True
2025-12-24
Grillo jr e la condanna per stupro di gruppo. Uscite le motivazioni: «Vittima attendibile»
Ansa
Pur senza prove inconfutabili la ragazza è stata ritenuta non consenziente. E a Ciro & C. sono state inflitte pene fino a 8 anni.
Sembra che i giudici di Tempio Pausania abbiano già recepito la riforma dell’articolo 609 bis del codice penale, quello che punisce la violenza sessuale e introduce il concetto del «consenso libero e attuale». In assenza è violenza. Stando al testo approvato alla Camera e che, al momento, è fermo al Senato (sono stati richiesti approfondimenti), non servirà più dimostrare la forza o la minaccia, durante un rapporto sessuale basterà l’assenza di una volontà chiara, presente e consapevole. E il processo a Ciro Grillo e compagni pare offrire uno spaccato del processo che verrà (anche se la norma non può essere retroattiva).
«Posizione centrale nell’ambito della ricostruzione accusatoria, come è inevitabile con riguardo a tali fattispecie di reato, rivestono le dichiarazioni della persona offesa». Il Collegio sardo lo scrive senza giri di parole. La condanna a 8 anni di reclusione per Grillo junior, Edoardo Capitta e Vittorio Lauria, e a 6 anni e 6 mesi per Francesco Corsiglia, per l’accusa di violenza sessuale di gruppo che si sarebbe consumata nella villetta dei Grillo a Cala Volpe di Arzachena il 17 luglio 2019, nasce da lì. Da una scelta iniziale che orienta tutte le 72 pagine della stringata motivazione (a fronte di un processo durato tre anni). Tutta concentrata sulle dichiarazioni della persona offesa.
Il resto è contorno. Il Collegio presieduto da Marco Contu, con a latere Marcella Pinna e Alessandro Cossu, lo rende subito noto: «Dette dichiarazioni, si anticipa, hanno trovato plurimi, convincenti, elementi di riscontro, tali da consentire di ritenere comprovata, al di là di ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza» dei ragazzi. La conclusione è già scritta prima dell’analisi e il dubbio viene escluso per annuncio, richiamando la Cassazione: «Le dichiarazioni della persona offesa costituita parte civile possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale».
La sentenza cita una lista impressionante di testimoni: vicini di casa, proprietari di abitazioni confinanti (con vista sul patio di casa Grillo), ospiti del comprensorio, personale di servizio, tassisti e baristi. Eppure nessuno si è accorto di nulla. Il tribunale ne prende atto, ma poi neutralizza il dato con questa formula: i reati di violenza sessuale «tipicamente si consumano lontano da sguardi e orecchie indiscrete». E, così, ciò che in altri processi sarebbe elemento a favore degli imputati diventa irrilevante. Lo stesso accade con i dati tecnici ricavabili dalle celle telefoniche. La sentenza ne descrive i limiti nel periodo estivo (sarebbero a rischio saturazione), ma poi utilizza quelle stesse informazioni per confermare la ricostruzione accusatoria. Non perché dimostrino una violenza, ma perché non la escludono. Stesso orientamento per le lesioni, accertate nove giorni dopo i fatti. I giudici lo scrivono chiaramente: «Non sono state riscontrate lesioni a livello ginecologico, circostanza del tutto normale in ragione del tempo trascorso dalla violenza».
Il vuoto viene riempito dalle ecchimosi sugli arti: «Lesioni contusive compatibili anche con la pressione di una mano» (ma pure con lo sport praticato dalla presunta vittima, il kitesurf) e «coerenti» con una condotta «di tipo violento e costrittivo». Compatibili. E quindi sufficienti a rafforzare il racconto. Ogni elemento, infatti, non viene mai messo in discussione tenendo in considerazione le tesi difensive. Il monumentale lavoro dei legali degli imputati, che avevano segnalato 387 criticità nella versione della giovane, suddivise tra 70 «non ricordo», 20 contraddizioni interne (versioni divergenti fornite dallo stesso teste), 19 esterne (incompatibilità con altri testimoni o con i dati oggettivi) e 23 risposte elusive o reticenti, è stato liquidato con tre righe, lasciando una strada spianata per l’Appello.
Altro snodo decisivo: l’alcol. La sentenza riconosce che non esista un dato oggettivo. Nessun tasso alcolemico misurato. Nessun accertamento tossicologico. Nonostante ciò la conclusione è definitiva: la persona offesa si trovava in una condizione di «inferiorità fisica e psichica» tale da rendere invalido il consenso. Ma a stabilirlo non è la scienza, bensì una valutazione giudiziaria. I giudici fanno proprie le conclusioni di un consulente del pm secondo cui la studentessa «non presentava criticità da un punto di vista cognitivo» e «la sua memoria autobiografica era adeguata». E concludono che non vi è «simulazione». Così, a bocce ferme, senza prove concrete. Per il Collegio «non può revocarsi in dubbio», si legge nella motivazione, «che l’assunzione del “beverone”, contenente anche una quantità di vodka, abbia provocato nella stessa una condizione di inferiorità fisica e psichica che ha agevolato l’operato criminoso degli imputati». Non solo: «La descrizione della parte offesa», sempre quella, «esclude senz’altro un’ipotesi di consenso da parte della stessa». Per le toghe i ragazzi hanno «agito in un contesto predatorio e prevaricatorio non tenendo in considerazione alcuna lo stato di fragilità in cui versava la ragazza».
Secondo i giudici «non vi è alcun dubbio che gli imputati abbiano, con la loro azione, consapevolmente leso la libertà sessuale della ragazza, approfittando, a tal fine, delle condizioni di minorata difesa di quest’ultima, e dunque ben consci dello stato di ubriachezza della vittima». Il Collegio ha dato per assodata anche la costrizione «ad assumere sostanze alcoliche». Il tribunale richiama più volte anche il materiale audiovisivo, sia quello girato nel corso della mattinata del 17 luglio, sia quello oggetto delle consulenze tecniche. «La scena», ricostruisce il Collegio, «viene ripresa da Capitta con il proprio cellulare». E al centro della scena c’è Ciro. Fin dall’inizio, secondo i giudici, «si può notare una situazione di chiarissima concitazione sessuale». A peggiorare la situazione degli imputati sono state anche le battute che si sono scambiati durante l’amplesso di gruppo: «Di sottofondo è possibile udire la voce degli altri due ragazzi presenti nella stanza bisbigliare a Grillo frasi di incitamento quali “ti prego Ciro” e poi “di più”», con un atteggiamento che, secondo i giudici, è «espressivo di chi vuole fornire un contributo attivo rafforzativo dell’azione collettiva».
Quanto alle fotografie con i membri immortalati vicino al volto di un’altra ragazza dormiente e a ulteriori filmati, i giudici escludono la goliardia: «Non si è trattato di mero esibizionismo da inquadrarsi nell’ambito di una serata scherzosa tra amici». Al contrario, «le immagini» descrivono «un atto di dominio». Per gli imputati la responsabilità si fonderebbe su una serie di condotte cumulative: presenza, commenti, risate, mancato intervento, asserita (dalla parte offesa) ostruzione del passaggio. Il concorso diventa una sorta di responsabilità ambientale. Chi c’era risponde. E gli imputati, scrivono i giudici, avrebbero agito «con una particolare brutalità».
Sentito dalla Verità, l’avvocato Enrico Grillo, difensore di Ciro, ha commentato: «Il disappunto e la delusione già espresse alla lettura del dispositivo sono ancor maggiori leggendo le motivazioni della sentenza». Secondo l’avvocato «l’intero impianto logico-giuridico della decisione appare viziato a monte, sotto il profilo della valutazione della prova e dell’applicazione delle norme». Il tribunale, in sostanza, secondo il difensore di Ciro, «ha progressivamente sostituito il rigoroso accertamento del fatto con una lettura suggestiva, emotiva e influenzata dal contesto». La valutazione finale è questa: «Chiaramente avremo modo, insieme con tutti i colleghi, di dettagliare tutte le criticità che abbiamo riscontrato nell’atto di appello che redigeremo nei prossimi giorni».
Continua a leggereRiduci
Aboubakar Soumahoro (Ansa)
Il sindacalista nero, caduto in disgrazia dopo lo scandalo che ha coinvolto moglie e suocera, lancia l’amo. «Pronto a candidarmi sotto al tricolore». Poi corregge il tiro: «Non mi riferivo a una qualche parte politica».
«Se le formiche si mettono d’accordo possono spostare un elefante». Oggi Aboubakar Soumahoro non può più scandire il suo proverbio africano preferito perché l’elefante nella stanza è lui. Così consapevole del riflusso progressista (via dal woke, dall’ultraeuropeismo, dal turbo green, dal terzomondismo di piazza) da avere deciso, nei lunghi mesi passati sui banchi del gruppo misto alla Camera, una strategia non nuova ma sempre efficace nella politica italiana: il salto della quaglia. Un ipotetico sbarco nel centrodestra con tutti gli stivali. Lo sussurra al Foglio: «Sono pronto a candidarmi con una dimensione di forze che portano in seno il tricolore. Non ragiono con le lenti del Novecento, faccia un check nei simboli dei partiti». Poi verso sera precisa: «Il riferimento al tricolore, presente nei partiti sia di destra sia di sinistra, non deve essere interpretato come simbolo di una parte politica».
Il sindacalista di origine ivoriana che tre anni fa era il simbolo principale della sinistra radical alla ricerca di idoli da sbandierare in faccia a Giorgia Meloni, allarga l’orizzonte e vede una nuova sponda. Non è piroetta da poco. Era perfetto, con le galosce infangate simboleggianti la fatica dei braccianti e con la prosopopea del papa nero. E davanti a lui si genuflettevano in adorazione i suoi idoli televisivi: Fabio Fazio, Pif, Diego Bianchi detto Zoro, Roberto Saviano, Lilli Gruber, Laura Boldrini. Tutto il cucuzzaro travolto dal Bernie Sanders senza muffole. La coppia Bonelli&Fratoianni l’aveva portato a spalla in Parlamento, poi un giorno tutto finì e il gotha radical a 50 pollici si scordò di lui.
Accade quando tu sei il testimonial delle sofferenze dei migranti e la famiglia (moglie e suocera) deve giustificare davanti a un magistrato di Latina le irregolarità di numerosi centri accoglienza, con 400.000 euro di stipendi non pagati, compensi in ritardo di quasi due anni, lavoratori in nero, condizioni sanitarie descritte «sotto la soglia minima della tollerabilità». Dov’era Soumahoro mentre le parenti aprivano un resort in Ruanda, distribuivano dividendi per 240.000 euro a se stesse e si facevano fotografare su Instagram in pose da Chiare Ferragni subsahariane? Era in Tv a difendere i poveri a Propaganda Live. Parabola chiusa, sinistra in imbarazzo, dimissioni spontanee da Avs con finale deprimente, sintetizzato nella frase: «Ritengo che il diritto all’eleganza e alla moda sia una libertà».
Poteva chiuderla lì, farsi dimenticare nel flusso liquido dei social. Invece Soumahoro deve avere colto un dettaglio: gli manca un lavoro, gli manca un futuro. Poiché per la sinistra è bruciato, perché non diventare l’emblema pur trasversale del Piano Mattei? Lo ribadisce convinto: «Gli ultimi anni sono stati una rinascita, la vita stessa è una rinascita continua». Trascorrerà il Capodanno a Dakar, spiega di avere organizzato il viaggio che comprende Senegal, Costa d’Avorio e Guinea «perché da anni svolgo un lavoro di analisi sul continente africano, e leggendo i dati mi accorgo che l’analisi non basta. Bisogna creare rapporti di interscambio commerciale tra il nostro Paese e il Continente».
Snocciola cifre da lettura dell’Internazionale, lascia intuire che il cuore di tenebra per lui non ha segreti. Ma è sicuro che un angelo caduto della sinistra gruppettara possa diventare una risorsa perfino per la destra? Al Foglio risponde manco fosse Ernesto Maria Ruffini in missione Grande Centro: «Il tricolore rappresenta l’unità nazionale, l’identità condivisa». Un mattarelliano in purezza. Anzi di più: «Sono un pragmatico, guarderò il progetto. Un secolo fa si parlava di catena di montaggio e proletariato. Ma oggi sotto l’ombrello degli operai ci sono imprenditori e partite Iva. Non è blasfemia. È la realtà dei fatti, io sono un uomo libero». E tu ti accorgi che ha sostituito il diritto all’eleganza con il diritto allo stipendio.
È pronto a candidarsi eventualmente anche a destra, ma è improbabile che qualcuno lo voglia. Anche perché ha trascorso la sua età dell’oro in Tv ad accusare Giorgia Meloni e Matteo Salvini di «crudeltà morale». Non c’è bisogno di disturbare Google AI per ricordare l’intimazione alla premier il primo giorno di legislatura: «Mi dia del lei! E visto che sono laureato mi chiami dottore». Immaginava la Lega Braccianti al posto della Lega e diceva: «Se fossi il Salvini nero la pacchia sarebbe finita, ma per i lumbard». Saliva sui barconi e gridava facendo eccitare Corrado Formigli: «Il governo è disumano, questa è la peggiore destraaa di sempreee». Stai a vedere che ora gli serve. Si è inventato il reddito di esistenza, si è integrato benissimo nella casta mediatica che lo invitava per vederlo sparare con il bazooka sulla maggioranza. La stessa alla quale potrebbe chiedere il voto solo perché «non ho più le lenti del Novecento».
Via gli stivali, è tempo di Church. Si avvolgeva nella bandiera rossa della Cgil e adesso cerca un partito, uno qualsiasi, basta che abbia il tricolore nel simbolo. C’è qualcosa di pedagogico e tristemente umoristico nella parabola di Soumahoro, che per giustificare la villetta, le borse Vuitton e i foulard di Hermès della moglie spiegava, pensando di fare fessi tutti: «Sono riuscito a comprare la casa scrivendo un libro». Gli stessi allocchi che avrebbero mandato a Bruxelles Ilaria Salis ci credevano e si scioglievano. Woody Allen avrebbe aggiunto: «Era la Bibbia».
Continua a leggereRiduci
Ansa
La grazia del Colle al corresponsabile della strage di Ferragosto asseconda il refrain di moda: «Guidi un barcone: che male c’è?».
«Il suo sogno era di arrivare in Europa», è partito «dalla Libia in guerra per rincorrere il suo sogno», aveva «il sogno di arrivare in un Paese in pace e democratico». L’articolo del Corriere della Sera sulla storia di Alaa Faraj Abdelkarim Hamad sembra Il favoloso mondo di Amélie: è tutto un sogno. Nel 2017, il giovane libico fu identificato dalla giustizia italiana come uno dei cinque scafisti di un barcone che, nella notte di Ferragosto di dieci anni fa, venne trovato con dentro i corpi di 49 persone, morte asfissiate durante il viaggio. Malgrado le testimonianze che ne facevano uno degli organizzatori della traversata criminale, e malgrado le condanne, il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ha graziato, anche sull’onda di una campagna mediatica con pochi precedenti: dal programma di Rai3, Il fattore umano, a una sua raccolta di lettere pubblicata da Sellerio con il titolo Perché ero ragazzo. Come siano davvero andate le cose su quel barcone lo sanno solo i superstiti, ma in fondo, per il gigantesco dispositivo giustificazionista che si è messo in moto, la cosa è secondaria. Scafista, non scafista: fa davvero tutta questa differenza? In fondo gli scafisti non sono essi stessi dei poveri cristi travolti da un insolito destino? È questo l’obbiettivo finale di una campagna in corso da tempo: togliere allo scafista ogni stigma criminale, farne una vittima o, perché no, magari un eroe.
Un salto logico e concettuale già allegramente compiuto, qualche settimana fa, da Ilaria Salis, che al Parlamento europeo ha definito gli scafisti come coloro che «organizzano l’attraversamento di un confine chiuso per persone che hanno scelto volontariamente di partire e pagano per il servizio. Un servizio basato sul consenso e che non avrebbe motivo di esistere se ci fossero vie legali e sicure per la migrazione». Un vero e proprio elogio dello scafista, nobilitato da traballanti paralleli storici, in riferimento a quei «pescatori e montanari» che durante la seconda guerra mondiale «organizzarono reti clandestine per facilitare la fuga in Francia degli ebrei attraverso un confine chiuso e militarizzato. Compievano un’azione illegale, ma eticamente giusta. Di norma, come riportano le fonti storiche, si facevano pagare per il servizio offerto».
Vogliamo dire «scafista eroe»? Chi non ha problemi a dirlo è Stella Arena, avvocato del foro di Nola, che in un colloquio con «L’equipaggio della Tanimar» (ovvero «un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle università di Genova e Parma» che nel 2024 ha svolto una crociera «nei principali snodi della mobilità migrante e del controllo confinario europeo») sul sito meltingpot.org ha dichiarato: «L’autore del reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina viene apostrofato in molti modi. “Scafista” perché guida materialmente lo scafo. Potremmo tradurre letteralmente dal Protocollo di Palermo il termine smuggler, contrabbandiere. Possiamo chiamarlo “capitano”, come ultimamente viene apostrofato dopo il film di Garrone perché, inconsapevolmente o meno, si trova a guidare un’imbarcazione. A me piace chiamarlo, “eroe criminale”, che è un termine coniato dal professore della Federico II Pasquale Palmieri, in un saggio». Eroe criminale: un po’ come ladro gentiluomo, insomma.
Questa ardita giravolta linguistica non nasce ora. Lo Scafisti official fan club diede il meglio di sé, in particolare, due anni fa, quando la Meloni annunciò di aver reso il traffico di esseri umani reato universale. Francesco Cancellato, direttore di Fanpage, si indignò: «Poi un giorno qualcuno spieghi a Meloni, Salvini e a chi li vota che la gente non parte per colpa degli scafisti, ma perché noi siamo ricchissimi e loro poverissimi, perché gli abbiamo rubato tutto e portato la guerra in casa, in tutto il globo terracqueo». Stefano Cappellini di Repubblica rilanciò: «L’espressione “trafficanti di esseri umani” è di per sé un’invenzione narrativa della destra, un’arma di distrazione: i migranti non si fanno “trafficare” dagli scafisti, vogliono un futuro per sé e i loro figli e usano i mezzi che restano quando ogni porta è chiusa». Eleonora Camilli, giornalista per Redattore sociale, puntualizzava: «Meloni usa “scafisti” e “trafficanti” come sinonimi. Per “scafista” si intende chi è alla guida dell’imbarcazione. Il “trafficante” è chi organizza i viaggi all’interno di una rete internazionale e difficilmente si imbarca per un viaggio di morte. Ma la confusione non è casuale». La scrittrice Ginevra Bompiani aggiungeva, a Zonabianca: «I trafficanti non sono gli scafisti. Gli scafisti sono dei disgraziati, saranno anche antipaticissimi, ma sono dei disgraziati che vengono buttati, messi nelle navi dove corrono gli stessi pericoli…».
Un report del 2021 di Arci Porco Rosso, Borderline Sicilia e Borderline Europe, faceva poi il salto definitivo. Dopo aver distinto cinque fattispecie (il «migrante-capitano forzato», il «migrante-capitano di necessità», il «migrante-capitano retribuito», il «capitano dell’organizzazione» e poi i vari «casi «misti»») il documento delle Ong tesseva l’elogio di tutte queste figure: «Attraversare la frontiera, oppure aiutare qualcuno a farlo, non dovrebbe essere di per sé un reato». E ancora: «La nostra ferma convinzione è che l’atto di guidare una barca e di trasportare migranti non dovrebbe essere di per sé un crimine. Le ragioni dietro la decisione di qualcuno di guidare una barca - che sia per il proprio progetto migratorio, o sotto minaccia di violenza, o per incentivi monetari - non modifica questa posizione». Ma quali eroi criminali: eroi e basta, a questo punto.
Continua a leggereRiduci
2025-12-24
Tivù Verità | Regalo di Natale dei giudici alla famiglia nel bosco: una perizia psichiatrica
La famiglia nel bosco non torna a casa per Natale e dovrà sottoporsi a una perizia psichiatrica: il tribunale decide di completare la rieducazione dei genitori. Ne parliamo con Luca Telese e Red Ronnie.







