Certe volte la Borsa sembra più un teatro di varietà che un tempio della finanza. E infatti Mps torna a ballare sul palcoscenico di Piazza Affari con il passo felpato - ma deciso - di chi ha appena scampato un temporale giudiziario. Il titolo della banca di Siena, rinvigorito come un cavallo dopo il cambio di ferri, è schizzato in cima al Ftse Mib con un elegante +4,9%, più brillante del listino, rimasto lì a guardare come un coro muto.
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
Quando Elly Schlein parla di «opacità del governo nella scalata Mps su Mediobanca», è difficile trattenere un sorriso. Amaro, s’intende. Perché è difficile ascoltare un appello alla trasparenza proprio dalla segretaria del partito che ha portato il Monte dei Paschi di Siena dall’essere la banca più antica del mondo a un cimitero di esperimenti politici e clientelari. Una rimozione selettiva che, se non fosse pronunciata con serietà, sembrerebbe il copione di una satira. Schlein tuona contro «il ruolo opaco del governo e del Mef», chiede a Giorgetti di presentarsi immediatamente in Parlamento, sventola richieste di trasparenza come fossero trofei morali. Ma evita accuratamente di ricordare che l’opacità vera, quella strutturale, quella che ha devastato la banca, porta un marchio indelebile: il Pci e i suoi eredi. Un marchio inciso nella pietra di Rocca Salimbeni, dove negli anni si è consumato uno dei più grandi scempi finanziari della storia repubblicana. Un conto finale da 8,2 miliardi pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti, mentre i signori del «buon governo» locale si dilettavano con le loro clientele.
Antonveneta: la madre di tutte le sciagure. Prima di parlare del presente, Schlein potrebbe ripassare la lezione del passato. E sarebbe un ripasso lungo, doloroso e imbarazzante. La sciagurata acquisizione di Antonveneta rimane il simbolo di una stagione in cui la politica ha trattato la banca come una cassaforte per alimentare consenso, clientele e rendite di potere. Mps pagò quell’acquisizione 9 miliardi, una follia finanziaria spacciata per «operazione strategica». Di strategico, in realtà, c’era solo il desiderio della dirigenza – tutta inserita, per tradizione, nelle correnti politico-amministrative che facevano capo proprio all’area oggi rappresentata da Schlein – di allargare il proprio impero territoriale.
Antonveneta non fu un errore: fu un suicidio. Una scelta dissennata, difesa con arroganza e raccontata come un capolavoro industriale mentre apriva la strada ad un altro disastro. Perché la storia nera di Mps non si ferma ad Antonveneta. Tra le pagine meno ricordate – e forse volutamente rimosse – c’è la vicenda di Banca121, un’acquisizione che agli «amici di D’Alema» garantì un dividendo record: 2.500 miliardi di lire. Una cifra che oggi farebbe tremare i polsi, all’epoca liquidata con nonchalance, perché a rimetterci non erano certo i protetti del sistema, ma i risparmiatori. Banca121 fu il laboratorio del peggio: prodotti tossici venduti come conservativi, famiglie ingannate con la retorica del «rendimento sicuro», impiegati trasformati in venditori di materiale esplosivo finanziario. I piccoli investitori persero miliardi. I «grandi», invece, si sistemarono. Un classico della politica di prossimità: privatizzazione dei profitti, socializzazione delle perdite. Altro che «opacità del governo Meloni»: qui parliamo di un modello di gestione costruito per decenni nelle cantine del potere locale, dove i vertici della banca e le amministrazioni legate al centrosinistra facevano e disfacevano senza che nessuno, oggi tanto indignato, alzasse un dito. Schlein accusa Giorgetti, invoca il Mef, parla di conflitti, richiama all’ordine il governo. Ma non dice una parola su chi davvero condusse il primo, gigantesco salvataggio pubblico di Mps: Pier Carlo Padoan, all’epoca ministro dell’Economia. Un uomo che qualche anno dopo avrebbe trovato un’accoglienza calorosa proprio lì, a Siena, candidato del Pd. Una coincidenza? Una ricompensa? Una scelta politica? Qualunque sia la risposta, solo a pronunciarla verrebbe da alzare un sopracciglio. Anche perché val la pena ricordadre che si tratta dello stesso Padoan che poi è diventato presidente di Unicredit. In un Paese normale, qualcuno nel partito si farebbe almeno una domanda sulla compatibilità morale. Ma evidentemente la memoria, quando si tratta di Mps, è facoltativa. Nel coro delle indignazioni non poteva mancare Giuseppe Conte, il moralista retroattivo per professione. Oggi si accoda ai critici, dimenticando che i suoi governi hanno usato Mps come un totem da agitare a seconda delle necessità politiche del momento: banca pubblica, banca di sistema, banca da vendere, banca da tenere… ogni settimana una versione diversa, ogni stagione un proclama nuovo.
Ora Schlein chiede chiarezza. Pretende rigore. Invoca procure, audizioni, puntualizzazioni. E va benissimo: è il ruolo dell’opposizione. Ma prima di salire sul pulpito, forse farebbe bene a guardare negli archivi del suo stesso partito: lì si trova l’opacità autentica. Quella che ha davvero sventrato la banca secolare. Una demolizione fatta con scelte politiche scellerate, supervisionate da dirigenti incapaci o compiacenti, difese per anni con testardaggine e arroganza.
È facile puntare il dito contro chi governa oggi. Molto più difficile guardarsi allo specchio e riconoscere che la notte in cui Mps si è perduto non è una notte recente. È una notte senza stelle. Una notte firmata Pd. E allora sì, Schlein può continuare a chiedere trasparenza. Ma sarebbe più credibile se, prima di reclamare lampi di luce, si decidesse finalmente a fare i conti con le ombre del passato. Giorgetti prepara le difese: «Il Mef ha agito sempre nel rispetto delle regole e della prassi».
Quarant’anni prima che il sovranismo diventasse moneta corrente nei talk show, prima ancora che il governo facesse della «difesa del risparmio degli italiani» la nuova regola d ingaggio, c’era già qualcuno che quel principio lo aveva trasformato in architettura finanziaria. Enrico Cuccia, il padre-padrone di Mediobanca, aveva immaginato una sorta di galassia del Nord: un intreccio di Mediobanca, Comit e Generali, saldati da un’idea semplice ma potente. Fare da scudo alla ricchezza del Paese. Proteggere il risparmio nazionale dalle pressioni esterne, mantenere il controllo delle grandi casseforti italiane dentro confini riconoscibili.
Il «capitalismo relazionale», tanto vituperato negli anni successivi, era nato con un intento quasi patriottico. Ecco perché oggi la storia sembra giocare un curioso contrappasso. Mentre Palazzo Chigi insiste che gli asset strategici devono restare italiani, l’inchiesta della Procura di Milano sulla scalata di Mps a Mediobanca sta avendo un effetto che nessuno, nei palazzi romani, aveva messo in conto: ringalluzzire i francesi, che da mesi avevano dossier aperti, accordi sospesi, intese in stand-by.
Tutto improvvisamente congelato, in attesa di capire se la tempesta sulla banca senese avrebbe compromesso gli equilibri industriali e politici attorno a Piazza Affari. Ora, con i riflettori puntati su Rocca Salimbeni, quella pausa si è trasformata in un’opportunità. Per esempio Axa, che con Mps ha rapporti solidi e che vedeva nella nuova fase della banca – l’espansione nella gestione del risparmio, le sinergie bancassicurative, il rilancio commerciale – un terreno fertile. Erano settimane in cui tutto sembrava scorrere con prudenza, come se anche a Parigi aspettassero di capire quanto la «scalata» su Mediobanca avrebbe destabilizzato il quadro. E invece l’inchiesta ha cambiato la prospettiva: un Mps politicamente più debole non è un Mps meno interessante, anzi. Diventa un partner più gestibile, meno tentato da manovre aggressive, più incline a rafforzare le collaborazioni esistenti. Axa, che già aveva intensificato il proprio presidio nel wealth management italiano, ora intravede un nuovo futuro in un contesto che sembrava destinato al gelo. Il paradosso si completa guardando Trieste. Generali aveva messo nel freezer la joint venture con Natixis, una delle braccia finanziarie più importanti d’Oltralpe. Un segnale opposto rispetto alla postura di Axa, dettato dal clima politico e dalle tensioni regolamentari. Ma ora che la tempesta giudiziaria su Mps-Mediobanca rimescola le carte, anche quel congelatore non e sigillato. Non perché Generali stia per riaprire il dossier, ma perché qualsiasi indebolimento dei player italiani rafforza l’interesse francese a restare nel perimetro, pronti a intervenire quando il quadro si chiarirà.
Il risultato è evidente: la Procura milanese ha ridato fiato alle ambizioni francesi nei salotti buoni della finanza italiana. E poi c’è l’altro capitolo, quello più politico. Perché se l’indagine indebolisce Mps e complica la vita al governo, il suo effetto collaterale è rafforzare le mire di Crédit Agricole su Banco Bpm. Agricole non ha mai smesso di guardare con attenzione al terzo polo bancario italiano. Ha costruito posizioni, rafforzato legami, rastrellato quote, mantenuto un profilo silenzioso ma determinato. Il governo Meloni, al contrario, ha sempre frenato, temendo che una conquista francese del Banco avrebbe rappresentato una resa strategica. Ora, però, lo scenario è cambiato: Mps è sotto pressione, Mediobanca è tornata a essere terreno scivoloso; il governo appare meno in grado di manovrare. E quando la politica è debole, le banche francesi diventano più forti.
Per Crédit Agricole, la situazione attuale somiglia al «momento giusto»: un establishment italiano disorientato, un esecutivo impegnato a difendersi dagli effetti dell’inchiesta, e un mercato che percepisce l’intero sistema bancario come più vulnerabile. Non è detto che l’assalto parta subito. Ma di certo l’offerta potenziale – quella che il governo ha finora bloccato con la sola forza della retorica – oggi vale di più. Il ritorno dell’ombra lunga di Cuccia. In fondo, tutto questo riporta alla lezione iniziale: quando lo Stato smette di presidiare le sue roccaforti e quando le regole si intrecciano con la politica, le porte si aprono sempre per qualcuno che aspetta fuori dal portone. Cuccia aveva immaginato un sistema per proteggere il risparmio italiano dalle invasioni straniere. Un sistema rigido, criticabile, opaco, ma coerente. Oggi quella coerenza non esiste più. E l’inchiesta milanese, qualunque ne sia l’esito, sta mostrando quanto l’assetto italiano sia permeabile. Finisce così che mentre il governo ripete lo slogan «gli italiani devono controllare la loro ricchezza», sono i francesi a vedere moltiplicate le occasioni: Axa che ritrova slancio su Mps, Natixis che può aspettare ma non arretra su Generali, Crédit Agricole che si ritrova una strada quasi spianata verso Banco Bpm. Sono effetti collaterali, certo. Ma nella finanza – e nella geopolitica del risparmio – gli effetti collaterali contano più delle intenzioni.
L’Italia che voleva difendere il suo risparmio come ai tempi di Cuccia si risveglia nella posizione opposta: non più scudo, ma occasione. E i francesi sanno perfettamente come approfittarne.





