2023-01-20
Moderna: avevamo il vaccino prima che ci fosse il Covid
Stéphane Bancel (in trattativa per fornire sieri alla Cina) l’ha rivelato durante un’intervista a Davos. Lamentandosi, poi, delle poche punture fatte nei Paesi dove si è dibattuto. Albert Bourla (Pfizer) snobba l’Europarlamento ma va al Wef.l’amministratore delegato di Moderna, Stéphane Bancel. E gli ricorda di quando, durante l’edizione 2020, si erano incrociati nella sala colazioni e lui l’aveva informata che la compagnia stava «lavorando su un vaccino per il Covid. Allora», sottolinea giustamente la conduttrice, «il Covid-19, in realtà, nemmeno esisteva». «Sì, non aveva ancora un nome», conferma, raggiante, il ceo della casa farmaceutica. La conversazione prosegue in un’atmosfera di amicizia e compiacimento per i successi dell’azienda. A nessuno viene in mente che la rivelazione di Bancel meriti di essere approfondita. Sì, Moderna aveva un vaccino prima che l’Oms inventasse la sigla «Sars-Cov-2»: era stato concepito a gennaio 2020; il virus venne ribattezzato un mese dopo. Un vaccino espresso. Solo applausi? Nessun quesito? Che la corporation americana avesse bruciato le tappe non era un mistero. Il mistero è come ci sia riuscita, considerate anche le reticenze cinesi nelle prime fasi dell’emergenza. All’inizio, le autorità del Dragone punivano i sanitari che osavano lanciare l’allarme per l’epidemia di polmoniti.Dei prodigi di Moderna parlò sulla Verità, a maggio 2020, Antonio Grizzuti. Due giorni dopo che Pechino aveva comunicato la sequenza genetica del nuovo patogeno, i ricercatori statunitensi avevano messo a punto lo schema di quello che sarebbe diventato l’immunizzante a mRna. Era il 13 gennaio 2020. Il Wef sarebbe partito otto giorni dopo. Per capire che aria tirasse, basta recuperare l’archivio del Sole 24 Ore: nei pezzi che presentavano la kermesse, di Covid non si parlava manco in maniera collaterale. A tenere banco erano le stramberie di Donald Trump e «le trecce di Greta». Da noi, la versione ufficiale era che mai avremmo dovuto rinunciare al nostro stile di vita; chi aveva paura, sotto sotto, era razzista. Nei laboratori di Big pharma, invece, ci si affrettava a compiere l’opera: il 7 febbraio 2020 fu realizzato il primo lotto del medicinale, il 16 marzo venne somministrata la prima dose per i trial. Di lì a poco, la società si era dichiarata capace di avviare una produzione su larga scala entro l’autunno. E adesso, il numero uno della multinazionale ha spiegato a Reuters che sono in piedi trattative con la Cina per la fornitura dei sieri, oltre che dei futuri vaccini a mRna per il cancro.Come fu possibile lo strabiliante risultato del 2020? C’entravano qualcosa i rapporti di Moderna con il governo americano? La partnership con il National institute of allergy and infectious diseases, branca dei National institutes of health? I cospicui fondi ricevuti dal Dipartimento della Salute, ben 483 milioni di dollari? E, magari, i vecchi legami con la Difesa Usa, che nel 2013 elargì 25 milioni di dollari per studi sui vaccini contro le malattie infettive «conosciute e sconosciute»? Insomma, l’accesso a materiali militari top secret? Qualcuno avrebbe potuto chiederglielo, a Bancel. Anche se i pezzi grossi delle case farmaceutiche non amano le domande. E il dialogo.S’è capito dalle argomentazioni che il miliardario, nativo di Marsiglia, ha tirato fuori in uno dei panel del Wef. Nei Paesi in cui ci sono stati «dibattito scientifico», «dibattito politico» e dispute sui social, ha lamentato Mr Moderna, «il tasso di vaccinazione è stato molto basso». Ben diverso l’andazzo laddove «tutti i partiti», senza distinzioni, esortavano le persone: «Dovreste vaccinarvi». Sorge una perplessità: si può davvero esultare, se per convincere la gente a sottoporsi alle punture bisognava tenerla all’oscuro di controindicazioni e limiti dell’efficacia delle fialette? Si vede che il mondo ideale dei super manager di Big pharma è poco compatibile con i rituali della democrazia liberale. Ma tanto peggio per la democrazia liberale.Ne sa qualcosa l’altro ceo accorso in Svizzera, quello di Pfizer, Albert Bourla. Curioso che costui abbia trovato il tempo di andare a Davos benché, per due volte, abbia declinato l’invito a presentarsi al cospetto della commissione d’inchiesta del Parlamento Ue. Sarà perché, alle domande degli eurodeputati a proposito di contratti per i vaccini e trattative via messaggio con Ursula von der Leyen, l’ad sarebbe stato costretto a rispondere. Al contrario, mentre si trovava al meeting delle élite mondiali, ha potuto serenamente ignorare un cronista che gli chiedeva: «Da quando sapeva che i vaccini non fermavano la trasmissione del virus? Per quanto tempo ne è stato consapevole, senza rivelarlo?». «Grazie mille, buona giornata», l’ha liquidato Bourla. Un fulgido esempio di quella che gli anglosassoni definiscono accountability: dare conto delle proprie azioni dinanzi all’opinione pubblica. L’impressione è che, per questi signori, sarebbe meglio se non ci fossero né un pubblico di fronte al quale giustificarsi, né opinioni diverse da avanzare.Intanto, Davos ha portato la pace tra gli sfidanti nella partita pandemica. Bourla ci ha tenuto a minimizzare la vicenda della causa in corso con Moderna, in tema di paternità della tecnologia a mRna. Anzi, il ceo greco-americano ha riconosciuto i meriti della concorrenza, impegnata per un vaccino contro il virus sinciziale. La cui ondata tra i bambini, tanto per essere precisi, è stata una conseguenza del debito immunitario provocato da lockdown e mascherine. È un circolo vizioso che, chi (legittimamente) lucra sul business delle medicine, confida possa non interrompersi.Celebrati i fasti del vaccino espresso di Bancel, Pfizer ha annunciato che il 2023 sarà l’anno del vaccino che è al contempo anti Covid e antinfluenzale. Prendi due e paghi uno. Oppure, come sta accadendo con le dosi per il coronavirus, toccherà pagare quattro volte di più?
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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