
In merito all'articolo pubblicato oggi sulla Verità, «La Luiss pronta a nuovi accordi con l'Iran», l'Ateneo smentisce che sia in discussione o sia prevista alcuna collaborazione accademica con Università e istituzioni iraniane.

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Mentre il Sudamerica abbraccia il libero mercato con le vittorie elettorali di Javier Milei in Argentina, Rodrigo Paz in Bolivia e José Antonio Kast in Cile, tra i grandi Paesi del subcontinente il Brasile resta l’ultimo fortino di una sinistra asfittica. Tra un debito pubblico fuori controllo, un apparato giudiziario sotto sanzioni Usa e il pesante processo all’ex presidente Bolsonaro, l'amministrazione di Luiz Inácio Lula da Silva tenta di sopravvivere agitando lo spauracchio dell’interferenza esterna.
Il panorama politico dell’America Latina sta vivendo un cambiamento generazionale senza precedenti. Il «pendolo» si è spostato drasticamente verso destra: dall’Argentina di Javier Milei, che ha ridotto l’inflazione dal 200% al 30%, alla Bolivia che ha chiuso vent’anni di socialismo, fino al Cile che ha decretato il «più chiaro ripudio della sinistra in quasi un secolo». In questo scenario, il Brasile di Luiz Inácio Lula da Silva appare come una vistosa anomalia ideologica, un’isola rossa che tenta di resistere a un’ondata conservatrice che invoca sicurezza, disciplina fiscale, mercato e sovranità.
Lula, giunto al suo terzo mandato da presidente, ha impostato una politica estera nel segno di un attivismo multilaterale, rafforzando la presenza del Brasile nei Brics e rilanciando i rapporti con Cina e Russia.
Tuttavia, la tenuta di Lula è tutt’altro che solida. All'età di 80 anni, il leader del Partito dei lavoratori (Pt) governa un Paese profondamente polarizzato, dove il consenso è fragile e i segnali di insofferenza crescono. Sebbene Lula guidi ancora i sondaggi per il 2026, la sua popolarità ha subito duri colpi, specialmente dopo aver definito i narcotrafficanti come «vittime» del sistema, una dichiarazione che ha scioccato una popolazione stremata dalla criminalità organizzata.
Il cuore della crisi brasiliana risiede nello scontro frontale tra i poteri dello Stato e l’opposizione bolsonarista. La condanna di Jair Bolsonaro a 27 anni di carcere per un complotto golpista ha spaccato il Paese in due. L’ex presidente è diventato un martire per milioni di brasiliani che vedono nella magistratura, in particolare nel giudice della Corte Suprema Alexandre de Moraes, un braccio politico dedito alla persecuzione dell’opposizione.
L’arresto di Bolsonaro, avvenuto dopo che l’ex leader ha ammesso di aver manomesso il suo braccialetto elettronico con un saldatore (con la bizzarra giustificazione di aver avuto allucinazioni causate da farmaci per il singhiozzo) ha ulteriormente radicalizzato le posizioni. Per i suoi sostenitori, si tratta di una caccia alle streghe orchestrata da un regime che usa il diritto come arma. Questa tensione ha paralizzato il dibattito pubblico, spostandolo dai temi economici alla sopravvivenza delle istituzioni democratiche.
In questo clima incendiario, l’amministrazione di Donald Trump ha deciso di intervenire con una forza d’urto che non si vedeva dai tempi della Guerra Fredda. Washington ha adottato quella che qualcuno, come abbiamo già visto, ha ribattezzato la «Dottrina Donroe», considerando il Sudamerica come il proprio dominio strategico e punendo severamente chi non si allinea.
L’attacco è stato duplice, giudiziario ed economico. Il Dipartimento del Tesoro Usa ha imposto sanzioni al giudice De Moraes e revocato i visti a otto degli undici membri della Corte Suprema brasiliana, accusandoli di gravi violazioni dei diritti umani. Ma il colpo più duro è arrivato sul fronte commerciale, allorquando Trump ha imposto dazi del 50% sulle esportazioni brasiliane, una tariffa punitiva senza precedenti motivata ufficialmente dalla «persecuzione politica» contro Bolsonaro. Nonostante il Brasile non abbia un surplus commerciale con gli Usa, Washington sta usando il commercio come leva esplicita per influenzare la politica interna e favorire un cambio di rotta nel 2026.
Schiacciato dalla pressione americana, Lula ha reagito rispolverando la retorica del nazionalismo populista. Il presidente ha dichiarato che «la democrazia e la sovranità del Brasile non sono negoziabili», cercando di trasformare l’aggressione di Trump in un «regalo» politico per rinsaldare le proprie file. Questa mossa ha effettivamente generato un effetto «rally around the flag» (raccolta attorno alla bandiera, tipica reazione nei momenti di difficoltà di un Paese), portando i sondaggi di gradimento del presidente brasiliano dal 24% al 33% in pochi mesi.
Tuttavia, questo scudo patriottico non può nascondere le difficoltà economiche che gravano sul Paese. Il settore dell’agrobusiness, storicamente vicino a Bolsonaro e vitale per il Pil, prevede perdite per un miliardo di dollari solo nella seconda metà dell’anno a causa dei dazi statunitensi. Anche i settori conservatori, inizialmente favorevoli a Trump, iniziano a vedere con sospetto un’interferenza che danneggia la competitività delle esportazioni nazionali.
Mentre i vicini argentini attuano cure da cavallo libertarie, il Brasile resta profondamente statalista. Il debito pubblico è previsto all’81,8% del Pil per il 2026, ma gli investitori temono che supererà l’83,8%. Il bilancio approvato per l’anno elettorale è un colabrodo di eccezioni: miliardi destinati alle poste statali, ai militari e ai sussidi sociali che trasformano il surplus primario promesso in un deficit reale. La spesa obbligatoria per pensioni e sussidi cresce al 10% annuo, ben oltre i limiti legali che il governo stesso si era imposto.
Per compensare l’ostilità di Washington, Lula sta accelerando l’allineamento con la Cina. Pur non avendo formalmente aderito alla Nuova Via della Seta cinese, per il Brasile Pechino è già il primo partner commerciale e sta occupando ogni spazio strategico, dai minerali critici (il Brasile ha le seconde riserve mondiali di terre rare) alla costruzione di una ferrovia transcontinentale per collegare l’Atlantico al Pacifico. Il Brasile punta sull’alleanza Brics per ridurre la dipendenza dal dollaro, ma rischia di scambiare una dipendenza con un’altra, diventando un satellite economico di Pechino in cambio di ossigeno finanziario immediato.
Mentre il ministro delle Finanze Fernando Haddad annuncia le dimissioni per preparare la campagna elettorale a sostegno di Lula, il centrodestra brasiliano cerca un erede credibile dopo Bolsonaro. Il governatore di San Paolo, Tarcísio de Freitas, è visto dal mondo finanziario come l’unica alternativa pragmatica capace di battere Lula. Tuttavia, il clan Bolsonaro oppone resistenza, con il senatore Flávio Bolsonaro che rivendica per sé il testimone del padre. Il giovane candidato si presenta come un «Bolsonaro moderato e vaccinato» (sic) per attirare i moderati. La spaccatura interna alla destra può essere l’unica vera ancora di salvezza per l’anziano Lula nelle elezioni che si terranno nell’ottobre 2026, tra meno di un anno. A quella data Lula avrà 81 anni, e chissà che da qui ad allora, per evitare un effetto Biden, il suo partito non decida di proporre un candidato alternativo, più giovane, in grado di dare maggiore slancio futuro. Al momento però tale candidato non si vede.
Il Brasile, dunque, si trova a un bivio carico di significati. Schiacciato tra un’amministrazione Trump che non fa sconti e una Cina che attende di incassare i suoi crediti, il Paese rischia di implodere sotto il peso del proprio debito e della polarizzazione sociale. Il governo Lula sta cercando di sopravvivere trasformando ogni dazio americano in una medaglia al valore nazionale, ma i fondamentali economici non mentono.
Politologo, professore emerito della Cesare Alfieri di Firenze, direttore del mensile di cultura e «metapolitiche» Diorama, fondatore della Nuova destra italiana. Marco Tarchi è uno di quegli intellettuali che si definirebbero «d’area», ma che la destra di governo, da sempre un po’ allergica ai liberi battitori, tiene a debita distanza.
Professore, Alessandro Giuli ha contestato duramente Marcello Veneziani, che sulla Verità aveva mosso delle critiche alla maggioranza. Al di là del merito, non è bizzarro che un ministro della Cultura affermi che il ruolo di un intellettuale di riferimento sia quello di «incoraggiare» il governo?
«Ai politici - tutti, ma a quelli di destra in particolare - la libertà di pensiero degli uomini di cultura che pure sono considerati vicini al loro campo non è mai piaciuta. Li vorrebbero allineati e coperti, sempre d’accordo con il loro operato, e se devono registrare un dissenso si irritano e tirano fuori in automatico l’accusa di irriconoscenza, di rancore o di intelligenza col nemico. Un tempo Giuli era fra coloro che fustigavano questo atteggiamento. Ora è passato dall’altra parte e si è adeguato. Non me ne stupisco».
Questa destra è riuscita a incidere? Oppure, come sostiene Veneziani, «nulla di significativo e di sostanziale è cambiato nella vita di ogni giorno»?
«In effetti, non vedo grandi mutamenti. E il motivo c’è: la situazione che c’era nel settembre 2022 è quella che ha portato Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, e tutti i sondaggi da quel momento in poi hanno testimoniato una sostanziale tenuta del suo consenso, e di quello della coalizione che lo sorregge».
Cosa significa?
«Significa che ai settori dell’opinione pubblica disposti a votarla questa routine non dispiace. Quindi stop ai grandi progetti controversi (vedi il premierato)».
E sulla cultura? L’«amichettismo» della sinistra è finito? Si è molto discusso di tagli ai teatri e tax credit. Alla fine, la riduzione dei fondi per il cinema, almeno per adesso, sarà minima.
«Non si smantella un’egemonia ramificata e consolidata nell’arco di ottant’anni in un triennio, e soprattutto non lo si fa limitandosi a minacciare o creare ostacoli economici al grande meccanismo che garantisce la riproduzione ad ogni livello degli stereotipi culturali progressisti. Se, come accade, cinema, teatro, università, scuole, editoria diffondono a getto continuo una cultura ideologizzata e ostile a chi oggi governa, è sul terreno delle idee e della formazione di una classe intellettuale alternativa che occorre agire, da subito».
A che punto siamo?
«Non mi pare che questo stia avvenendo. Oggi come ieri, ci si illude che il politique d’abord sia la chiave del successo, e che un impegno “metapolitico” sia superfluo. Così la battaglia è persa in partenza».
Su certe riforme, vedi immigrazione, a bloccare la maggioranza però è una parte della magistratura apertamente schierata a sinistra. Vista la situazione, è ancora praticabile il progetto di costruire una «egemonia» di destra?
«Parlando di magistratura, la strategia del Pci di molti decenni fa - che mi è stata confermata da più di un diretto interessato, al di là delle ipocrite smentite - di convogliare molti dei suoi più brillanti giovani laureati in giurisprudenza in quella carriera ha dato i suoi frutti e aperto una via seguita da molti altri. La destra ha mai pensato di fare questo? No. Chi lo sosteneva, a suo tempo, all’interno del Msi, veniva sbeffeggiato. Le cose sono cambiate? Ne dubito».
Alla fine, la Meloni viene lodata all’estero per la sua posizione chiara sull’Ucraina, la stabilità politica che sta garantendo al Paese e l’affidabilità dei conti pubblici italiani. È vero, allora, che i cosiddetti sovranisti, una volta giunti al potere, sono costretti a tradire la loro agenda?
«Perlomeno fino a quando saranno una minoranza in sede europea, sì. E in ogni caso un loro futuro coordinamento su scala continentale, su taluni temi, sarà molto difficile, perché ciascuno guarda in primo luogo, se non soltanto, agli interessi del proprio Paese… pardon, nazione, ed è pronto ad accettare qualunque compromesso e soluzione gli sia favorevole. Già non riescono a raccogliersi in un unico gruppo all’Europarlamento, figuriamoci se giungeranno a formulare un’agenda comune».
Intanto, per tentare di sopravvivere - a parte la conventio ad excludendum che faticosamente tentano di mantenere in Francia e in Germania - all’estero i partiti di sistema stanno assorbendo un pezzo dell’agenda sovranista: basti vedere cosa fanno sull’immigrazione Emmanuel Macron, Friedrich Merz e Keir Starmer. L’establishment ascolterà le istanze del popolo e ne riguadagnerà la fiducia?
«Non lo penso. Sono espedienti tattici per cercare di contenere l’avanzata di populisti e sovranisti, che difficilmente possono convincere chi ha imparato a conoscere la loro doppiezza».
Cosa pensa del documento strategico di Donald Trump per l’Europa? C’è chi si indigna per il disprezzo degli alleati e la scelta di abbandonarli al loro destino. Il testo, però, precisa che gli Usa considerano l’Europa ancora strategica e che, proprio per questo, vorrebbero che abbandoni le sue derive autodistruttive. Quale versione è vera? Trump ci vuole suoi vassalli? Oppure diagnostica la nostra malattia e ci ammonisce?
«Non ho dubbi che l’America great again di Trump contempli un’assoluta subordinazione degli europei (e non solo) al ruolo egemone degli Usa, e di tracce del suo presunto isolazionismo ne vedo ben poche. Non per questo va negata la fondatezza dei rilievi quasi sprezzanti che la Casa Bianca, soprattutto per bocca di JD Vance e poi con questo documento, ha rivolto all’Unione europea, che del resto non ha mai immaginato un ruolo veramente e seriamente autonomo del Vecchio continente».
Intanto, l’Unione europea spinge sul riarmo, agitando lo spauracchio russo. È una mera questione di interessi economici del complesso militare-industriale? Oppure l’Ue, che a suo tempo rinunciò a rivendicare le proprie radici spirituali e che si è strutturata come un una specie di comitato burocratico-ragionieristico, fondato su regole e vincoli di bilancio, vuole cogliere la contrapposizione con Mosca come un’opportunità per darsi un’identità politica?
«L’isteria antirussa praticata e fomentata dall’Unione europea ha qualcosa di inspiegabile. E le scelte dei suoi governanti, e di molti di quelli dei suoi Stati membri, ricordano più il celebre quadro di Pieter Bruegel sui ciechi che, tenendosi per la spalla, procedono in fila indiana verso un baratro che una qualche strategia».
In un certo senso, sembra di leggere un saggio di Carl Schmitt: l’unità politica che si struttura per contrapposizione al nemico esterno.
«Ma anche i nemici vanno identificati bene, prima di designarli come tali. La storia ci ha fornito molti esempi ammonitori. Essersi prestati a un gioco pericoloso della Nato potrebbe rivelarsi un errore fatale. E Meloni non lo ha minimamente compreso».
L’iniziativa diplomatica di Macron è stata lodata da Bruxelles, ma in effetti rappresenta l’opposto di ciò che l’Ue ha fatto finora, visto che essa ha sabotato ogni tentativo di arrivare a una soluzione diplomatica. Pure il progetto dei volenterosi è un’idea di singole cancellerie e coinvolge un Paese, il Regno Unito, che è fuori dall’Unione. Se mai l’Europa avrà un ruolo nella fine del conflitto in Ucraina, ce l’avrà come Ue o, di nuovo, come sistema di Stati nazionali?
«Irritando sia Trump che Putin, l’Ue si è preclusa ogni possibilità di incidere sull’evoluzione delle trattative diplomatiche per chiudere, almeno in via provvisoria, il conflitto russo-ucraino. E se Ursula von der Leyen e alleati credono di riacquistare un ruolo significativo con le centinaia di miliardi investiti nel riarmo, si illudono. Su questo versante, il complesso militare-industriale è l’unico a trarre profitto da questa linea potenzialmente suicida. Ma cosa potrebbero fare i singoli Stati in questo contesto? Poco e nulla. La sinergia continentale resta l’unico orizzonte percorribile. Ma con una classe dirigente non disposta a piegarsi ad ordini altrui».
Come lo vede strutturato il futuro ordine internazionale?
«Malgrado le mai dismesse velleità egemoniche degli Usa, la logica multipolare è l’unica sulla cui base potrà organizzarsi il sistema internazionale di domani. Cina e India sono ormai attori di primo piano e, pur con tutti i suoi limiti, l’insieme dei Brics è destinato a pesare sugli equilibri planetari. Resta da chiedersi che ruolo avrà l’Europa in questo quadro».
Il giorno della vigilia di Natale, l’ex premier e leader del M5s, Giuseppe Conte ha pubblicato sul proprio profilo Instagram una foto che lo ritrae insieme alla compagna Olivia Paladino, nel suo studio, con accanto un albero di Natale addobbato con gusto.
La cosa che ha colpito è l’espressione della compagna Olivia. Una foto di rito. Una scocciatura. Non un sorriso di circostanza e, anzi, quel volto corrucciato lascia trasparire il momento difficilissimo che la donna sta attraversando, legato alle società di famiglia e al rapporto, ormai ai ferri corti, con la sorella Cristiana.
Cosa è successo tra loro e perché tanta tensione? La verità va ricercata proprio nel rapporto tra le due sorelle, il padre Cesare (l’immobiliarista in capo) e le aziende di famiglia, che stanno accumulando perdite considerevoli e un forte indebitamento con l’erario. Sullo sfondo il lungo contenzioso, per presunte promesse non mantenute, con il fratellastro maggiore di Olivia e Cristiana, Shawn John Shadow.
Non reggendo più a questa pressione, anche mediatica, Cristiana ha comunicato alla sorella Olivia la propria volontà di cedere le sue quote nelle società a un fondo (di cui non ha voluto rendere noto il nome) per una somma complessiva di 150 milioni di euro. In poche parole, ha offerto alla sorella la possibilità di esercitare il diritto di prelazione, invitandola a versarle quella cifra sul conto corrente per diventare proprietaria dell’intera holding di famiglia. Il problema è che Olivia non ha liquidità. Due delle tre società presentano bilanci disastrosi, con debiti milionari verso il fisco, e reperire in breve tempo 150 milioni di euro - oltre ai circa 10 necessari per chiudere il contenzioso con il fratellastro - appare un’impresa quasi impossibile. Far entrare un fondo nella holding di famiglia significherebbe, di fatto, perdere il controllo: basterebbero un paio di aumenti di capitale per mettere in ginocchio il vecchio imprenditore romano e la compagna di Conte.
Ora Olivia è davanti a una scelta: acquistare le quote della sorella Cristiana sborsando almeno 150 milioni, oppure affrontare il futuro con un fondo come socio al 50%, con la differenza che quest’ultimo, in caso di necessità, può ricapitalizzare senza limiti, mentre lei no. In alternativa, resta l’ipotesi più drammatica: portare i libri contabili in tribunale e svendere il patrimonio di famiglia, composto anche da numerosi appartamenti a Roma e in varie regioni d’Italia. In tutto questo c’è la posizione, inflessibile, della sorella Cristiana: non vuole sentire ragioni, vuole uscire dalla holding di famiglia. Non le importa chi le darà i soldi, la sorella Olivia o il fondo immobiliare, lei vuole i suoi 150 milioni di euro e vivere i prossimi anni senza più rogne.
E che le cose non stiano andando particolarmente bene sarebbe confermato da un intervento di maquillage societario che è stata messo in piedi proprio sotto Natale. Olivia Paladino e la sorella Cristiana hanno avviato un’operazione di facciata legata al palazzo di via Fontanella di Borghese - dove vive anche Giuseppe Conte - intestato alla Sorelle Fontana alta moda (Sfam) srl. Davanti alla notaia Silvana Masucci di Roma si è presentata Roberta Bichel, nella sua duplice veste di amministratrice unica sia della Unione esercizi alberghi di lusso (Ueal) sia della Immobiliare di Roma Splendido (Irs). Un dettaglio tutt’altro che secondario, perché l’operazione formalizzata riguarda una compravendita interamente interna allo stesso gruppo societario.
Ueal ha ceduto a Irs il 70% di Sfam per un valore nominale di 6 milioni di euro, da corrispondere in sei rate annuali da un milione ciascuna: la prima entro la fine dell’anno, l’ultima fissata al 31 dicembre 2030. Si tratta, però, di un passaggio puramente contabile: non c’è una reale uscita di cassa, né una vera circolazione di denaro tra soggetti indipendenti, ma solo uno spostamento di partecipazioni tra società riconducibili alle stesse proprietarie.
Sia la società venditrice sia quella acquirente sono infatti controllate dalle sorelle Paladino attraverso la Agricola Monastero Santo Stefano vecchio srl, che detiene anche il restante 30% di Sfam. L’operazione serve dunque a trasferire la proprietà di una società in grave difficoltà patrimoniale sotto una holding del gruppo con una situazione finanziaria più solida.
Sfam ha chiuso il 2024 senza alcun ricavo e con una perdita di 148.000 euro, che ha portato il patrimonio netto a un valore negativo di 1,67 milioni di euro. Una condizione che, per legge, impone la ricapitalizzazione o, in alternativa, la messa in liquidazione della società. Le perdite del 2020 devono essere coperte entro la fine di quest’anno, quelle del 2021 entro il 2026 e quelle del 2022 entro il 2027. In questo quadro, la cessione infragruppo non rappresenta un’operazione di mercato, ma uno strumento per ricollocare Sfam sotto una società del gruppo in grado di sostenerne il risanamento. Ultimo, ma non ultimo problema in casa Paladino, è quello che riguarda il fratellastro Shawn.
Quest’ultimo è in attesa che le sorellastre gli liquidino il compenso pattuito di 10,2 milioni di euro per la cessione delle sue quote nella capofila delle società di famiglia, la Agricola Monastero Santo Stefano vecchio, a fronte dei 250.000 euro già versati dopo l’accordo transattivo siglato davanti al Tribunale civile di Roma per la liquidazione del suo 5% del capitale delle società cointestate. Papà Cesare, negli anni scorsi, aveva suddiviso il capitale della Agricola, che ha in pancia pure la proprietà del Grand hotel Plaza di Roma, donandone il 47,5% ciascuna alle due figlie naturali Olivia e Cristiana, e lasciando il restante 5% al figliastro Shawn John.
Il lungo braccio di ferro tra le sorelle, il patrigno e Shawn sembrava essersi concluso con il già citato accordo. Ma non era così. Le sorelle Olivia e Cristiana hanno infatti versato solo la prima rata da 250.000 euro al fratellastro, come previsto dall’accordo messo a punto dal professor Guido Alpa (morto lo scorso marzo a Genova), maestro di Conte, che nel contenzioso ha assistito Cesare Paladino e le due figlie.
Dopo quel pagamento tutto si è bloccato e Shawn è stato costretto a ricorrere nuovamente alla giustizia per far valere l’accordo, facendo notificare un’ingiunzione di pagamento che verrà discussa, dopo quasi due anni, nell’ottobre del 2026. Nel frattempo Cristiana vuole lasciarsi alle spalle le beghe di famiglia, diventare multimilionaria e dedicarsi a una vita di agi senza questioni giudiziarie e problemi economici da gestire. Resta da capire se Olivia e papà Cesare vorranno continuare a combattere sulla tolda di comando dell’azienda di famiglia o se anche loro preferiranno incassare, concedendo a Shawn la sua parte. E Conte in tutto questo? Qualcuno dice, ironicamente, ma non troppo, che stia cercando casa. Anche perché la foto di Natale non promette nulla di buono neppure per lui.
In un comune del barese, a Terlizzi, il parroco don Michele Stragapede si è sostituito a Dio e ha deciso di non far nascere il Bambin Gesù, di farlo sparire come se tutto fosse un gioco di prestigio, una magia. Un ribaltamento della catechesi oltre che della storia. Al suo posto, nella culla, solo un lenzuolo bianco circondato da balle di fieno. «Facciamo finta che tutto vada bene?», ha domandato il sacerdote alla comunità. «Facciamo finta che non ci sono stati bambini uccisi a Gaza, in Israele, in Sudan? Nella striscia di Gaza e in Israele sono stati ammazzati o lasciati morire oltre 16.000 bambini sotto i 12 anni: una vera strage degli Innocenti a opera di Erode».
Non vi è dubbio che le intenzioni di don Michele fossero le migliori possibili, ma egli sta compiendo un errore di prospettiva enorme: relativizzare il messaggio del Vangelo, la cui potenza è quella di ribaltare le ingiustizie e i paradigmi dei potenti. Non era potente quell’Erode che si era messo in testa di uccidere tutti - ripeto tutti! - i bambini per paura di perdere il proprio potere, minacciato dalla nascita di questo nuovo «re», Gesù?
Certo che lo era, tanto da mettere in azione una macchina di spionaggio per non lasciare scampo ai nascituri. Addirittura tenta, con l’inganno, di sviare anche i Magi: se andate ad adorare il «re dei Giudei» poi ditemi dove si trova che così anche io possa venire, raccontano le Scritture. Solo un sogno avvertirà i Saggi di non credere alle parole di Erode. Ecco, Dio non si ferma di fronte a tanta malvagità, non si ritrae dalla scelta di donare, uomo tra gli uomini, il proprio figlio e annunciare: amatevi l’un l’altro come io ho amato voi. Quel bimbo è luce di speranza in un mondo buio, fatto di guerre, di ingiustizie, di soprusi, di finzione: è ciò per cui abbiamo appena gioito! Togliere dalla culla quel bambino ribalta la catechesi, neutralizza o peggio vanifica il messaggio di Dio. Don Michele, ma davvero lei pensa che noi ci meritiamo il dono di Dio? O che ce lo meritassimo ieri più di oggi? Ma no! E lei lo sa benissimo! Dio non ci manda Gesù perché ce lo meritiamo: è un dono. E ogni anno abbiamo bisogno di ricordare quel messaggio di nascita e di Resurrezione proprio perché non si tratta di una lezione di storia e di attualità; piuttosto è il ribaltamento di quel messaggio di amore assoluto del quale non siamo mai stati degni, ma che Dio ci offre nella sua magnanimità. Ecco perché anche a Terlizzi quel bambino deve stare lì, nel presepio: la nuova novella non si misura nella relatività di quel che viviamo, ma è un insegnamento assoluto. Un messaggio misterioso e affascinante, più di chi s’atteggia dio creando robot e intelligenze artificiali nel tentativo di misurarsi con una Creazione digitale. Un messaggio potente più delle miserie con cui chi si crede potente si misura, a tal punto da respingere persino la sospensione dei bombardamenti nella notte di Natale.

