C’è un’Europa che viaggia veloce senza chiedere permesso agli aeroporti. È l’Europa dell’Alta velocità, dove le stazioni tornano a essere crocevia strategici e il treno non è più un’alternativa, ma il protagonista. In questo scenario si inserisce la nuova mossa del gruppo Fs, che firma una partnership strategica in Francia. Obiettivo rafforzare la presenza internazionale e portare il Frecciarossa a Londra.
L’accordo è stato siglato con Certares, fondo statunitense specializzato nel turismo e nei viaggi, nome ben noto nel settore per American express global business travel e per una rete di partecipazioni che abbraccia distribuzione, servizi e tecnologia legata alla mobilità globale. Il piano è robusto: una joint venture e investimenti complessivi per circa un miliardo di euro tra Francia e Regno Unito.
Il primo terreno di gioco è Trenitalia France, la controllata con sede a Parigi che negli ultimi anni ha dimostrato come la concorrenza sui binari francesi non sia più un tabù. Oggi opera nell’Alta velocità sulle tratte Parigi-Lione e Parigi-Marsiglia, oltre al collegamento internazionale Parigi-Milano. Dal debutto ha trasportato oltre 4,7 milioni di passeggeri, ritagliandosi il ruolo di secondo operatore nel mercato francese. A dominarlo il monopolio storico di Sncf il cui Tgv è stato il primo treno super-veloce in Europa. Intaccarne il primato richiede investimenti e impegno. Il nuovo capitale messo sul tavolo servirà a consolidare la presenza di Fs non solo in Francia, ma anche nei mercati transfrontalieri. Il progetto prevede l’ampliamento della flotta fino a 19 treni, aumento delle frequenze - sulla Parigi-Lione si arriverà a 28 corse giornaliere - e la realizzazione di un nuovo impianto di manutenzione nell’area parigina. A questo si aggiunge la creazione di centinaia di nuovi posti di lavoro e il rafforzamento degli investimenti in tecnologia, brand e marketing. Ma il vero orizzonte strategico è oltre il Canale della Manica. La partnership punta infatti all’ingresso sulla rotta Parigi-Londra entro il 2029, un corridoio simbolico e ad altissimo traffico, finora appannaggio quasi esclusivo dell’Eurostar. Portare l’Alta velocità italiana su quella linea significa non solo competere su prezzi e servizi, ma anche ridisegnare la geografia dei viaggi europei, offrendo un’alternativa all’aereo.
In questo disegno Certares gioca un ruolo chiave. Il fondo americano non si limita a investire capitale, ma mette a disposizione la rete di distribuzione e le società in portafoglio per favorire la transizione dei clienti business verso il treno ad Alta velocità. Parallelamente, l’accordo guarda anche ad altro. Trenitalia France e Certares intendono promuovere itinerari integrati che includano il treno, semplificare gli strumenti di prenotazione e spingere milioni di viaggiatori a scegliere la ferrovia come modalità di trasporto preferita, soprattutto sulle medie distanze. L’operazione si inserisce nel piano strategico 2025-2029 del gruppo Fs, che punta su una crescita internazionale accelerata attraverso alleanze con partner finanziari e industriali di primo piano. Sarà centrale Fs International, la divisione che si occupa delle attività passeggeri fuori dall’Italia. Oggi vale circa 3 miliardi di euro di fatturato e conta su 12.000 dipendenti.
L’obiettivo, come spiega un comunicato del gruppo, combinare l’eccellenza operativa di Fs e di Trenitalia France con la potenza commerciale e distributiva globale di Certares per trasformare la Francia, il corridoio Parigi-Londra e i futuri mercati della joint venture in una vetrina del trasporto europeo. Un’Europa che viaggia veloce, sempre più su rotaia, e che riscopre il treno non come nostalgia del passato, ma come infrastruttura del futuro.
E alla fine succede anche questo: l’Italia scopre di piacere ai mercati e di attrarre l’attenzione dei giornali stranieri non per l’ennesima crisi del debito, ma per una scelta politica che rompe un tabù. Mentre lo spread si assottiglia come una fettina di prosciutto tagliata sottile - ai minimi da 16 anni rispetto alla Germania - da Londra e da Francoforte arriva una narrazione che, detta così, sembra quasi rivoluzionaria: Roma non è più la periferia indisciplinata dell’Eurozona, ma parte di quella «fusione» con i Paesi considerati fino a ieri il caveau della sicurezza finanziaria, come Francia, Belgio e Austria.
Il Financial Times, evitando per una volta di andare sopra le righe contro il nostro Paese, certifica che qualcosa è cambiato. Ales Koutny di Vanguard parla apertamente di mercati disposti a «voltare pagina» se gli incentivi sono quelli giusti. Tradotto: meno caos, più conti in ordine, un governo che, per la prima volta nella storia della Repubblica, dura più di una stagione calcistica.
E così il cambio di opinione riguarda anche Madrid, la cui crescita economica è il top in Europa. Così gli investitori applaudono la traiettoria economica della Spagna e le politiche fiscali prudenti dell’Italia sotto un governo politicamente stabile. Una frase che, solo qualche anno fa, sarebbe sembrata fantascienza o satira pura.
Non solo. Sempre il Financial Times annota che Roma sta finalmente raccogliendo i frutti della lotta all’evasione fiscale, con un gettito che cresce. Un’eresia per chi per decenni ha raccontato l’Italia come un Paese geneticamente allergico alle tasse. Evidentemente anche i luoghi comuni, come lo spread, prima o poi si restringono.
Ma il vero colpo di scena arriva da Francoforte. La Frankfurter Allgemeine Zeitung, tempio del rigore tedesco e della diffidenza verso le «deroghe mediterranee», dedica un lungo articolo all’abolizione del reddito di cittadinanza, il totem grillino per eccellenza. E qui il tono è meno ideologico di quanto ci si aspetterebbe. Anzi, è molto pragmatico. Il corrispondente Christian Schubert snocciola i numeri Inps: dimezzamento dell’assistenza sociale, costi per lo Stato scesi da circa 9 miliardi a 5,2 miliardi. Il sussidio, già non generosissimo, si è ulteriormente ridotto. Per Berlino, musica per le orecchie.
La logica del governo Meloni, spiega la Faz, è semplice e brutale: tra i 18 e i 59 anni, se non sei disabile e non assisti bambini, anziani o malati, sei considerato idoneo al lavoro. Tradotto in tedesco e poi riportato in italiano: lo Stato non ti mantiene più. Fine del reddito di cittadinanza, fine di un simbolo che aveva trasformato l’assistenza in identità politica.
Certo, la Faz non chiude gli occhi sulle ombre. Le difficoltà burocratiche per il riconoscimento dell’invalidità, la disoccupazione giovanile che resta una ferita aperta, l’aumento dei senzatetto complice il caro affitti. E soprattutto il dato che fa male: secondo Eurostat, il reddito reale delle famiglie italiane è ancora inferiore del 4% rispetto al 2008, mentre nell’Unione europea è cresciuto del 14%. Un’Italia che lavora di più e guadagna meno, insomma. Altro che dolce vita.
Eppure, nello stesso articolo, arrivano anche i «ma». I benefici maggiori per le famiglie con più figli, l’attenzione al costo della vita modulato sulle Regioni, un sistema che prova - almeno nelle intenzioni - a essere meno ideologico e più selettivo. Famiglie aiutate, non assistenzialismo a pioggia. Una formula che, detta così, sembra quasi piacere ai severi custodi del rigore tedesco.
Il paradosso è tutto qui. Mentre in Italia il dibattito resta spesso intrappolato nella rissa nostalgica tra chi rimpiange il reddito grillino e chi lo considera il male assoluto, all’estero si guarda al quadro d’insieme. E il quadro racconta di un Paese che, abolendo un simbolo identitario, manda un segnale ai mercati. Risultato: spread giù, rendimenti ai minimi, investitori che smettono di trattare Roma come un parente scapestrato.
Non è un miracolo, né una promozione a pieni voti. È piuttosto una tregua armata, una sospensione del giudizio. I mercati, come ricorda il Financial Times, hanno la memoria lunga ma sanno perdonare. I giornali tedeschi, quando vedono i conti tornare, sanno persino riconoscere i meriti. E così l’Italia scopre che abolire il reddito di cittadinanza non è solo una battaglia ideologica interna, ma anche un messaggio cifrato spedito a Londra e Francoforte.
Il messaggio è semplice: meno sussidi simbolici, più disciplina. Meno periferia, più «fusione» con il cuore dell’Eurozona. Poi, certo, resta il nodo dei salari bassi, della povertà che non arretra, delle giovani generazioni che faticano a trovare un posto nel mondo. Ma intanto, per una volta, l’Italia smette di essere il problema e diventa un caso di studio.
E scusate se è poco.
E alla fine anche l’argento ha deciso di smettere i panni del comprimario. Altro che cugino povero dell’oro, altro che metallo per il servizio di posate della nonna: oggi l’argento corre, sgomita e si prende la scena. A 77 dollari l’oncia, con un balzo del 160% da inizio anno, brilla come non mai e manda un messaggio chiaro ai mercati: non sono solo un bene rifugio, sono il metallo del futuro. Parola di Oxford Economics, che non è esattamente l’ultimo blog complottista sul Web, ma una delle bussole più ascoltate dalla finanza globale essendo un’articolazione della famosa università britannica.
Il punto è che l’argento ha trovato il modo perfetto per piacere a tutti. Agli investitori spaventati dal debito mondiale fuori controllo che potrebbe incenerire il valore delle monete, ai gestori che temono la stagflazione (il mostro fatto da inflazione e recessione), a chi guarda con sospetto al dollaro e all’indipendenza della Fed. Ma anche - ed è qui la vera svolta - all’economia reale che corre verso l’elettrificazione, la digitalizzazione e l’Intelligenza artificiale. Un metallo bipartisan, potremmo dire: piace ai falchi e alle colombe, ai trader e agli ingegneri.
Dietro il rally non c’è solo la solita corsa al riparo mentre i tassi Usa scendono fra le prudenze di Powell e le intemperanze di Trump. Il debito globale fa il giro del mondo senza mai fermarsi. C’è soprattutto una domanda industriale che cresce come l’appetito di un adolescente davanti a una pizza maxi. L’argento ha proprietà di conducibilità elettrica e termica che lo rendono insostituibile in una lunga serie di tecnologie chiave. E così, mentre il mondo si elettrifica, si digitalizza e si affida sempre più agli algoritmi, il metallo lucente diventa il filo conduttore - letteralmente - della nuova economia.
Prendiamo il fotovoltaico. Nel 2014 assorbiva appena l’11% della domanda industriale di argento. Dieci anni dopo siamo al 29%. Certo, i produttori di pannelli sono diventati più efficienti e riescono a usare meno metallo per modulo. Ma dall’altra parte della bilancia ci sono obiettivi sempre più ambiziosi: l’Unione europea punta ad almeno 700 gigawatt di capacità solare entro il 2030. Tradotto: anche con celle più parsimoniose, di argento ne servirà comunque a palate.
Poi ci sono le auto elettriche, che di sobrio hanno solo il rumore del motore. Ogni veicolo elettrico consuma tra il 67% e il 79% di argento in più rispetto a un’auto a combustione interna. Dai sistemi di gestione delle batterie all’elettronica di potenza, fino alle colonnine di ricarica, l’argento è ovunque. Oxford Economics stima che già entro il 2027 i veicoli a batteria supereranno le auto tradizionali come principale fonte di domanda di argento nel settore automotive. E nel 2031 rappresenteranno il 59% del mercato. Altro che rottamazione: qui è l’argento che prende il volante.
Capitolo data center e Intelligenza artificiale. Qui i numeri fanno girare la testa: la capacità energetica globale dell’IT è passata da meno di 1 gigawatt nel 2000 a quasi 50 gigawatt nel 2025. Un aumento del 5.252%. Ogni server, ogni chip, ogni infrastruttura che alimenta l’Intelligenza artificiale ha bisogno di metalli critici. E indovinate chi c’è sempre, silenzioso ma indispensabile? Esatto, l’argento. I governi lo hanno capito e trattano ormai i data center come infrastrutture strategiche, tra incentivi fiscali e corsie preferenziali. Il risultato è una domanda strutturale destinata a durare ben oltre l’ennesimo ciclo speculativo.
Intanto, sul fronte dell’offerta, la musica è tutt’altro che allegra. La produzione globale cresce a passo di lumaca, il riciclo aumenta ma non basta e il mercato è in deficit per il quinto anno consecutivo. Dal 2021 al 2025 il buco cumulato sfiora le 820 milioni di once (circa 26.000 tonnellate). Un dettaglio che aiuta a spiegare perché, nonostante qualche correzione, i prezzi restino ostinatamente alti e la liquidità sia spesso sotto pressione, con tassi di locazione da record e consegne massicce nei depositi del Chicago Mercantile Exchange, il più importante listino del settore.
Nel frattempo gli investitori votano con il portafoglio. Gli scambi sui derivati dell’argento sono saliti del 18% in pochi mesi. Il rapporto oro-argento è sceso, segnale che anche gli istituzionali iniziano a guardare al metallo bianco con occhi diversi. Non più solo assicurazione contro il caos, ma scommessa sulla trasformazione dell’economia globale.
Ecco perché l’argento oggi non si limita a brillare: racconta una storia. Quella di un mondo che cambia, che consuma più elettricità, più dati, più tecnologia. Un mondo che ha bisogno di metalli «di nuova generazione», come li definisce Oxford Economics. L’oro resta il re dei ben rifugio, ma l’argento si è preso il ruolo più ambizioso: essere il ponte tra la paura del presente e la scommessa sul futuro. E a giudicare dai prezzi, il mercato ha già deciso da che parte stare.




