monstre che sta portando avanti con i suoi pm sulle cause della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui persero la vita l’allora procuratore aggiunto di Palermo Paolo Borsellino e la sua scorta.
E ha confermato ciò che le indiscrezioni giornalistiche (soprattutto di questo giornale) aveva già fatto in parte trapelare: il dossier mafia e appalti dei carabinieri del Ros è stata una concausa delle stragi, dal momento che per la Piovra andava affossato. Chi ci credeva è morto, chi ha alzato «una muraglia cinese» intorno a esso si è salvato. Ma le accuse più gravi sono state rivolte all’ex procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, e all’ex pm Giuseppe Pignatone (successivamente destinato a una folgorante carriera). De Luca ha spiegato che le precondizioni dell’uccisione di Falcone e Borsellino erano state il loro isolamento e la loro sovraesposizione. E come si era arrivati a questa situazione? Semplicemente affidando le leve della Procura a un uomo come Giammanco con parenti mafiosi, compreso un cugino «accoscato» di Bagheria, la terra di Bernardo Provenzano, e un nipote imprenditore che si spartiva gli appalti con le cosche. De Luca contesta a Giammanco anche l’«ostentata» amicizia con il politico in odore di mafia Mario D’Acquisto e la pazza idea di presenziare insieme con i suoi pm ai funerali di Salvo Lima. Non sono mancate le stoccate all’ex fedele collaboratore di Giammanco, Pignatone, che ha vissuto dai 14 ai 27 anni, quando era già entrato in magistratura, in un condominio infestato da mafiosi, la palazzina di via Uditore 7 C. Qui c’erano 14 appartamenti: 8 occupati dalla famiglia di don Vincenzo Piazza e 4 dai Pignatone.
L’ex presidente del Tribunale del Vaticano ha assicurato che i rapporti tra i due gruppi erano solo «formali» per «le differenze sociali e culturali». Ma De Luca ha pescato nei suoi ricordi e ha sostenuto che in quegli anni, nei condomini, i rapporti erano improntati alla massima condivisione. Nella stessa via viveva anche un altro personaggio che è stato condannato definitivamente per mafia, Francesco Bonura, a sua volta cognato dei fratelli Salvatore e Antonino Buscemi, il primo dei quali diventerà capo mandamento.
E proprio Piazza, Bonura e Buscemi costituiranno l’immobiliare Raffaello, da cui, tra il 1978 e il 1983 i Pignatone acquisteranno 26 immobili, tra appartamenti, box, cantine e negozi. Comprano da «un capo mandamento, un capo famiglia e un associato», ha evidenziato De Luca, aggiungendo che poche altre ditte a Palermo avevano una compagine così compromessa: «Una riunione di questa società poteva comportare un arresto in flagranza per associazione mafiosa». Il procuratore ha citato anche un’intercettazione che i nostri lettori già conoscono. Risale al 22 ottobre 2024 e in essa il boss Bonura (tuttora in carcere) afferma: «A Pignatone gli abbiamo venduto le case. Io mi ricordo la madre di Pignatone, mi prendeva a braccetto: andiamo a vedere qua, andiamo là; sì signora, sì signora...».
Quando De Luca gli ha letto queste parole, durante il suo interrogatorio, Pignatone ha protestato: «Mia madre, buonanima, era una persona cordiale». L’audito ha anche ricordato che l’ex procuratore di Roma, quando Bonura viene arrestato per un duplice omicidio di mafia, anziché interrompere gli acquisti dalla Raffaello, si astiene nel procedimento. Ma il capo degli inquirenti nisseni ha rimarcato come Pignatone non abbia fatto la stessa prudente scelta quando c’è stato da indagare, agli arbori del dossier del Ros, sugli affari della Sirap, un ente pubblico chiamato a gestire mille miliardi di lire in appalti, una diligenza assaltata dalla mafia. La Sirap era partecipata dalla Espi presieduta da babbo Pignatone, chiacchierato politico dc e, secondo De Luca, «era probabile» che in quell’indagine, «emergessero fatti sul padre». Ma ciò non avrebbe sconsigliato Pignatone dal trattare quel fascicolo.
Tali intrecci pericolosi, secondo gli inquirenti nisseni, rendevano incompatibile Pignatone con la Procura di Palermo, o «quanto meno avrebbero dovuto impedirgli di avvicinarsi a qualunque procedimento riguardasse mafia e appalti, i Buscemi, Bonura e Piazza». De Luca ha anche ricordato che già nella relazione di opposizione del 1976 in Antimafia erano citati Bonura e Piazza e in quella del 1988 si spiegava che Pignatone senior «avrebbe tenuto un comizio voluto da Calogero dall’onorevole Calogero Vizzini in cui si esaltava la virtù della mafia diversa dalla delinquenza». Di fronte a un simile quadro, De Luca ha scandito: «Questa situazione di assoluta inopportunità in cui hanno esercitato le loro funzioni Giammanco e Pignatone ha contribuito grandemente a sovraesporre Falcone e Borsellino».
Il procuratore è stato tranciante, seppur negando di essere guidato da «mero moralismo», anche sul fatto che Pignatone abbia confessato di avere versato in nero circa 20 milioni per l’acquisto della casa, «rendendosi conto della pochezza del prezzo pagato». Il magistrato siciliano ha sintetizzato il suo lavoro: «Dobbiamo vedere in che situazione di inopportunità si va a ficcare una persona». Un approfondimento che ha portato a queste conclusioni: «Pignatone afferma di avere pagato 20 milioni in nero al capo mandamento Salvatore Buscemi. Non è un reato perché si tratta di un pagamento sottosoglia, è un illecito amministrativo […], ma è un’evasione fiscale fatta con il capo mandamento di Passo di Rigano Boccadifalco».
Diversi collaboratori di giustizia hanno citato Giammanco e Pignatone come magistrati vicini alle cosche, se non addirittura a disposizione. Lo stragista pentito Giovanni Brusca, a giugno ha detto ai magistrati nisseni: «Ho sentito della famiglia Pignatone, Salvatore Riina diceva che erano vicini ai Buscemi... ho saputo da Pino Lipari o da Totò Riina che i Buscemi avevano a disposizione il magistrato Pignatone, si diceva anche che il dottor Pignatone fosse stato trattato bene dai Buscemi in occasione di un acquisto di un appartamento».
Pignatone ha liquidato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia come semplice «chiacchiericcio». Ma De Luca ha deciso di scoprire se lui e Giammanco «abbiano offerto un’immagine all’esterno che ha dato luogo a queste v sa nostra».E in commissione ha illustrato quanto certi comportamenti disinvolti di magistrati come Pignatone e Giammanco potrebbero avere danneggiato Falcone e Borsellino: se qualcuno si è «posto in una posizione assolutamente inopportuna», dando alla mafia l’impressione che in Procura ci fosse «una dirigenza debole, malleabile o addirittura corrotta», ebbene, quelle persone avrebbero, come detto, sovraesposto «enormemente chi, invece, veniva ritenuto incorruttibile, inflessibile». De Luca ha riportato quello che potrebbero avere pensato i boss: «Con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino non c’è niente da fare. Fermiamoli, tanto con gli altri non abbiamo problemi».
A questo punto De Luca ha passato in rassegna le posizioni di Giammanco (morto nel 2017), Pignatone (indagato) e di Guido Lo Forte, che, però, nonostante abbia comperato casa dalla Raffaello e lavorato gomito a gomito con Pignatone non è stato iscritto sul registro delle notizie di reato perché non è stato chiamato in causa dai collaboratori di giustizia e, dopo l’addio di Giammanco, ha chiesto l’arresto di Antonino Buscemi. Una mossa che a giudizio del procuratore dimostrerebbe che «non aveva interesse personale a proteggerlo».
Diversa la gestione, sotto la regia di Pignatone, di fascicoli fondamentali sugli affari dei Buscemi con il gruppo Ferruzzi nelle cave di marmo di Carrara.
De Luca ha ricordato un dogma di Falcone (mega indagini, piccoli processi), completamente tradito da queste inchieste, in cui le investigazioni procedevano a compartimenti stagni e non c’era reale condivisione delle informazioni. De Luca non si spiega come il fascicolo «doppione» sui Buscemi, aperto grazie alle carte arrivate dalla Procura di Massa Carrara, sia rimasto praticamente «occulto». Il titolare ufficiale era Gioacchino Natoli, il quale, pur appartenendo a una corrente progressista, era perfettamente allineato con il moderato Pignatone e avrebbe nascosto al Csm quanto di sua conoscenza sui rapporti conflittuali tra Giammanco e Falcone, da quest’ultimo denunciati anche in una riunione di corrente.
Quanto alla sottovalutazione del dossier mafia appalti e all’archiviazione del filone principale, chiesta da Roberto Scarpinato e Lo Forte, De Luca non è stato tenero: «In due anni non è stata fatta una sola indagine su Antonino Buscemi».
Il procuratore ha giudicato «singolare» il fatto che l’attuale senatore del Movimento 5 stelle e membro della commissione Antimafia «si sia rimesso alle valutazioni di Lo Forte» su Buscemi e alla sua decisione di chiedere l’archiviazione asserendo che sul boss «non c’era assolutamente nulla» (una motivazione bollata da De Luca come «inaccettabile»), mentre contemporaneamente portava avanti una richiesta di misura di prevenzione nei confronti dello stesso soggetto e in tale fascicolo «diligentemente» aveva raccolto le carte di Massa e le dichiarazioni dei pentiti nei suoi confronti. Ma con quel tipo di proscioglimento «come puoi portare avanti la misura di prevenzione?», si è chiesto l’audito. «Un’affermazione del genere fatta dalla Procura rende inidonea la prosecuzione di un procedimento per una misura di prevenzione». Per De Luca, Scarpinato o doveva mandare in archivio entrambi i procedimenti o, viste le sue conoscenze, portare avanti anche il fascicolo penale. «La diligenza del senatore Scarpinato è molto apprezzabile in sede di misura di prevenzione, però, è in contraddizione con l'atteggiamento mantenuto in sede penale».
Il procuratore ha bocciato anche la pista nera seguita dal parlamentare grillino quando era pg di Palermo. Lo ha accusato di «essersi fatto un’indagine sulle stragi» alla vigilia del congedo per pensionamento, senza coordinarsi con Caltanissetta («l’unica procura che aveva la competenza sulle stragi»), violando così l’articolo 11 del codice di procedura penale.
Ma al contrario di quanto accaduto per mafia e appalti, quando Scarpinato «ha prospettato questo filone», De Luca & c. avrebbero iniziato a indagare con entusiasmo, salvo «rendersi conto» che quell’indagine «valeva zero tagliato», come ha confermato un gip non appiattito sulle posizioni della Procura. Ma questo non significa che «Stefano Delle Chiaie (l’estremista chiamato in causa da Scarpinato, ndr) non possa avere avuto un ruolo […] visto che uno stragismo di destra storicamente in Italia c’è stato», ha concesso De Luca, annunciando che c’è «un’ulteriore pista nera che stiamo approfondendo e che potrebbe dare esiti».
Quando l’Ucraina è stata invasa dalla Russia, nel febbraio del 2022, Europa e Stati Uniti si sono compattamente schierati con Kiev a difesa dei «valori dell’Occidente». Quali fossero, questi valori, non era chiarissimo. Ma con il senno di poi alcuni aspetti si sono disvelati: per gli americani erano semplicemente i loro interessi, tanto è vero che, falliti i tentativi di destabilizzare Mosca e senza alcuna intenzione di rischiare davvero una guerra nucleare, Washington ora non vede l’ora di archiviare il conflitto. Quanto agli europei, invece, all’inizio sembrava che immaginassero l’Ucraina come futuro baricentro liberal. Kiev, d’altra parte, rimane una delle mete preferite della borghesia annoiata del Vecchio continente, in cerca di uteri da affittare per mettere al mondo figli a pagamento. Purtroppo, però, l’ideologia gender (che poi è capitalismo in purezza) non invoglia nessuno a sacrificare la propria vita per difendere la patria. La fluidità, insomma, non si concilia benissimo con le armi. E così, proprio come avviene in Ucraina, è molto probabile che la mascolinità («tossica») tornerà di moda anche in Europa, persa nei suoi spasmi bellicisti.
A Kiev, dove è sempre più difficile trovare uomini disposti a morire al fronte, questo lo sanno. Non vendono ai loro cittadini discorsi sulla democrazia (che non c’è) né sulla superiorità morale dell’Ucraina (anch’essa discutibile, specialmente dopo gli ultimi scandali sulla corruzione): usano l’artificio più antico del mondo. Una foto di un maschio alfa seduto su una motocicletta, abbracciato da una bella donna con in mano una pistola e la scritta: «Amo la terza brigata d’assalto». Oppure un’attraente donna bionda, con lo sguardo perso in lontananza, che riflette nei suoi occhiali da sole l’immagine di un soldato in tenuta mimetica. Sono soltanto alcuni dei cartelloni pubblicitari sparsi per le città ucraine, ma il concetto è chiaro: quando si parla di guerra, ci vuole l’uomo virile.
La terza brigata d’assalto, d’altronde, non è altro che l’ex battaglione Azov: quel gruppo armato neonazista su cui i media occidentali fino a prima del febbraio 2022 facevano servizi e che poi, sempre gli stessi media, hanno provato a far passare per lettori di Emmanuel Kant.
Oggi il battaglione, confluito nell’esercito ufficiale, si avvale perfino di un dipartimento marketing. Dopo quasi quattro anni di guerra, le reclute languono e le perdite aumentano, così non resta che la pubblicità. «Il nostro obiettivo: inventare continuamente nuove buone ragioni per arruolarsi», spiega uno dei soldati che ci lavora. Per attirare nuovi soldati da addestrare puntano sulla reputazione: ideali, patriottismo, nazionalismo, fratellanza d’armi. E, come testimoniano le insegne pubblicitarie, anche quell’insondabile oggetto del desiderio che fa uscire di testa i maschi. Come avverrebbe in qualsiasi Paese in guerra, naturalmente. Ma senza dubbio ideali distanti dai «valori dell’Occidente» che abbiamo fatto difendere per procura agli ucraini, rifornendoli di soldi e di armi. A quanto pare, però, nemmeno il richiamo agli istinti è sufficiente a rimpolpare le fila dell’esausto, benché indubbiamente anche eroico, esercito di Kiev.
La sensazione, dunque, è che l’aria cambierà anche da noi. Che nella politica estera abbiano un qualche peso i valori, nessuno lo crede realmente. I valori cambiano a seconda degli obiettivi. La guerra, per esempio, ora fa comodo all’Ue e a qualche suo leader per continuare a esistere. Ma al fronte ci vanno gli uomini, quelli dalla «mascolinità tossica», disposti a difendere le loro famiglie a costo della vita.
Se, nel prossimo futuro, il premier britannico Keir Starmer ha promesso che invierà truppe in Ucraina per garantire la pace, guardando al presente la situazione non appare così promettente. Chi dovrebbe addestrare i soldati ucraini perde la vita senza nemmeno essere schierato sul campo: un istruttore britannico è, infatti, morto ieri in Ucraina a seguito di «un tragico incidente mentre osservava le forze ucraine testare una nuova capacità difensiva, lontano dalla linea del fronte».
Nel frattempo, gli ucraini hanno issato la bandiera gialloblù a Pokrovsk per negare la presa della città da parte dei soldati russi. La foto-simbolo ucraina è stata, però, scattata appositamente per la Bbc, in una dinamica che mette in luce la resistenza ma anche le difficoltà dell’esercito di Kiev: il comandante del reggimento d’assalto Skala, per dimostrare che la parte Nord di Pokrovsk non è sotto il controllo russo, ha chiesto a due soldati di uscire velocemente da un edificio in cui erano nascosti per sventolare la bandiera, prima di tornare subito al riparo.
Quel che è certo è che Mosca continua ad avanzare: il capo di stato maggiore dell’esercito russo, Valery Gerasimov, ha comunicato la conquista di tre centri abitati situati a Est di Pokrovsk: Rivne, Rog e Gnatovka. Parlando della presa dei territori e delle reazioni della popolazione ucraina, il presidente russo, Vladimir Putin, ha dichiarato: «I civili che non lasciano le città nella zona dell’operazione militare speciale accolgono i soldati russi con le parole “vi stavamo aspettando”». A essere presa di mira dalle forze russe è, poi, la città di Myrnohrad, sempre nel distretto di Pokrovsk: «Il presidente ha ordinato la sconfitta delle forze ucraine a Myrnohrad», ha annunciato Gerasimov, aggiungendo che già «il 30% degli edifici nella zona» è controllato dai russi. Tra l’altro, il militare ha dato ordini per proseguire l’avanzata verso la regione di Dnipropetrovsk, con l’obiettivo di creare una zona di sicurezza per le regioni annesse di Kherson, Donetsk, Luhansk e Zaporizhzhia. In quest’ultimo oblast, l’attenzione di Mosca si concentra su Huliaipole. A rivelarlo è il portavoce ucraino delle Forze di difesa del Sud, Vladyslav Voloshyn, che ha ammesso: «Il nemico sta cercando principalmente di isolare Huliaipole dalle vie logistiche e di accerchiarla da Est e Nord-Est».
Oltre ai combattimenti sul campo, i raid russi hanno bersagliato le infrastrutture energetiche ucraine, lasciando metà degli abitanti di Kiev di nuovo senza elettricità. Per far fronte all’emergenza, oggi è previsto un calendario di interruzioni di corrente programmate in tutto il Paese. E l’amministratore delegato di Naftogaz, Sergiy Koretsky, ha già lanciato un avvertimento al popolo ucraino: «Sarà sicuramente l’inverno più duro». Ha, infatti, spiegato all’Afp che «la distruzione e le perdite della produzione di gas ucraine sono significative. E il ripristino della produzione richiederà molto tempo».
Dall’altra parte, mentre Mosca ha intercettato e abbattuto 121 droni di Kiev, Putin, consegnando le medaglie d’oro ai militari che si sono distinti sul campo, ha rispolverato «l’inseparabilità della storia millenaria» della Russia dal suo destino. Ammettendo «un momento difficile», il leader del Cremlino ha sentenziato che «il Paese è ancora una volta convinto di quanto siano forti le tradizioni della gloria militare».
La dote radunata da Volodymyr Zelensky nella sua tournée tra i volenterosi è l’ennesima bozza per un piano di pace, da presentare agli americani. Venti punti: otto in meno rispetto alla prima versione, concordata tra Usa e Russia, uno in più rispetto all’evanescente controproposta europea. Dal testo sono stati rimossi i termini più sfavorevoli a Kiev, ma resta il nodo dei territori: i funzionari statunitensi vogliono da Zelensky una risposta a giorni, lui non vuol cedere perché verrebbe accusato di tradimento.
Oltreoceano, la riserva di credito di cui gode il capo della resistenza si sta esaurendo. Donald Trump, in un’intervista a Politico, nella quale ha attaccato i «deboli» leader dell’Ue, ha liquidato anche Zelensky, invocando il ritorno alle urne nel Paese invaso: «Sì, penso che sia il momento», ha detto. I dirigenti ucraini, ha aggiunto il tycoon, «stanno usando la guerra come pretesto per non tenere elezioni, ma penso che il popolo dovrebbe avere questa scelta. E forse Zelensky vincerebbe. Non so chi vincerebbe. Ma non hanno elezioni da molto tempo. Parlano di democrazia, ma si arriva a un punto in cui non è più una democrazia». Il presidente ucraino, a Repubblica, ha assicurato di essere «sempre pronto» al voto. L’uomo della Casa Bianca ha ricordato che i soldati di Kiev «hanno perso territorio molto prima che io arrivassi. Hanno perso un’intera fascia costiera, una grande fascia costiera. Io sono qui da dieci mesi, ma se torniamo indietro di dieci mesi e diamo un’occhiata, hanno perso tutta quella fascia. Ora è una fascia più grande, una fascia più ampia. Ma hanno perso molto territorio e anche territorio buono. Di certo non si può dire che sia una vittoria». Per Trump, il suo omologo deve accettare la situazione.
Può darsi che il tycoon non conosca la geografia (ha dichiarato che la Crimea è circondata dall’oceano). Ma sulla storia ha ragione da vendere. Le cose, com’è già accaduto nel recente passato, potrebbero peggiorare: se si fosse cercata una soluzione negoziale a marzo 2022, le perdite per l’Ucraina sarebbero state minori; idem, se si fosse tentato di tirare una linea dopo il fiasco della controffensiva del 2023; adesso, mentre sta conquistando avamposti strategici nel Donbass, è logico che Mosca indugi e cerchi di massimizzare i propri guadagni in sede politica. Il tempo è una variabile che gioca a sfavore della resistenza. «I colloqui ora coinvolgono gli Stati Uniti e Kiev», hanno tagliato corto dal Cremlino. «Siamo in attesa dell’esito di queste discussioni».
Il presidente americano, nella conversazione pubblicata ieri da Politico, ha ridimensionato pure le ambizioni ucraine di aderire alla Nato. L’idea degli europei era che l’ingresso di Kiev nell’Alleanza non andasse proibito per Costituzione, bensì dovesse essere rinviato a quando ci sarebbe stato il consenso unanime nell’organizzazione. Mai, probabilmente. Trump ha ribadito che esisteva una tacita intesa, per cui l’Ucraina sarebbe rimasta neutrale, già prima che Vladimir Putin ne facesse una questione esistenziale: «È sempre stato così», ha spiegato The Donald, «ora hanno iniziato a insistere». Lo scenario peggiore sarebbe quello in cui al contentino si dovesse sovrapporre il disimpegno Usa: ci ritroveremmo sul groppone i nemici dello zar, con una Nato privata del sostegno incondizionato degli statunitensi. Intanto, paghiamo Washington per dare a Kiev e «l’Europa viene distrutta»: Trump ci ha sbattuto in faccia il nostro masochismo e si è concesso uno sberleffo, parlando della Nato che lo chiama «papino».
Le élite di Bruxelles appaiono in trappola: scommettono sulla prosecuzione delle ostilità, perché sono ai margini della ridefinizione postbellica dell’architettura di sicurezza del continente. In più, l’Ue ha investito troppi soldi e troppa retorica nella causa. Pertanto, deve aggrapparsi alla minaccia dell’invasione di Putin, che il commissario alla Difesa, Andrius Kubilius, considera addirittura «inevitabile» se l’Ucraina si arrende. Spauracchio agitato per imporre la trovata suicida del prestito di riparazione, finanziato dagli asset russi ma in realtà coperto dai miliardi degli Stati membri. Da questo punto di vista, l’opposizione al piano Trump è stata un autogol: in quel documento era indicata l’unica modalità per l’utilizzo delle risorse congelate, da investire nella ricostruzione delle regioni distrutte dalle bombe, sulla quale Mosca poteva concordare. L’Ue ha rispedito il pacchetto al mittente e adesso, con in mano un conto mostruoso da saldare, i suoi portavoce si vantano perché decidere il destino di quei fondi «richiede effettivamente discussione con l’Ue». L’Italia dovrebbe impegnare 25 miliardi, la Francia 34, la Germania 51, solo per dimostrare che l’Europa esiste. Il presidente del Consiglio Ue, Antonio Costa, ha annunciato che il vertice del 18 dicembre durerà anche tre giorni, se necessari a sbloccare il dossier. «Non faremo in Ucraina quello che altri hanno fatto in Afghanistan», ha tuonato il portoghese. Il ritiro delle truppe Usa fu opera di Joe Biden. Noi, furbi, il nuovo Afghanistan lo vogliamo rendere eterno...
Dietro la solidarietà europea, comunque, si nasconde l’opportunismo. Kaja Kallas, ieri, ha gettato il velo: «Il costo del sostegno all’Ucraina», ha osservato, «impallidisce rispetto a quello che dovremmo spendere per una guerra su vasca scala nell’Unione europea». Tradotto: è meglio spedire in trincea gli alleati, affinché tengano impegnati i russi. Non è lo stesso cinismo, la stessa logica dello Stato cuscinetto di cui ragiona lo zar?
A smascherare le fumisterie dei leader Ue ci ha pensato sempre Trump: «Parlano ma non producono», ha commentato. «E la guerra continua ad andare avanti e avanti». Per suggellare l’umiliazione, la testata che lo ha intervistato ci ha messo del suo: secondo Politico, per trovare l’uomo più potente d’Europa bisogna entrare nello Studio ovale.
Il tour europeo di Volodymyr Zelensky è passato anche dall’Italia. Ieri, il presidente ucraino era infatti a Roma, dove, nel pomeriggio, è stato ricevuto per un’ora e mezza a Palazzo Chigi da Giorgia Meloni.
«Nel corso dell’incontro, i due leader hanno analizzato lo stato di avanzamento del processo negoziale e condiviso i prossimi passi da compiere per il raggiungimento di una pace giusta e duratura per l’Ucraina», recita una nota di Palazzo Chigi. «I due leader hanno inoltre ricordato l’importanza dell’unità di vedute tra partner europei e americani e del contributo europeo a soluzioni che avranno ripercussioni sulla sicurezza del continente», prosegue il comunicato, secondo cui i due leader hanno anche discusso delle garanzie di sicurezza per Kiev. «Ho incontrato la presidente del Consiglio dei ministri italiana Giorgia Meloni a Roma. Abbiamo avuto un ottimo colloquio, molto approfondito su tutti gli aspetti della situazione diplomatica. Apprezziamo il fatto che l’Italia sia attiva nella ricerca di idee efficaci e nella definizione di misure per avvicinare la pace», ha dichiarato il presidente ucraino al termine del bilaterale. «Ho informato il presidente del lavoro del nostro team negoziale e del coordinamento diplomatico», ha proseguito Zelensky, per poi aggiungere: «Contiamo molto sul sostegno italiano anche in futuro: è importante per l’Ucraina. Vorrei ringraziare in modo particolare per il pacchetto di sostegno energetico e le attrezzature necessarie».
Sempre ieri, in mattinata, il presidente ucraino è stato ricevuto a Castel Gandolfo da Leone XIV, in quello che è stato il secondo incontro tra i due. «Durante il cordiale colloquio, il quale ha avuto al centro la guerra in Ucraina, il Santo Padre ha ribadito la necessità di continuare il dialogo e rinnovato il pressante auspicio che le iniziative diplomatiche in corso possano portare ad una pace giusta e duratura», recita una nota della Santa Sede. «Inoltre, non è mancato il riferimento alla questione dei prigionieri di guerra e alla necessità di assicurare il ritorno dei bambini ucraini alle loro famiglie», si legge ancora. «L’Ucraina apprezza profondamente tutto il sostegno di Sua Santità Leone XIV e della Santa Sede», ha affermato, dal canto suo, Zelensky. «Durante l’udienza di oggi con Sua Santità, l’ho ringraziato per le sue costanti preghiere a favore dell’Ucraina e del popolo ucraino, nonché per i suoi appelli a favore di una pace giusta. Ho informato il papa degli sforzi diplomatici con gli Stati Uniti per raggiungere la pace. Abbiamo discusso di ulteriori azioni e della mediazione del Vaticano volta a restituire i nostri figli rapiti dalla Russia», ha aggiunto. «Ho invitato il papa a visitare l’Ucraina. Questo sarebbe un forte segnale di sostegno al nostro popolo», ha concluso il presidente ucraino.
Ricordiamo che, lunedì, Zelensky aveva incontrato a Londra Keir Starmer, Emmanuel Macron e Friedrich Merz. Sempre lunedì, il presidente ucraino si era inoltre visto a Bruxelles con il segretario generale della Nato, Mark Rutte, in un meeting a cui avevano partecipato anche il capo della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio europeo, Antonio Costa.
Il tour europeo del presidente ucraino è avvenuto in un momento particolarmente delicato per lui. Innanzitutto, il diretto interessato è indebolito dallo scandalo che ha recentemente investito Andrii Yermak: proprio ieri, secondo il Kyiv Independent, Zelensky avrebbe individuato la rosa di nomi da cui sceglierà il suo successore come capo dell’Ufficio presidenziale di Kiev (dal direttore dell’intelligence militare, Kyrylo Budanov, al ministro della Difesa, Denys Shmyhal). La caduta di Yermak ha fiaccato il potere negoziale del leader ucraino, mentre da Washington continuano ad arrivare pressioni affinché si tengano presto delle elezioni presidenziali in Ucraina. «Sono sempre pronto alle elezioni», ha detto ieri Zelensky, rispondendo indirettamente a Donald Trump che, parlando con Politico, era tornato a chiedere una nuova consultazione elettorale.
E qui arriviamo al secondo nodo. I rapporti tra Zelensky e la Casa Bianca sono tornati a farsi tesi. Nei giorni scorsi, il presidente americano si è infatti detto «deluso» dall’omologo ucraino. «Devo dire che sono un po’ deluso dal fatto che il presidente Zelensky non abbia ancora letto la proposta di pace, era solo poche ore fa», aveva detto Trump. A questo si aggiunga che, sempre negli ultimi giorni, l’inquilino della Casa Bianca ha criticato notevolmente l’Europa. «L’Europa non sta facendo un buon lavoro sotto molti aspetti», ha per esempio affermato nella sua recente intervista a Politico. Se da una parte cerca la sponda europea come copertura politica davanti alle tensioni tra Kiev e Washington, Zelensky non può però al contempo ignorare le fibrillazioni che si registrano tra gli Stati Uniti e il Vecchio Continente. È quindi probabilmente anche in questo senso che va letta la visita romana del presidente ucraino. In altre parole, non si può escludere che Zelensky punti a far leva sui solidi rapporti che intercorrono tra Trump e la Meloni per cercare di riportare (almeno in parte) il sereno nelle sue relazioni con la Casa Bianca. In tal senso, non va trascurato l’impegno profuso dall’inquilina di Palazzo Chigi volto a preservare la stabilità dei legami transatlantici: un impegno che la Meloni ha sempre portato avanti in netto contrasto con la linea di Macron.

