2019-01-16
L'Eni può aiutarci in Libia, ma ci vorrà un accordo politico con Russia e Arabia Saudita
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«Da oggi il Piano Mattei è una strategia europea». Giorgia Meloni scandisce soddisfatta la frase, consapevole che il progetto - costruito due anni fa anche per regolamentare le migrazioni - avesse un senso, una concretezza e un’adesione al diritto internazionale al di là delle pernacchie da curva sud della sinistra cattodem, dei giudici e delle ong a rimorchio. Alla conversione a U dell’Unione su uno dei temi chiave per la sua stessa esistenza mancava un sì: è arrivato ieri dal Consiglio d’Europa, l’organismo più appiattito sui presunti diritti universali, direttamente collegato alle associazioni umanitarie di ogni ordine e grado, sempre pronto a denunciare violazioni dei diritti umani, con attenzione maniacale alle forze dell’ordine italiane. Ebbene: sì a cambiare politica, sì ai rimpatri dei richiedenti asilo respinti, sì a rispedire al mittente i criminali, sì agli hub in Paesi terzi, per esempio l’Albania.
«La strumentalizzazione della migrazione, il traffico di migranti, la tratta di esseri umani e altre attività criminali che minacciano la stabilità e la sicurezza sono sfide reali e legittime». Lo ha detto il segretario generale del Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio Ue) Alain Berset, svegliatosi da un lungo sonno, nel suo discorso a Strasburgo durante il summit sull’immigrazione con i ministri dei 46 Stati membri. Ora anche per il braccio amnesty dell’Europa «elaborare un modello di accordo per i rimpatri e le esternalizzazioni» è diventata una priorità. E lo strumento giuridico dovrà indicare chiaramente «come gli Stati interpretano la convenzione nei casi di migrazione, anche in relazione alle attività criminali».
L’allineamento del Consiglio è arrivato dopo due eventi decisivi. 1) La lettera aperta firmata da nove Stati, fra i quali l’Italia, nella quale si contestava alla Corte europea dei Diritti dell’uomo (Cedu) un’eccessiva interferenza nelle politiche migratorie delle nazioni sovrane. 2) Il voto di 27 Paesi favorevoli al cambio di passo, con richiesta - anche questa promossa da Italia e Danimarca - di aggiornare la Convenzione dei Diritti dell’uomo, abbandonando la visione ideologica per garantire che «la sicurezza ai cittadini sia tutelata e non subordinata a interpretazioni della legge favorevoli a individui che hanno commesso gravi violazioni».
In sintesi i rappresentanti dei Paesi membri hanno ribadito la necessità che «il testo tenga conto della responsabilità fondamentale dei governi di garantire gli interessi vitali nazionali, quali la sicurezza e l’ordine pubblico». Il segretario generale Berset ha fiutato il vento, ha recepito e ha indicato anche una tempistica: subito la stesura di una dichiarazione politica del Comitato dei ministri sui temi dell’immigrazione, da adottare già a maggio nella riunione plenaria di Chisinau (Moldova); in seguito il Consiglio formalizzerà un documento che dovrebbe essere pronto fra 12-18 mesi, con la consueta calma della grassa euroburocrazia.
Una vittoria su tutto il fronte per Giorgia Meloni e il suo governo, che lunedì sul regolamento dei rimpatri avevano incassato il sì del Consiglio affari interni dell’Ue. Ieri a Bruxelles c’era la Conferenza dell’Alleanza globale contro il traffico di migranti, con 80 delegazioni degli Stati membri, partner internazionali, Paesi africani. Collegandosi in video, il premier italiano ha mostrato soddisfazione: «Gestire i flussi migratori è possibile, un’alternativa concreta alla tratta di esseri umani è fattibile e la legalità deve essere al primo posto. Il drastico calo dei flussi migratori irregolari, la significativa diminuzione dei decessi e delle sparizioni nel Mediterraneo dimostrano che la cooperazione sta funzionando. L’Italia ha proposto soluzioni innovative che ora sono viste con interesse e stanno diventando prassi comuni. Mi riferisco in primis al protocollo Albania. Oggi il Piano Mattei non è solo una strategia italiana ma diventa una prassi europea».
Con un problema umano che discende dalla bontà dell’iniziativa: Ursula von der Leyen prova a intestarsi l’idea. Dimenticandosi con un atto di rimozione freudiana del «grande abbraccio ai popoli in cammino» e dell’accoglienza diffusa (tanto cara anche a Sergio Mattarella), il presidente della Commissione ha benedetto la sterzata, ha annunciato che «gli arrivi dei migranti irregolari sono in calo, -26% quest’anno e -37% l’anno scorso». E ha salutato con fervore il contrasto agli scafisti, «perché il traffico di migranti è una forma di schiavitù moderna e dobbiamo fare di più per combatterla». Neanche fosse improvvisamente favorevole a bucare con il trapano le chiglie dei barconi. Con un lampo da commedia dell’arte ha aggiunto, mentre le si allungava il naso: «Il nostro principio guida qui nell’Ue è che siamo noi europei a decidere chi arriva in Europa e ne attraversa i confini, e in quali circostanze, non i trafficanti». Fino all’altro ieri sembrava l’esatto contrario.
In un eccesso trumpiano, la nuova Ursula ha concluso con un’abiura: «Abbiamo un progetto per porre fine al business del traffico di migranti in tutto il mondo. Dobbiamo impedire i viaggi e dimostrare alle potenziali vittime che esistono sempre alternative più sicure». Sembrava Marine Le Pen. Forse sta davvero cambiando il vento. Se così fosse, a fare il tifo per gli scafisti rimarranno i giudici rossi, le associazioni che si arricchiscono sui disperati e Laura Boldrini.
All'inizio del secolo XX il fondatore di Alleanza assicurazioni realizzò una dimora da sogno. Occupata da tedeschi e americani, fu usata anche dai Carabinieri nel dopoguerra. Recuperata negli anni '80 dopo il declino, oggi è tornata agli antichi fasti.
Ewan Mackenzie, di padre scozzese, era toscano fin nel midollo. Da Firenze, la città che lo vide nascere nel 1852, assorbì la passione per l’arte e la letteratura del Rinascimento e dell’opera di Dante di cui fu collezionista delle edizioni più rare della Commedia.
Mackenzie si trasferì a Genova come agente dei Lloyds di Londra. Qui alla fine del secolo XIX fonderà un impero in campo assicurativo, l’Alleanza Assicurazioni. Il grande successo imprenditoriale gli permise di coronare il sogno di una vita: quello di dare nuova forma al Rinascimento toscano nella città della Lanterna con la costruzione di una dimora unica nella zona degli antichi bastioni di san Bartolomeo al Castelletto che dominano Genova ed il porto antico. Trovò nell’esordiente architetto fiorentino Gino Coppedè la professionalità giusta per realizzare la sua nuova dimora. Quest’ultimo era figlio d’arte di uno degli ebanisti più quotati dell’epoca, Mariano Coppedé. I lavori di costruzione del capolavoro dell’eclettismo tipico degli anni a cavallo tra i secoli XIX e XX iniziarono nel 1897 per concludersi 9 anni più tardi, nel 1906. Il castello, che cambiò la prospettiva dalla vicina piazza Manin, era un capolavoro di arte ispirata al Medioevo ed al Rinascimento. La torre principale ricordava quella di Palazzo Vecchio a Firenze, mentre mura, nicchie torrette e merletti, compresi i fossati e i ponti, facevano pensare ai manieri medievali. All’interno dominava la boiserie della bottega Coppedé, nelle oltre 80 stanze della dimora. Non mancava un tocco di modernità nell’impianto di riscaldamento centralizzato e nell’acqua calda disponibile in tutta la casa. Il palazzo ospitava anche una piscina riscaldata ed un ascensore di grande capienza. Nei sotterranei erano state ricavate grotte scenografiche, ispirate alla Grotta Azzurra di Capri, con statue mitologiche e giochi d’acqua, e non mancava un luogo dedicato alla preghiera, una cappella in stile neogotico con vetrate artistiche, ed una immensa biblioteca dove erano conservate le edizioni più preziose della Commedia dantesca. Il castello fu abitato dalla famiglia fino alla morte del proprietario avvenuta nel 1935. La figlia di Ewan, Isa Mackenzie, la cedette poco dopo ad una società immobiliare. Dopo l’8 settembre 1943 fu requisito dai tedeschi e scampò per miracolo ai pesantissimi bombardamenti sulla città. Nel dopoguerra fu brevemente occupato dagli Alleati prima di essere destinato a diventare una stazione dei Carabinieri, che rimasero fino al 1956 quando il castello fu dichiarato monumento nazionale. In seguito fu adibito a sede di una società sportiva, la Società Ginnastica Rubattino, e dagli anni Sessanta andò incontro ad un declino durato per tutto il decennio successivo. Solo negli anni seguenti la dimora da sogno di Mackenzie poté essere recuperata al suo splendore originario. Nel 1986 il magnate e collezionista d’arte americano Mitchell Wolfson Jr. rilevò il castello ed iniziò un complesso restauro a partire dal 1991 prima di cederlo a sua volta a Marcello Cambi, famoso restauratore toscano e patron dell’omonima casa d’aste della quale il castello divenne la sede, dopo un’ulteriore restauro da parte del grande architetto genovese Gianfranco Franchini, tra i progettisti assieme a Renzo Piano e Richard Rogers del Centro Georges Pompidou di Parigi.
Aveva ragione Archibald Cronin, stavolta le stelle stanno a guardare. La cucina italiana è patrimonio mondiale immateriale dell’umanità dell’Unesco (la decisione, scontata visto che il comitato tecnico aveva detto già sì, è arrivata ieri a Nuova Dehli dove era riunito il board intergovernativo) e segna la rivincita della «pizza e mortazza» sulla spuma di mortadella. Il circo Barnum della gastronomia ricchi premi e cotillon deve fare professione di umiltà. Questo titolo - ci hanno lavorato tre ministeri: Agricoltura e Sovranità alimentare con Francesco Lollobrigida che ha fatto di tutto per sostenere il comitato promotore composto da Accademia della cucina, La cucina italiana e la fondazione Casa Artusi; Affari esteri con Antonio Tajani che, felicissimo, ha presenziato alla proclamazione e Cultura con Alessandro Giuli e il sottosegretario Gianmarco Mazzi - premia le ricette di casa, la straordinaria diversità gastronomica dei nostri territori e nulla ha a che fare con le basse temperature, le sferificazioni, gli esperimenti da piccolo chimico.
La rincorsa per arrivare a questo traguardo è stata presa cinque anni fa e il «mastino» dei dossier, il professor Pier Luigi Petrillo - è anche il presidente dell’Organo degli esperti mondiali dell’Unesco - non ha mai mollato la presa, anche perché la cucina italiana non è stata designata come pratica gastronomica, ma come valore culturale in forza della biodiversità espressa dalle tante cucine territoriali in rapporto all’ambiente agricolo. Ecco perché le stelle stanno a guardare. Ha vinto la tradizione, il braciere e non il sifone, non gli artifici che affascinano il bel mondo autoreferenziale dei presunti esperti. Hanno vinto i cuochi artusiani contro gli chef «astrusiani» o i cosiddetti cuochi d’artificio; hanno prevalso i salumifici, i caseifici, gli oleifici, i panettieri, gli allevatori e cerealicoltori, ha vinto l’Italia che suda la terra, fa la sfoglia e innova.
La motivazione parla chiaro: «La cucina italiana è patrimonio mondiale dell’umanità perché va oltre i piatti, rappresentando una forma di vita, un’identità culturale e un modello di socialità, sostenibilità e diversità. I motivi principali includono la trasmissione di saperi e affetti tra generazioni, l’equilibrio tra uomo e ambiente (biodiversità, antispreco), la convivialità che unisce comunità e famiglie, e il legame profondo con i territori e i loro prodotti».
Ma ha anche un altissimo valore culturale ed economico. Lo ha colto Giorgia Meloni che in un messaggio sottolinea: «È una notizia che mi riempie d’orgoglio», ha detto il presidente del consiglio. «Siamo i primi al mondo a ottenere questo riconoscimento che onora la nostra identità. Per noi italiani la cucina non è solo cibo, non è solo un insieme di ricette. È molto di più: è cultura, tradizione, lavoro, ricchezza. La nostra cucina nasce da filiere agricole che coniugano qualità e sostenibilità. Custodisce un patrimonio millenario che si tramanda di generazione in generazione. Cresce nell’eccellenza dei nostri produttori e si trasforma in capolavoro nella maestria dei nostri cuochi. E viene presentata dai nostri ristoratori con le loro straordinarie squadre. Già oggi esportiamo 70 miliardi di euro di agroalimentare, e siamo la prima economia in Europa per valore aggiunto nell’agricoltura. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per nuovi traguardi. Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida, ringrazio prima di tutto i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier». «Ma è una partita», ha concluso Meloni, «che abbiamo vinto insieme al popolo italiano, insieme ai nostri connazionali all’estero, insieme a tutti coloro che nel mondo amano la nostra cultura, la nostra identità e il nostro stile di vita».
A fare due conti la ricaduta economica è consistente. I ristoranti italiani - sono quasi 200.000, non tutti di qualità, e il bollino Unesco ora obbliga a maggior qualità, cura e aderenza alla tradizione - fatturano 100 miliardi, quelli all’estero sono il 19% della ristorazione mondiale, il sistema agroalimentare allargato vale 700 miliardi e dà lavoro a 4,5 milioni di italiani.
Il ministro per la Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida - in una telefonata ha registrato il compiacimento del presidente della Repubblica Sergio Mattarella - che è orgoglioso assai per questo traguardo sottolinea: «Questo riconoscimento produrrà una crescita dal punto di vista economico eccezionale, porterà vantaggi in termini di occupazione e lavoro, rafforza la posizione del nostro Paese anche sul fronte della situazione internazionale e dei dazi, per due ragioni: una è la promozione che permette di avere garanzia di vendere di più e meglio; l’altra è il contrasto all’Italian sounding (vale 130 miliardi, quasi il doppio del nostro export ndr), cioè alle imitazioni che ci derubano di quel sapere che ci è stato tramandato ed è stato protetto per generazioni».
Il che rende ancora più urgente in sede europea ottenere l’etichetta d’origine, l’estensione della tutela dei prodotti a marchio e la clausola di reciprocità sulle importazioni. L’Italia contava già sull’arte dei pizzaioli, sulle viti ad alberello di Pantelleria, sulla dieta mediterranea così come la Francia ha il riconoscimento per il pasto gastronomico, il Messico e la Corea per una cucina regionale, il Giappone per la cucina tradizionale, ma nessuno mai ha avuto riconosciuta la cucina come simbolo identitario. A significare che le mille e mille ricette messe insieme definiscono un valore unico: il vivere all’italiana.
Per il latte che approda a una tregua si apre la crisi del pomodoro. È un momento di forti oscillazioni dei prezzi sui mercati agricoli dovute in gran parte a rallentamenti di domanda e d’incremento d’offerta dovuto all’import. Un surplus di produzione in Nuova Zelanda (più 3,2%) e negli Usa (più 1,8%) dove gli allevatori hanno deciso di lanciare un’offensiva sui mercati mondiali ha fatto crollare le quotazioni. Con gravi ripercussioni sulle quotazioni del Grana Padano e del burro.
Ma anche Germania, Francia e Olanda ci hanno messo del loro con forti aumenti di produzione. Tutto perché negli ultimi mesi del 2024 e nei primi di quest’anno c’era stata una forte impennata del prezzo. Si è arrivati a pagare un litro spot (in cisterna sfuso) fino a 73 centesimi e tutti si sono buttati a incrementare la produzione (nelle nostre tre Regioni di maggior peso Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto le consegne sono aumentate del 2,6% con punte anche del 4), il che ha determinato un crollo verticale del prezzo arrivato sotto i 48 centesimi al litro, una quotazione ritenuta insostenibile.
Così martedì si è aperto un paracadute sulle stalle. Al ministero dell’Agricoltura è stato raggiunto un accordo ponte che fissa un prezzo minimo del latte spot (sfuso alla stalla) a 54 euro a ettolitro per le consegne di gennaio, di 53 euro per febbraio e di 52 a marzo. L’accordo prevede anche aiuti all’internazionalizzazione e all’integrazione della filiera, acquisti di latte e di formaggi per gli indigenti, un’intesa sulle produzioni medie per evitare sforamenti.
Si è trattato di un intervento di emergenza messo in piedi dal ministro Francesco Lollobrigida perché a gennaio scade circa il 10% dei contratti di acquisto da parte dell’industria alimentare e c’era il rischio che non venissero rinnovati a causa delle massicce importazioni in dumping. Complessivamente sodisfatte le organizzazioni agricole: Coldiretti parla di pericolo scampato anche se gli allevatori restano con la guardia alzata. Una proposta innovativa viene da Giovanni Guarneri - presidente del settore lattiero-caseario di Confcooperative che mette insieme 14.000 stalle per 8 miliardi di fatturato - che chiede un’organizzazione comune di mercato a livello europeo (un po’ come col vino) perché «diversamente tra qualche mese saremo di nuovo con gli stessi problemi».
Se il latte supera la crisi si apre ora quella del pomodoro. Nonostante ci sia stato l’accordo sul prodotto da industria per il pomodoro fresco si è aperta una fase di forte flessione dei prezzi: meno 17% a ottobre e meno 20% a novembre con incremento di domanda (più 10% a ottobre e più 7% a novembre) che non riesce a compensare la perdita di valore. E anche qui, come per il latte, i problemi vengono dall’import dai Paesi del Nord Africa e dai prodotti lavorati che arrivano dalla Cina.
Il processo diplomatico ucraino è a una svolta? Per il momento, non è facile dare una risposta. Ieri, Volodymyr Zelensky ha annunciato che Kiev era pronta a inoltrare agli Stati Uniti la propria versione della proposta di pace. «Parallelamente, stiamo ultimando i lavori su 20 punti di un documento fondamentale che può determinare i parametri per porre fine alla guerra e prevediamo di trasferire il documento agli Stati Uniti nel prossimo futuro, dopo il nostro lavoro congiunto con la squadra del presidente Trump e i partner in Europa», ha affermato. Sempre ieri, il presidente ucraino ha reso noto di aver avuto una discussione «produttiva» sulla ricostruzione dell’Ucraina con il segretario al Tesoro americano, Scott Bessent, con il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e con il ceo di BlackRock, Larry Fink.
Nel frattempo, il Washington Post ha riferito che gli Stati Uniti punterebbero a risolvere la crisi ucraina, ricorrendo a uno scenario di tipo coreano. In altre parole, si stabilirebbe un cessate il fuoco lungo l’attuale linea di contatto e verrebbe successivamente istituita una zona demilitarizzata. In questo quadro, l’Ucraina risulterebbe «una nazione sovrana, i cui confini sono protetti da garanzie di sicurezza internazionali, che fa parte dell’Unione europea e che ricostruirà la sua economia con grandi investimenti da parte degli Stati Uniti e dell’Europa». Secondo la testata americana, l’amministrazione Trump riterrebbe probabile un ingresso di Kiev nell’Ue nel 2027, superando il veto dell’Ungheria. Dall’altra parte, le garanzie di sicurezza fornite all’Ucraina ricalcherebbero quelle dell’articolo 5 della Nato. Inoltre, la centrale nucleare di Zaporizhia non cadrebbe in mani russe, ma potrebbe essere direttamente gestita dagli Stati Uniti. Infine, i beni russi congelati dovrebbero essere trasferiti, almeno in parte, all’Ucraina, per renderne possibile la ricostruzione e rilanciarne lo sviluppo economico. A tal proposito, BlackRock potrebbe creare un fondo di sviluppo per la ricostruzione dal valore di 400 miliardi di dollari. Non è tuttavia al momento chiaro come verrà risolta la spinosissima questione dei territori. «Stiamo pensando di rinunciare a qualche territorio? Non ne abbiamo alcun diritto legale - secondo la legge ucraina, secondo la nostra Costituzione, secondo il diritto internazionale - e onestamente, non ne abbiamo nemmeno alcun diritto morale», ha dichiarato Zelensky lunedì scorso, ribadendo una posizione in contrasto con quella della Casa Bianca. Donald Trump sta infatti cercando di convincere da tempo il presidente ucraino a cedere alcune aree, a partire dal Donbass. Nel frattempo, ieri è tornato a parlare il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov. «Risponderemo a qualsiasi azione ostile, incluso il dispiegamento di contingenti militari europei in Ucraina e l’espropriazione di beni russi. E siamo già preparati a questa risposta», ha dichiarato. Oltre ad accusare gli europei di «ostacolare artificialmente» i negoziati di pace, Lavrov ha anche definito Trump come «l’unico leader occidentale» che «comprende le ragioni che hanno reso inevitabile la guerra in Ucraina». Frattanto, sempre ieri, Trump ha avuto un colloquio telefonico con Keir Starmer, Friedrich Merz ed Emmanuel Macron. «I leader hanno discusso le ultime novità sui colloqui di pace in corso guidati dagli Stati Uniti, accogliendo con favore i loro sforzi per raggiungere una pace giusta e duratura per l’Ucraina e per porre fine alle uccisioni», ha reso noto Downing Street, per poi aggiungere: «Hanno convenuto che questo è un momento critico per l’Ucraina, il suo popolo e per la sicurezza condivisa nella regione euro-atlantica». Il colloquio di ieri è arrivato dopo giorni di tensione tra la Casa Bianca e il Vecchio Continente. Basti pensare che, in una recentissima intervista a Politico, il presidente americano aveva bollato i leader europei come «deboli». Tutto questo, mentre, negli scorsi giorni, è tornata a crescere l’irritazione di Trump verso Zelensky, il quale ha annunciato per oggi una nuova riunione dei volenterosi.
In tutto questo, ieri il presidente ucraino ha lanciato l’allarme sui legami tra Mosca e Pechino. «La Cina sta adottando misure per intensificare la cooperazione con la Russia, in particolare nel campo dell’industria militare. I servizi di intelligence dei partner dispongono di informazioni simili», ha dichiarato. Ricordiamo che, appena pochi giorni fa, Macron si è recato nella Repubblica popolare cinese, dove, cercando di imbastire un processo diplomatico alternativo a quello della Casa Bianca, ha chiesto a Xi Jinping di fare pressioni sul Cremlino, per convincerlo ad accettare un cessate il fuoco. Del resto, è proprio l’atteggiamento dell’inquilino dell’Eliseo a costituire una delle principali cause degli attuali attriti tra Stati Uniti e Vecchio Continente. Oltre a creare fibrillazioni con tra gli europei e Washington, il presidente francese rischia adesso di scontentare anche lo stesso Zelensky, di cui, almeno a parole, si professa un alleato granitico. È infatti tutto da dimostrare che Pechino auspichi realmente una conclusione della crisi ucraina.
Mentre Bruxelles, sorda agli avvertimenti di Euroclear, della Bce, e del premier belga Bart De Wever, continua la sua crociata kamikaze per utilizzare i beni russi congelati a sostegno di Kiev, emergono pure degli arbitrati che dovrebbero essere più che sufficienti per considerare una marcia indietro.
La European trade justice coalition (Etjc), ovvero la rete europea di Ong e gruppi della società civile che monitora le politiche commerciali Ue, ha messo in luce che gli oligarchi russi e le aziende colpite dalle sanzioni hanno avviato arbitrati in Europa per oltre 53 miliardi di euro. Si tratta di una cifra enorme: basti pensare che raggiunge quasi l’assistenza militare fornita dall’Ue all’Ucraina dall’inizio della guerra. Trovandosi con i propri beni congelati, gli oligarchi usano il meccanismo per la risoluzione delle controversie tra investitori e Stati, denominato Isds: previsto nell’ambito di Trattati bilaterali di investimento (Bit) tra due Paesi, permette agli investitori internazionali «danneggiati» da cambiamenti giuridici o politici di rivolgersi al tribunale arbitrale internazionale. Questa dinamica non dovrebbe essere presa sottogamba, visto che solamente nel 2025 è stata avviata o annunciata più della metà dei 28 ricorsi, tramite società registrate sul territorio europeo.
Uno dei casi più rilevanti riguarda la richiesta di 13,7 miliardi di euro avanzata dall’oligarca russo, Mikhail Fridman, contro il Lussemburgo. Passando al Belgio, quattro investitori russi con i fondi bloccati in Euroclear hanno notificato a settembre la volontà di avviare arbitrati. D’altronde a ottobre, lo stesso De Wever ha fatto presente ai leader europei che l’iniziativa della Commissione sugli asset congelati avrebbe potuto violare gli accordi bilaterali di investimenti con la Russia. Proseguendo con i casi citati da Etjc, la compagnia petrolifera russa Rosneft ha minacciato una causa contro la Germania per aver messo sotto tutela i suoi beni per quasi 6 miliardi di euro. E anche in Francia e nel Regno Unito sono state avviate azioni legali.
Quest’ultimo tassello pare non frenare Bruxelles. Secondo il Financial Times, l’Ue mira ad approvare già questa settimana la decisione per immobilizzare a tempo indeterminato i beni russi congelati. In questo modo, scavalcando il rinnovo delle sanzioni ogni sei mesi, non servirebbe il voto all’unanimità, aggirando quindi il veto del premier ungherese, Viktor Orbán. A promettere battaglia contro Bruxelles è De Wever. «La partita non è finita e la tensione rimarrà alta fino all’ultimo momento» ha detto alla Camera dei rappresentanti, annunciando che non esclude un’azione legale qualora l’Ue procedesse senza considerare i rischi che gravano sul Belgio. Ha anche reso noto che Euroclear sta valutando la possibilità di ricorrere alla Corte europea.
Un altro paradosso riguarda la fornitura di armi all’Ucraina. Sono in corso, infatti, le trattative tra Varsavia e Kiev: la Polonia invierebbe i jet MiG-29 all’Ucraina che, in cambio, trasferirebbe a Varsavia la tecnologia per droni. A tal proposito, su X, lo Stato Maggiore delle forze armate polacche ha dichiarato che «questa solidarietà deve essere reciproca». Ma la «solidarietà reciproca» non è tanto a vantaggio di Kiev, visto che si tratta di aerei da mandare in pensione. Il ministro della Difesa polacco, Wladyslaw Kosiniak-Kamysz, ha detto in radio: «Tra qualche tempo, gli aerei MiG-29 non saranno più in servizio nell’aeronautica militare polacca a causa della loro vita operativa ormai esaurita». Sulla stessa linea, lo Stato Maggiore dell’esercito della Polonia ha spiegato che l’eventuale trasferimento deriva dalla mancanza di iniziative per modernizzare i vecchi caccia di progettazione sovietica.

