Giorgia Meloni (Ansa)
- Giancarlo Giorgetti: «Non aumentiamo i requisiti per uscire dal lavoro». Lucio Malan: «Meglio eliminare pure i ritocchi alle finestre mobili».
- La proposta di legge targata Fdi, che rischiava di far pagare a chi è puntuale le bollette dei morosi, finisce nel cassetto. Matteo Salvini: «No a nuova burocrazia». Galeazzo Bignami: «Confronto necessario». Confedilizia: «L’obbligo del revisore inciderebbe sui più poveri».
- Il ministro dell’Università rivendica il nuovo semestre filtro per accedere alla facoltà di Medicina: «È prevista anche una graduatoria di recupero, gli studenti non perderanno l’anno».
Lo speciale contiene tre articoli
Il governo corre ai ripari per placare le polemiche (anche all’interno della maggioranza da parte della Lega) sull’emendamento relativo alle pensioni anticipate e al riscatto della laurea breve.
La battaglia, cominciata mercoledì sera con l’attacco del senatore e relatore della manovra, Claudio Borghi, si è trascinata per tutta la giornata di ieri fino a notte fonda con una riunione di maggioranza e sotto il fuoco di fila delle opposizioni.
Nel pomeriggio è intervenuto anche il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, per ribadire un no secco a qualsiasi intervento volto ad allungare i requisiti per il pensionamento. «Siamo già uno dei Paesi europei dove si lavora più a lungo», ha detto, «il sistema è virtuoso, regge, quindi se servono dei soldi, si trovano in altre tasche».
Al tempo stesso, in modo provocatorio, il Pd, per bocca di Francesco Boccia, annunciava che avrebbe votato la richiesta di soppressione della Lega. Un clima rovente che si è trascinato fino a sera inoltrata quando sono trapelate le prime indiscrezioni. Il governo ha deciso di sopprimere le misure sul riscatto della laurea breve mentre resta aperto il tema delle «finestre mobili», come annunciato da Borghi. «È un passo nella giusta direzione aver tolto la questione del riscatto pensionistico, ma c’è la questione delle finestre», ha detto il senatore.
Il capogruppo di Fdi al Senato, Lucio Malan, ha dato per possibile l’arrivo di una modifica da parte del governo, anche su questo punto. «L’auspicio è di attenuare la misura, il massimo sarebbe toglierla», ha detto.
Ci si riferisce all’attesa tra la maturazione dei requisiti per la pensione anticipata (42 anni e 10 mesi di contributi per gli uomini e un anno in meno per le donne) e la decorrenza dell’assegno. Vediamo il dettaglio. Ora la finestra per avere la pensione anticipata è di 3 mesi ma, secondo la misura nella manovra che la Lega vorrebbe cancellare, aumenterebbe a partire dal 2032. Dal 1° gennaio 2032 al 31 dicembre 2033 la finestra salirebbe a 4 mesi, poi per chi maturerà i requisiti nel 2034 arriverebbe a 5 mesi e infine dal 1° gennaio 2035 a 6 mesi. Ma l’allungamento dei requisiti scatta anche prima del 2032, in virtù dell’adeguamento alla speranza di vita.
Un’altra norma presente nella legge di bilancio (nella versione iniziale) prevede un mese in più nel 2027 (42 anni e 11 mesi di contributi per gli uomini e 41 anni e 11 mesi per le donne), mentre nel 2028 serviranno 3 mesi in più di contributi (43 anni e 1 mese per gli uomini e 42 anni e 1 mese per le donne).
Alcune dichiarazioni del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, rilasciate prima della riunione della maggioranza, lascerebbero intendere che anche per le «finestre mobili» tutto resterebbe com’è ora. «Non è nostra intenzione aumentare i requisiti pensionistici, anzi al contrario», ha detto Giorgetti. «Una parte degli oneri indotti derivano da una norma che abbiamo voluto inserire l’anno scorso che invece è fondamentale, cioè la possibilità di cumulare quanto si versa obbligatoriamente per la pensione con i versamenti ai fondi di previdenza complementare. Questa sommatoria, che era prima vietata, oggi è possibile e questo permette appunto di valorizzare anche la possibilità di pensionamento», ha aggiunto il ministro, «la previdenza integrativa è una delle travi portanti della manovra invece di aspetti di dettaglio che hanno fatto molto parlare».
Poi, incalzato, ha precisato che «sulle finestre mobili ci sono degli emendamenti e il sistema può essere cambiato quando si vuole prima della scadenza del 2033». Ed è per cambiarlo subito che la Lega ha puntato i piedi e si è trattato in Commissione fino a notte fonda.
Intanto sono stati riformulati altri emendamenti a cominciare da quello sulla produzione e commercio di armi. Nella nuova versione, «i ministeri della Difesa e delle Infrastrutture individueranno, tramite decreti, quelle «attività, aree e relative opere e progetti infrastrutturali per la realizzazione, l’ampliamento, la conversione, la gestione, lo sviluppo delle capacità industriali della difesa». Sarebbe un passo verso la richiesta di Washington di destinare il 5% del Pil degli Stati membri della Nato alla spesa militare.
Sono state ripristinate le risorse per le tv locali per il 2026. L’emendamento governativo prevedeva tagli per 20 milioni annui agli stanziamenti per il settore per il prossimo triennio. Restano però i tagli previsti per il 2027 e 2028.
Cambia ancora la norma sulla rottamazione quinquies. In una delle ultime riformulazioni depositate in commissione Bilancio del Senato viene rivisto l’emendamento della Lega. La proposta di modifica del Carroccio prevedeva un abbassamento del tasso di interesse annuo applicato alle rate dal 4% (nell’attuale ddl bilancio) al 2%. La riformulazione invece lo fissa al 3%. Il testo è stato approvato.
L’approdo della legge di bilancio in Aula a Montecitorio per la discussione generale con la richiesta di fiducia è previsto per domenica 28 alle 16.30, e il via libera, sul filo di lana, martedì 30.
Condomini, la maggioranza ora si ravvede
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Giovanni Legnini (Ansa)
L’ex dem renziano iscritto nell’inchiesta sugli «spioni» di Equalize e Squadra Fiore.
Per il mondo della magistratura non c’è pace. L’ultimo colpo arriva da Roma, dove è stato iscritto sul registro degli indagati l’ex vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Giovanni Legnini, nominato a Palazzo dei marescialli in quota dem, quando era parlamentare del partito guidato da Matteo Renzi. Da giorni a Roma circolano rumors sull’inchiesta che riguardala cosiddetta Squadra Fiore, il presunto team di spioni su cui indaga la Procura capitolina. Le voci riguardano soprattutto i nomi di alcuni nuovi indagati eccellenti: oltre a Legnini ci sarebbe anche un importante ex generale della Guardia di finanza.
Il primo a parlare della Squadretta è stato, a Milano, l’esperto informatico Samuele Calamucci nell’inchiesta milanese sui presunti dossieraggi dell’agenzia investigativa Equalize (di cui Calamucci faceva parte). I nomi che sono usciti sui giornali, per quanto riguarda il gruppo romano sono quelli di Francesco Renda, primo graduato di truppa (il vecchio caporalmaggiore in servizio permanente) del Secondo reggimento aviazione dell’esercito Sirio (elicotteristi) di Lamezia Terme e di Rosario Bonomo (ex finanziere e per quattro anni, dal 2011 al 2015, all’Agenzia informazioni e sicurezza interna). Entrambi, come abbiamo scritto in primavera, erano in qualche modo collegabili al Pd.
Il mondo dei presunti «spioni» e quello della politica si sarebbero incrociati nella casa romana dell’imprenditore Lorenzo Sbraccia (che si trova ai domiciliari per un’accusa di estorsione aggravata dal metodo mafioso). Un assiduo frequentatore della villa di Sbraccia sarebbe stato proprio Legnini. Infatti, come ci scrisse lo stesso ex vicepresidente del Csm, i due si conoscono da circa 20 anni e hanno «un rapporto di cordialità». Per Calamucci e per l’ex super poliziotto Carmine Gallo (nel frattempo deceduto per cause naturali) Legnini avrebbe brigato per far nominare procuratrice una pm imparentata con gli allora vertici della Banca popolare di Bari, alla cui presidenza avrebbe puntato lo stesso ex parlamentare. Legnini, con La Verità, aveva smentito queste ricostruzioni, definendole «destituite di ogni fondamento», «di carattere fantasioso» e calunniose e ha presentato querela a Milano. Adesso la Procura di Roma gli ha inviato un avviso di garanzia contestando la rivelazione di segreto e l’accesso abusivo a banca dati informatica. Nel capo d’accusa si legge che i reati contestati sono «ravvisabili nell’intermediazione compiuta, per conto di Sbraccia, presso ufficiali della Guardia di Finanza ed ex appartenenti al Corpo, tra cui Rosario Bonomo, al fine di consentire all’imprenditore Sbraccia di acquisire informazioni riservate sulle banche dati in uso al Corpo; servizio che Rosario Bonomo svolgeva in modo continuativo - in cambio di remunerazione - sotto forma di assistenza e sicurezza aziendale in favore di Sbraccia, comprensivo di acquisizione di informazioni dalle banche dati riservate protette da misure di sicurezza sull’esistenza di segnalazioni e indagini nei confronti di Sbraccia». Gli episodi illeciti si sarebbero svolti dall’aprile 2023 all’aprile 2025. Da queste parole si capisce che le investigazioni sono in una fase esplorativa, che coinvolgono più militari o ex militari e che l’inchiesta sta scandagliando anche ipotesi corruttive, non contestate a Legnini.
La Procura precisa anche che l’avvocato Antonio Villani, difensore di Legnini, «ha manifestato la disponibilità del proprio assistito a rendere interrogatorio investigativo». Per questo l’ex deputato, avvocato a sua volta, è stato convocato alle 12 di lunedì 22 dicembre a Piazzale Clodio per offrire ai pm la sua versione dei fatti. Con La Verità, ieri, Legnini ha aggiornato le sue dichiarazioni: «Sono totalmente estraneo alla contestazione che mi è stata formulata. Fornirò ai pm con assoluta serenità tutti i chiarimenti che mi saranno richiesti e confido in una rapida definizione del procedimento». Anche Bonomo, raggiunto dal cronista, respinge la tesi accusatoria: «Non ho mai avuto la possibilità di accedere a qualsivoglia banca dati istituzionale né tantomeno era nelle mie intenzioni farlo». Per capirne di più bisognerà attendere gli sviluppi dell’inchiesta.
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Donald Tusk (Ansa)
La Corte di giustizia Ue ha dichiarato guerra alla Consulta di Varsavia: non rispetterebbe «la giurisprudenza comunitaria». Per il Paese guidato da Donald Tusk, invece, sono le toghe dell’Unione a «esorbitare» dai propri poteri.
«La Costituzione di un Paese non è un giudice imparziale e indipendente». Scintille e fumo nero: due locomotive lanciate l’una contro l’altra su un binario unico. Sono l’Unione europea, con il suo braccio armato della Corte di giustizia, e la Polonia, riluttante a dimenticarsi (come spesso accade ad altri membri dell’Unione) di essere un Paese sovrano. Vengono prima le leggi comunitarie o la Costituzione delle singole nazioni? La questione rimane lì, sospesa in un limbo leguleio dove i principi astratti fungono da innocui placebo. Ma quando tocca situazioni concrete, ecco gli attriti, le minacce, le controdeduzioni al curaro. A conferma che l’Europa dei popoli è ancora una pia apparizione scomparente. Niente a che vedere con quella del denaro, oliata con piglio dittatoriale dalla Bce.
L’ultimo episodio di un lungo braccio di ferro risale a ieri, quando i giudici lussemburghesi della Corte Ue hanno stabilito con una sentenza che «la Consulta polacca ha violato diversi principi fondamentali del diritto dell’Unione, non rispettando la giurisprudenza comunitaria». Una dichiarazione di guerra perché i giudici che rispondono a Bruxelles hanno aggiunto in neretto: «la Corte costituzionale polacca non è un giudice imparziale e indipendente», riguardo a presunte irregolarità che avrebbero «viziato» la nomina di tre suoi membri. Una delegittimazione in piena regola della carta fondativa della democrazia di Varsavia che i progressisti europei hanno applaudito con entusiasmo.
La diatriba partì una decina di anni fa quando la Polonia decise di cambiare il sistema di nomina dei giudici della Corte costituzionale, poi di modificare una norma della legge giudiziaria, con la novità del ministro della Giustizia supervisore della Procura generale. Allora, al tempo di Mateusz Morawiecki premier, come Paese sovrano riteneva di averne pieno diritto. Al contrario, per Bruxelles si trattava di un abuso e immediatamente scattò l’accusa di trasformare i tribunali in uno strumento del governo. Di ricorso in ricorso, si è arrivati al conflitto totale, quindi allo stallo armato. Anche oggi, con il turboeuropeista Donald Tusk al governo, lo scenario non muta: per chi ha conosciuto la schiavitù della dittatura, una cessione di sovranità a chicchessia non è mai un piacere e non è mai gratis.
I polacchi non hanno piegato la testa e hanno respinto al mittente le accuse, affidandosi perfino alle parole di Jean Jacques Rousseau che 300 anni fa, nel saggio Considérations sur le gouvernement de Pologne, teorizzava l’importanza dell’amor patrio e del concetto di libertà per recuperare l’indipendenza (dalla Russia zarista, guardacaso). La Corte costituzionale di Varsavia ha dichiarato in due sentenze che alcune norme dei trattati europei sono contrarie alla Carta nazionale, quindi da respingere. Con un’aggiunta incendiaria: «La giurisprudenza della Corte relativa al diritto a una tutela giurisdizionale effettiva è esorbitante dai poteri che le sono stati conferiti». Esorbita, quindi stia al suo posto.
Da qui è nato il ricorso della Commissione Ue ai giudici lussemburghesi per «violazione dei principi fondamentali del diritto dell’Unione». La Corte di giustizia lo ha accolto e ha accusato la Polonia «di non aver rispettato il primato, l’autonomia, l’effettività e l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione, nonché l’effetto vincolante delle decisioni della Corte». Poi ha demolito la Corte costituzionale polacca mettendone in dubbio indipendenza e imparzialità. Ora la palla torna alla Polonia, giudicata inadempiente. Secondo la Ue, dovrebbe ricambiare la Costituzione per adeguarla agli standard di Bruxelles, neanche fosse un motore ibrido non sufficientemente green. Pena il warning che porterebbe a pesanti sanzioni pecuniarie e a un congelamento delle risorse economiche destinate a quel Paese.
Si esorbita o non si esorbita? Il conflitto di competenza non riguarda solo Varsavia ma tutti, anche l’Italia. E spiega perché gli spiccioli di sovranità rimasti ai 27 membri dovrebbero essere difesi (per esempio dall’invadenza ricattatoria del Mes). È doveroso chiedersi una volta per tutte: in caso di disputa, è più importante la Carta costituzionale o i trattati europei? Difficile rispondere, mentre si profila un nuovo scontro sulla vicenda dei migranti, degli hub all’estero e sulla definizione di «Paesi di origine sicuri».
Nonostante le pronunce della Commissione Ue e della Corte di giustizia europea che anticipano un via libera di fatto, il giudice italiano Luca Minniti (presidente della sezione Immigrazione di Bologna) ha dichiarato che «sarà sempre un pm a decidere nel merito, le nuove norme sono a rischio incostituzionalità». In questo caso la sinistra si schiera acriticamente contro i giudici lussemburghesi e a favore di quelli italiani, dei quali è spesso succube. Di conseguenza, i polacchi vanno puniti perché non rispettano il primato di Bruxelles, il governo Meloni va punito perché lo rispetta. Titolo consigliato e tratto da una massima di Luciano De Crescenzo: «Eppure è sempre vero anche il contrario».
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Agricoltore francese protesta contro il Mercosur (Ansa)
Emmanuel Macron ha ripetuto il no all’accordo commerciale con il Sud America, imitato da Irlanda, Austria e Romania. Ungheria e Polonia pronte al veto. La baronessa cede e annuncia: «Firma posticipata a gennaio». Giorgia Meloni: «Ok italiano solo con le garanzie richieste».
Il Mercosur, così com’è, non s’ha da firmare, né domani né mai. Ursula von der Leyen viene messa all’angolo e sabato non potrà volare come sperava e come ha promesso agli industriali tedeschi, desiderosi di vendere le auto che lei ha bloccato in Europa con lo sciagurato green deal ad argentini, brasiliani, paraguaiani e uruguagi (ammesso che questi ultimi abbiano i soldi), a Foz do Iguaçu, in Brasile, dove l’attende uno smanioso Lula da Silva. Emmanuel Macron - in patria ha una situazione disastrosa: gli agricoltori gli bloccano il Paese per il Mercosur ma anche per l’epidemia di dermatite nodulare che minaccia le mandrie e Sébastien Lecornu, il primo ministro, non riesce a far passare la legge di bilancio - non può permettersi un passo indietro e ripete: il conto non torna, l’accordo non si può firmare.
È l’unico modo che ha per tenere a freno la rabbia delle campagne e non scoprirsi politicamente: tre quarti dello schieramento transalpino è contro l’accordo e da fronti opposti Jaen-Luc Mélenchon e Marine Le Pen lo attaccano. Si accodano alla posizione francese l’Irlanda, l’Austria e la Romania mentre la Polonia e l’Ungheria sono pronte a mettere il veto. La posizione italiana è decisiva: l’apporto di Roma può costituire una minoranza di blocco che immobilizza la Commissione (ieri, secondo l’Agi, la Von der Leyen avrebbe annunciato ai leader Ue la decisione di posticipare a gennaio la firma dell’accordo). Il ministro per la Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, aveva anticipato: di Mercosur si parla solo se ci sono garanzie per gli agricoltori.
Ieri Giorgia Meloni - su cui fa molta pressione la Francia - ha affidato a una nota ufficiale di Palazzo Chigi ciò che Roma vuole: «In merito all’accordo sul Mercosur, come già dichiarato in Parlamento dal presidente Meloni e ribadito anche al presidente del Brasile, Lula, il governo italiano è pronto a sottoscrivere l’intesa non appena verranno fornite le risposte necessarie agli agricoltori, che dipendono dalle decisioni della Commissione europea e possono essere definite in tempi brevi». Lula da Siva ha fatto sapere che ha avuto una telefonata con Giorgia Meloni che gli avrebbe chiesto «di avere pazienza una settimana, dieci giorni, quanto serve per arrivare alla firma». L’indiscrezione, anticipata da Le Figaro, non trova conferma, ma è indice che il presidente brasiliano vuole forzare l’accordo in ogni modo.
È, invece, la Von der Leyen che, rimangiandosi i tagli alla Pac e accogliendo in toto la posizione espressa tre giorni fa dall’Eurocamera, se vuole può sbloccare l’accordo. Il Parlamento europeo ha sancito con ampia maggioranza (Ecr-Fdi si è astenuto mentre i nazionalisti che comprendono anche la Lega e i lepenisti hanno votato contro) che di Mercosur si parla solo a due condizioni: controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità); con una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale, si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte entro tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Il fatto è che il presidente della Commissione non ha accusato ricevuta e sembra voler andare dritta per la sua strada sempreché i 10.000 agricoltori che ieri hanno messo a ferro e a fuoco Bruxelles assediando palazzo Berlaymont gliela lascino imboccare.
La baronessa, impegnatissima a sostenere l’imminenza del pericolo russo e perciò la necessità di armarsi, cerca disperatamente di far vedere che l’Europa conta. Per lei il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay più annessi che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone, è il segno della potenza europea. Ha anche un’altra esigenza: rispondere a Donald Trump andando nel suo giardino di casa a stringere accordi doganali. La Von der Leyen vuole impedire che Javier Milei, il presidente argentino, faccia totalmente rotta su Washington e che il Brasile si leghi con la Cina. Anche il presidente del Consiglio europeo, il portoghese Antonio Costa, che ha qualche nostalgia commerciale verso la ex colonia brasiliana, ha fatto molte promesse agli industriali tedeschi, moltissime alla Danimarca - attuale presidente di turno dell’Ue - e all’Olanda che aspetta l’arrivo a Rotterdam delle navi brasiliane.
Ma Roma vuole per sé l’autorità doganale europea in modo da controllare le merci in arrivo. Tutti elementi di cui la Von der Leyen non si è curata e che mettono il Mercosur su un binario morto.
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