Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.
Antonveneta: la madre di tutte le sciagure. Prima di parlare del presente, Schlein potrebbe ripassare la lezione del passato. E sarebbe un ripasso lungo, doloroso e imbarazzante. La sciagurata acquisizione di Antonveneta rimane il simbolo di una stagione in cui la politica ha trattato la banca come una cassaforte per alimentare consenso, clientele e rendite di potere. Mps pagò quell’acquisizione 9 miliardi, una follia finanziaria spacciata per «operazione strategica». Di strategico, in realtà, c’era solo il desiderio della dirigenza – tutta inserita, per tradizione, nelle correnti politico-amministrative che facevano capo proprio all’area oggi rappresentata da Schlein – di allargare il proprio impero territoriale.
Antonveneta non fu un errore: fu un suicidio. Una scelta dissennata, difesa con arroganza e raccontata come un capolavoro industriale mentre apriva la strada ad un altro disastro. Perché la storia nera di Mps non si ferma ad Antonveneta. Tra le pagine meno ricordate – e forse volutamente rimosse – c’è la vicenda di Banca121, un’acquisizione che agli «amici di D’Alema» garantì un dividendo record: 2.500 miliardi di lire. Una cifra che oggi farebbe tremare i polsi, all’epoca liquidata con nonchalance, perché a rimetterci non erano certo i protetti del sistema, ma i risparmiatori. Banca121 fu il laboratorio del peggio: prodotti tossici venduti come conservativi, famiglie ingannate con la retorica del «rendimento sicuro», impiegati trasformati in venditori di materiale esplosivo finanziario. I piccoli investitori persero miliardi. I «grandi», invece, si sistemarono. Un classico della politica di prossimità: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite. Altro che «opacità del governo Meloni»: qui parliamo di un modello di gestione costruito per decenni nelle cantine del potere locale, dove i vertici della banca e le amministrazioni legate al centrosinistra facevano e disfacevano senza che nessuno, oggi tanto indignato, alzasse un dito. Schlein accusa Giorgetti, invoca il Mef, parla di conflitti, richiama all’ordine il governo. Ma non dice una parola su chi davvero condusse il primo, gigantesco salvataggio pubblico di Mps: Pier Carlo Padoan, all’epoca ministro dell’Economia. Un uomo che qualche anno dopo avrebbe trovato un’accoglienza calorosa proprio lì, a Siena, candidato del Pd. Una coincidenza? Una ricompensa? Una scelta politica? Qualunque sia la risposta, solo a pronunciarla verrebbe da alzare un sopracciglio. Anche perché val la pena ricordadre che si tratta dello stesso Padoan che poi è diventato presidente di Unicredit. In un Paese normale, qualcuno nel partito si farebbe almeno una domanda sulla compatibilità morale. Ma evidentemente la memoria, quando si tratta di Mps, è facoltativa. Nel coro delle indignazioni non poteva mancare Giuseppe Conte, il moralista retroattivo per professione. Oggi si accoda ai critici, dimenticando che i suoi governi hanno usato Mps come un totem da agitare a seconda delle necessità politiche del momento: banca pubblica, banca di sistema, banca da vendere, banca da tenere… ogni settimana una versione diversa, ogni stagione un proclama nuovo.
Ora Schlein chiede chiarezza. Pretende rigore. Invoca procure, audizioni, puntualizzazioni. E va benissimo: è il ruolo dell’opposizione. Ma prima di salire sul pulpito, forse farebbe bene a guardare negli archivi del suo stesso partito: lì si trova l’opacità autentica. Quella che ha davvero sventrato la banca secolare. Una demolizione fatta con scelte politiche scellerate, supervisionate da dirigenti incapaci o compiacenti, difese per anni con testardaggine e arroganza.
È facile puntare il dito contro chi governa oggi. Molto più difficile guardarsi allo specchio e riconoscere che la notte in cui Mps si è perduto non è una notte recente. È una notte senza stelle. Una notte firmata Pd. E allora sì, Schlein può continuare a chiedere trasparenza. Ma sarebbe più credibile se, prima di reclamare lampi di luce, si decidesse finalmente a fare i conti con le ombre del passato. Giorgetti prepara le difese: «Il Mef ha agito sempre nel rispetto delle regole e della prassi».
Quarant’anni prima che il sovranismo diventasse moneta corrente nei talk show, prima ancora che il governo facesse della «difesa del risparmio degli italiani» la nuova regola d ingaggio, c’era già qualcuno che quel principio lo aveva trasformato in architettura finanziaria. Enrico Cuccia, il padre-padrone di Mediobanca, aveva immaginato una sorta di galassia del Nord: un intreccio di Mediobanca, Comit e Generali, saldati da un’idea semplice ma potente. Fare da scudo alla ricchezza del Paese. Proteggere il risparmio nazionale dalle pressioni esterne, mantenere il controllo delle grandi casseforti italiane dentro confini riconoscibili.
Il «capitalismo relazionale», tanto vituperato negli anni successivi, era nato con un intento quasi patriottico. Ecco perché oggi la storia sembra giocare un curioso contrappasso. Mentre Palazzo Chigi insiste che gli asset strategici devono restare italiani, l’inchiesta della Procura di Milano sulla scalata di Mps a Mediobanca sta avendo un effetto che nessuno, nei palazzi romani, aveva messo in conto: ringalluzzire i francesi, che da mesi avevano dossier aperti, accordi sospesi, intese in stand-by.
Tutto improvvisamente congelato, in attesa di capire se la tempesta sulla banca senese avrebbe compromesso gli equilibri industriali e politici attorno a Piazza Affari. Ora, con i riflettori puntati su Rocca Salimbeni, quella pausa si è trasformata in un’opportunità. Per esempio Axa, che con Mps ha rapporti solidi e che vedeva nella nuova fase della banca – l’espansione nella gestione del risparmio, le sinergie bancassicurative, il rilancio commerciale – un terreno fertile. Erano settimane in cui tutto sembrava scorrere con prudenza, come se anche a Parigi aspettassero di capire quanto la «scalata» su Mediobanca avrebbe destabilizzato il quadro. E invece l’inchiesta ha cambiato la prospettiva: un Mps politicamente più debole non è un Mps meno interessante, anzi. Diventa un partner più gestibile, meno tentato da manovre aggressive, più incline a rafforzare le collaborazioni esistenti. Axa, che già aveva intensificato il proprio presidio nel wealth management italiano, ora intravede un nuovo futuro in un contesto che sembrava destinato al gelo. Il paradosso si completa guardando Trieste. Generali aveva messo nel freezer la joint venture con Natixis, una delle braccia finanziarie più importanti d’Oltralpe. Un segnale opposto rispetto alla postura di Axa, dettato dal clima politico e dalle tensioni regolamentari. Ma ora che la tempesta giudiziaria su Mps-Mediobanca rimescola le carte, anche quel congelatore non e sigillato. Non perché Generali stia per riaprire il dossier, ma perché qualsiasi indebolimento dei player italiani rafforza l’interesse francese a restare nel perimetro, pronti a intervenire quando il quadro si chiarirà.
Il risultato è evidente: la Procura milanese ha ridato fiato alle ambizioni francesi nei salotti buoni della finanza italiana. E poi c’è l’altro capitolo, quello più politico. Perché se l’indagine indebolisce Mps e complica la vita al governo, il suo effetto collaterale è rafforzare le mire di Crédit Agricole su Banco Bpm. Agricole non ha mai smesso di guardare con attenzione al terzo polo bancario italiano. Ha costruito posizioni, rafforzato legami, rastrellato quote, mantenuto un profilo silenzioso ma determinato. Il governo Meloni, al contrario, ha sempre frenato, temendo che una conquista francese del Banco avrebbe rappresentato una resa strategica. Ora, però, lo scenario è cambiato: Mps è sotto pressione, Mediobanca è tornata a essere terreno scivoloso; il governo appare meno in grado di manovrare. E quando la politica è debole, le banche francesi diventano più forti.
Per Crédit Agricole, la situazione attuale somiglia al «momento giusto»: un establishment italiano disorientato, un esecutivo impegnato a difendersi dagli effetti dell’inchiesta, e un mercato che percepisce l’intero sistema bancario come più vulnerabile. Non è detto che l’assalto parta subito. Ma di certo l’offerta potenziale – quella che il governo ha finora bloccato con la sola forza della retorica – oggi vale di più. Il ritorno dell’ombra lunga di Cuccia. In fondo, tutto questo riporta alla lezione iniziale: quando lo Stato smette di presidiare le sue roccaforti e quando le regole si intrecciano con la politica, le porte si aprono sempre per qualcuno che aspetta fuori dal portone. Cuccia aveva immaginato un sistema per proteggere il risparmio italiano dalle invasioni straniere. Un sistema rigido, criticabile, opaco, ma coerente. Oggi quella coerenza non esiste più. E l’inchiesta milanese, qualunque ne sia l’esito, sta mostrando quanto l’assetto italiano sia permeabile. Finisce così che mentre il governo ripete lo slogan «gli italiani devono controllare la loro ricchezza», sono i francesi a vedere moltiplicate le occasioni: Axa che ritrova slancio su Mps, Natixis che può aspettare ma non arretra su Generali, Crédit Agricole che si ritrova una strada quasi spianata verso Banco Bpm. Sono effetti collaterali, certo. Ma nella finanza – e nella geopolitica del risparmio – gli effetti collaterali contano più delle intenzioni.
L’Italia che voleva difendere il suo risparmio come ai tempi di Cuccia si risveglia nella posizione opposta: non più scudo, ma occasione. E i francesi sanno perfettamente come approfittarne.
In Italia c’è sempre un istante preciso in cui la giustizia decide di scendere in campo con un provvedimento a orologeria. Non è mai un caso, mai un incidente: è una coreografia. E così, nel giorno in cui Mps perde il 4,56%, Mediobanca scivola di un altro -1,9%, e il mercato si chiede cosa stia succedendo, arriva il colpo di teatro: la Procura di Milano notifica avvisi di garanzia a Borsa aperta, come se si trattasse di un profit warning. Tempismo chirurgico. L’effetto è devastante: Mps affonda a 8,330 euro, Mediobanca scivola a 16,750. E tutto perché la notizia - trapelata prima da Corriere.it e poi confermata da un comunicato di Rocca Salimbeni - corre come una scintilla tra gli operatori: Francesco Gaetano Caltagirone, Francesco Milleri e il ceo Luigi Lovaglio sono indagati nell’inchiesta sulla scalata che ha portato l’istituto senese a conquistare l’86,3% di Mediobanca.
Gli inquirenti - i pm Luca Gaglio e Giovanni Polizzi, coordinati dall’aggiunto Roberto Pellicano - ipotizzano reati pesanti: manipolazione di mercato, aggiotaggio, ostacolo alle autorità di vigilanza. Tradotto: l’operazione da 13,5 miliardi che ha ribaltato il controllo di Piazzetta Cuccia potrebbe essere nata da un patto occulto tra i tre. Una parola che, nei tribunali, suona come un reato, ma sui mercati è un terremoto.
A ricevere l’avviso di garanzia è stato direttamente Lovaglio, l’uomo che ha rimesso in piedi la banca toscana e che ora si trova a dover spiegare ai mercati perché la Guardia di Finanza gli perquisisce gli uffici mentre l’azione viene scambiata al ribasso.
Nel suo comunicato ufficiale, Mps mantiene il consueto aplomb istituzionale: si dice «confidente di poter fornire tutti gli elementi a chiarimento della correttezza del proprio operato» e ribadisce «piena fiducia nelle autorità competenti». Una fiducia che oggi vale ben il 4,56% di capitalizzazione in meno. Perché, piaccia o no, la Procura ha scelto il momento più sensibile per far saltare i nervi al mercato. Figuriamoci se la stessa indagine porta la firma di Consob, Bce, Ivass.
Il puzzle investigativo è complesso e elementare nella sua rappresentazione. I partecipanti al patto segreto sono: Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore romano e settimo uomo più ricco d’Italia; Francesco Milleri, presidente di Delfin, la cassaforte della famiglia Del Vecchio che gestisce oltre 50 miliardi; Luigi Lovaglio, il settantenne banchiere lucano che ha riportato Mps a respirare. Secondo i pm, avrebbero agito in modo coordinato fin dal novembre 2024, quando, grazie al collocamento curato da Banca Akros, Caltagirone e Delfin rilevarono il 7% di Mps che il Tesoro aveva appena messo sul mercato. Da lì sarebbe nata la testa di ponte per scalare Mediobanca, la cattedrale laica della finanza italiana; scalata poi culminata a settembre con la conquista dell’86,3% del capitale. Ma gli inquirenti sospettano che il «patto» non sia mai stato dichiarato né al mercato né alle autorità.
In più, nel miscuglio si inserisce un dettaglio che non pesa poco: Mediobanca detiene il 13,2% di Generali, di cui Caltagirone e Delfin erano già soci importanti, arrivando insieme al 17% del Leone. E non è un mistero che nel 2022 proprio i due tentarono di ribaltare la governance del gruppo triestino.
Da qui l’ingresso sulla scena anche dell’Ivass, perché quando c’è di mezzo Generali, ogni authority vuole leggere i documenti. E ogni sospetto raddoppia. Il problema, però, è un altro. E non piace affatto ai piani alti del governo: la Procura ha tirato la stoccata nel giorno peggiore e nel minuto peggiore.
Un avviso di garanzia a Borsa aperta equivale a un siluro lanciato sul mercato. E gli effetti collaterali non sono solo finanziari: sono politici. Il governo, che ancora deteneva la quota pubblica di Mps e che ha accompagnato l’intera operazione come garante «silente», oggi sembra subire uno sgambetto. Anzi, una falciata. Perché la narrativa era lineare: Mps risanata; governance solida; controllo di Mediobanca acquisito, dossier Generali da incastrare; lo Stato pronto a uscire a testa alta. Poi arriva la Procura, apre il faldone, avvisa gli indagati, manda la Guardia di Finanza e lascia che sia la Borsa a fare il resto.
Il risultato? In poche ore, due delle principali istituzioni finanziarie del Paese perdono terreno, gli investitori si chiedono se la scalata sia davvero pulita, e il governo si ritrova costretto a spiegare che non è affatto un terremoto, ma solo una «procedura» - parola che ormai spaventa quanto una crisi bancaria.
Sarà pure tutto legittimo. Ma resta il tempismo. Quel tempismo chirurgico che sembra fatto apposta per destabilizzare, non per informare.
Perché se davvero serviva tutelare il mercato, la comunicazione poteva attendere almeno la chiusura della seduta. Ma no: alle 14,30 partono le notifiche, alle 15,15 arrivano le indiscrezioni, alle 16 Mps affonda. E il resto è un grafico in picchiata.
Un’altra giornata italiana, insomma. Dove la giustizia arriva sempre puntuale - anche quando sarebbe meglio arrivasse tardi.




