Beppe Sala (Ansa)
Il segretario della Cisl Giovanni Abimelech: «Per il Comune noi o la Uil non siamo presidi democratici?».
Il sindaco di Milano Beppe Sala fa parlare di nuovo di sé. Già, perché l’assegnazione dell’Ambrogino d’Oro - massima onorificenza che la città attribuisce a figure benemerite all’ombra della Madonnina - alla Cgil, ha un po’ stizzito il resto del mondo sindacale, che si è risentito nei confronti di Palazzo Marino. A intervenire è stato il segretario generale della Cisl milanese, Giovanni Abimelech, che in una dichiarazione diffusa mercoledì scorso ha messo in discussione i criteri seguiti dal Comune di Milano nell’attribuzione del massima riconoscimento civico.
«Il Comune di Milano ha premiato la Cgil con l’Ambrogino, la più importante benemerenza civica. Quello che vorremmo capire è perché lo stesso riconoscimento non sia stato assegnato anche alla Cisl. O alla Uil. Insomma, a tutto il movimento sindacale confederale», afferma Abimelech. Il segretario della Cisl richiama il peso organizzativo del sindacato sul territorio e il ruolo svolto nei luoghi di lavoro e nei servizi ai cittadini: «È una risposta che dobbiamo ai nostri 185.000 iscritti, ai delegati e alle delegate che si impegnano quotidianamente nelle aziende e negli uffici pubblici, alle tantissime persone che si rivolgono ai nostri sportelli diffusi in tutta l’area metropolitana per chiedere di essere tutelate e assistite».
Nel merito delle motivazioni che hanno accompagnato il riconoscimento alla Cgil, Abimelech solleva una serie di interrogativi sul mancato coinvolgimento delle altre sigle confederali. «Abbiamo letto le motivazioni del premio alla Cgil e allora ci chiediamo: la Cisl non è un presidio democratico e di sostegno a lavoratori e lavoratrici? Non è interlocutrice cruciale per istituzioni e imprese, impegnata nel tutelare qualità del lavoro, salute pubblica e futuro del territorio?», dichiara.
Il segretario generale elenca le attività svolte dal sindacato sul piano dei servizi e della rappresentanza: «Non offre servizi essenziali, dai Caf al Patronato, agli sportelli legali? Non promuove modelli di sviluppo equi, sostenibili e inclusivi? Non è vitale il suo ruolo nel dibattito sulle dinamiche della politica economica e industriale?».
Nella dichiarazione trova spazio anche il recente trasferimento della sede della sigla milanese. «In queste settimane la Cisl ha lasciato la sua “casa” storica di via Tadino 23, inaugurata nel 1961 dall’arcivescovo Giovanni Battisti Montini, il futuro Papa Paolo VI, per trasferirsi in una più grande e funzionale in via Valassina 22», ricorda Abimelech, sottolineando le ragioni dell’operazione: «Lo ha fatto proprio per migliorare il suo ruolo di servizio e tutela per i cittadini e gli iscritti».
La presa di posizione si chiude con un interrogativo rivolto direttamente all’amministrazione comunale: «Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati di serie A e di serie B? Dobbiamo pensare che per il Comune di Milano ci siano sindacati amici e nemici?». Al sindaco Sala non resta che conferire con Abimelech e metterlo a parte delle risposte ai suoi interrogativi.
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Paolo Zangrillo (Ansa)
Il ministro della Pa: «Venerdì hanno scioperato appena 100.000 statali rispetto ai 300.000 iscritti al sindacato. Un fallimento legato al no al rinnovo dei contratti. Al tavolo della trattativa i suoi erano a disagio, come se stessero subendo un diktat».
«In media nessuno degli scioperi degli ultimi anni ha registrato grandi adesioni, ma le circa 100.000 persone che ieri hanno deciso di non lavorare per seguire la protesta della Cgil rappresentano un minimo storico. Parliamo del 4,4% del totale, più o meno un terzo dei 300.000 statali iscritti al sindacato di Landini. Vuol dire che anche i suoi sono stufi di portare avanti battaglie politiche che alla fine non danno vantaggi ai lavoratori». Paolo Zangrillo è il ministro della Pubblica amministrazione e negli ultimi mesi si è scontrato obtorto collo con il radicalismo dell’ex Fiom.
Per mesi e mesi i no dei compagni hanno bloccato il rinnovo dei contratti della Pa. Nonostante i 20 miliardi messi sul piatto dal governo. E nonostante fossero già pronte le risorse per i rinnovi successivi. Poi è bastato che la Uil tornasse a ragionare e si decidesse a firmare per garantire a più di 2 milioni di dipendenti aumenti da 170 euro al mese. E altrettanti dovrebbero arrivare nei prossimi mesi. Senza ovviamente la firma di Landini.
Ministro c’è anche il peso della trattativa per il rinnovo contrattuale dietro al risultato disastroso dell’ennesimo sciopero di venerdì?
«Non anche, io direi soprattutto. Guardi io ho seguito quel tavolo e le dico che avevo una sensazione abbastanza lampante. A me è sembrato che i rappresentanti della Cgil si rendessero conto che sul piatto c’era un’offerta vera e concreta, di fronte alla quale sarebbe stato autolesionistico fare un passo indietro, ma che non avessero alternative».
In che senso?
«Nel senso che i miei interlocutori erano a disagio, magari mi sbaglio, ma sembrava che gli fosse stato imposto un diktat politico rispetto al quale avevano le mani legate. Un diktat che non ha nulla a che vedere con il ruolo che dovrebbe avere chi rappresenta gli interessi e i diritti dei lavoratori. Va da sé che questa posizione ha portato la Cgil a isolarsi e buona parte degli iscritti a non poterne più».
A non poterne più di cosa?
«Ma scusi, da quando sono al governo abbiamo chiuso la tornata contrattuale 2019-2022, aperto e chiuso quella 2022-2024 e ci accingiamo, questione di settimane, ad aprire quella 2025-2027. Una cosa del genere non era mai successa».
Al di là delle statistiche, cosa vuol dire tutto questo per i lavoratori?
«Tradotto in soldoni significa che il governo ha stanziato 20 miliardi e che nel periodo 2021-2027 i salari degli statali aumenteranno del 16-18%. Ecco, Landini parla tanto della necessità di far recuperare potere d’acquisto alle retribuzioni e di avvicinare gli stipendi pubbliche a quelle dei privati, e poi si chiude a riccio di fronte a numeri del genere? È chiaro che sta facendo politica, finalmente i suoi se ne sono resi conto e prendono le distanze».
Dopo il flop dello sciopero di ieri Landini dovrebbe fare un passo indietro? O comunque i suoi dovrebbero pressarlo affinché lo faccia?
«Guardi io sono focalizzato sul mio impegno, sulla responsabilità che ho nei confronti di 3,4 milioni di statali e non mi permetterei mai di dire cosa deve fare a una confederazione che ha la storia della Cgil. Mi sento però libero di evidenziare che non capisco cosa pensano di ottenere continuando su questa strada. Anzi le dirò che auspicherei un ritrovato clima di riappacificazione tra Cgil, Cisl e Uil, ma con questa leadership non mi sembra ci siano i presupposti».
A fronte di un clima che sta diventando sempre più teso. Ieri a Firenze, dove parlava il leader della Cgil, sono state distribuite banconote fasulle con l’effige sua e del premier Meloni.
«Un brutto episodio che a me sicuramente dispiace, ma che trovo ancor più offensivo verso tutti i dipendenti della pubblica amministrazione che lavorano seriamente e hanno visto nel rinnovo e negli aumenti contrattuali un giusto premio per i loro sforzi. Io penso che rispetto a un lavoratore pubblico che in 6-7 anni vede la busta paga crescere del 16-18%, non sia corretto dire che sta guadagnando soldi falsi».
Episodio che fa il paio con quello di Genova, dove Landini non si è scusato con i sindacalisti della Uilm menati dai colleghi della Fiom.
«Episodio che conferma il clima di estrema tensione che stiamo vivendo. Più c’è agitazione e più chi ha un ruolo istituzionale dovrebbe mostrare senso di responsabilità».
Può essere più specifico?
«Guardi, noi assistiamo ormai da tempo a reiterate manifestazioni di violenza da parte dei pro Pal e il fatto che pure il sindacato si renda complice di comportamenti del genere va assolutamente stigmatizzato».
E Landini non l’ha fatto.
«Sbagliando. Perché la storia di questo Paese è ricca di nette prese di distanza della Cgil rispetto alle aggressioni, penso ai tempi delle Brigate Rosse. Mentre ora a Genova si adotta la strategia del silenzio che però rischia di essere confusa con l’assenso. La dirò di più...».
Prego.
«Il fatto che viviamo tempi balordi è dimostrato da quello che è successo alla “Stampa” a Torino, un assalto assolutamente da condannare. Un episodio di una gravità assoluta e trovo incredibile che qualcuno a sinistra abbia usato quanto successo come pretesto per dare la colpa alle Forze dell’ordine che non c’erano».
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Daniela Fumarola (Ansa)
Daniela Fumarola spinge per un nuovo patto con imprenditori e governo e poi fissa le priorità: «Bisogna rifinanziare la legge per la partecipazione dei dipendenti agli utili d’impresa e ampliare la defiscalizzazione dei contratti».
Cgil sempre più isolata. All’indomani dello sciopero, proclamato dal segretario generale, Maurizio Landini, per protestare contro la legge di Bilancio, emerge sempre più la spaccatura tra i sindacati. Mentre la Cgil continua con la politica contundente, annunciando una sorta di stato di allerta permanente e la Uil dopo aver fatto la «ruota di scorta della Cgil» ha finalmente assunto una posizione più autonoma, la Cisl marca la differenza rispetto alla strategia della piazza e ribadisce il metodo del dialogo. Una politica da attuare non solo per la discussione sulla manovra ma da far propria, con una visione di più lungo periodo, su tutte che riguardano il futuro del Paese.
Ieri il sindacato guidato da Daniela Fumarola ha indetto la sua manifestazione, «Migliorare la manovra, costruire un Patto», a Roma, in Piazza Santi Apostoli, per arricchire la legge di Bilancio e lanciare un nuovo patto sociale, un accordo della responsabilità su obiettivi condivisi. In particolare su salari, tutele nel mercato del lavoro, pensioni, scuola, ricerca e partecipazione. «In un tempo in cui tanti strappano, dividono e urlano, noi vogliamo cucire, unire e costruire dei sì concreti», ha detto Fumarola, ribadendo che la strada migliore per arrivare ai risultati «non è il conflitto ma il dialogo con il governo», non la piazza di chi vuole distruggere ma «la piazza della responsabilità». La segretaria crede ancora nel «valore dell’unità sindacale - alla gara a chi urla di più, certo noi non abbiamo mai partecipato e mai parteciperemo -, ma bisogna ritrovarsi sui contenuti e sul metodo che non è il conflitto».
Dichiarazioni sulle quali si misura la distanza siderale con la Cgil che, anche come braccio armato del Pd, ha scelto invece lo scontro, senza se e senza ma. Anche se significa sacrificare risultati per i lavoratori come è accaduto, in queste settimane, con la mancata firma dei contratti e come ora si sta ripetendo con il rifinanziamento del fondo per la legge 76 del 2025 sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese che manca nella manovra. «Un buco clamoroso», afferma Fumarola. La legge è stata promossa dalla Cisl per dare attuazione all’articolo 46 della Costituzione, rafforzare la collaborazione, preservare l’occupazione e valorizzare il lavoro mentre la Cgil ha votato contro, ritenendo che questa indebolisse la contrattazione collettiva e la rappresentanza sindacale.
Due posizioni diametralmente opposte e ora che nella manovra mancano i soldi per tale misura, la Cisl si trova da sola a rivendicarli al governo. «La partecipazione non si umilia», ha detto la leader sindacale in Piazza Santi Apostoli, «Guai se dovessimo capire che sulla pelle dei lavoratori è stato consumato qualche strano scambio tra i banchi del governo e della maggioranza». E se il rifinanziamento non dovesse arrivare, «la Cisl saprà alzare in ben altro modo le bandiere» avverte la sindacalista che sollecita anche l’ampliamento della defiscalizzazione nella contrattazione di primo livello, ai salari fino a 38.000 euro.
Ma è sul metodo che Fumarola insiste, ovvero la definizione di «un nuovo patto tra tutte le forze sociali e imprenditoriali e lo stesso governo per sedersi intorno a un tavolo e fissare obiettivi che devono traghettare il nostro Paese verso un futuro migliore. Il metodo del confronto va consolidato, non usato a corrente alternata. Apriamo una stagione di concertazione nuova per trovare soluzioni e decidere insieme». Infine, l’invito rivolto alle altre due confederazioni: «Possiamo avere culture, storie e linguaggi diversi. Ma il Paese ha bisogno che sul terreno dei contenuti, degli obiettivi e delle proposte a vincere sia la concretezza». Questa strada si percorre tramite «il confronto che va consolidato, non usato a corrente alternata. Apriamo una stagione di concertazione nuova per trovare soluzioni e decidere insieme. Il conflitto lo riserviamo quando non c’è più speranza di dialogo».
Fumarola delinea il profilo di un sindacato autorevole, ovvero che sia «forte, autonomo, riformista, capace di contrattare, negoziare e ottenere risultati». E senza nominare la Cgil ma con una chiara allusione, ribadisce «noi non siamo il sindacato che si specchia nei cortei e si dimentica dei contratti. Bisogna smettere di pensare che fa sul serio solo chi alza i decibel, mostra i denti e affossa i negoziati. Noi siamo liberi, ci assumiamo la responsabilità di fare scelte anche scomode. Siamo il sindacato del riformismo, quello che preferisce una conquista vera a cento comunicati stampa che preferisce un tavolo in più e uno striscione in meno. Il nostro mestiere non è incendiare i luoghi di lavoro: è difenderli, migliorarli. Rispettiamo le altre posizioni sindacali, ma pretendiamo rispetto vero».
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2025-12-14
Conte scalza Schlein: si mette alla testa del campo largo e poi detta le regole al Pd
Giuseppe Conte (Ansa)
Il capo 5s, ospite ad Atreju, scarica su Giancarlo Giorgetti il disastro del Superbonus. Guido Crosetto porta via a forza Matteo Renzi dal palco.
Il penultimo giorno di Atreju ospita ben due ex premier, Giuseppe Conte e Matteo Renzi. Già presidenti del Consiglio ma ancora prime donne. «C’è una sedia vuota qui. Manca Giorgia Meloni, la padrona di casa», è la provocazione di Conte, inevitabile, dopo che il direttore del Giornale, Tommaso Cerno, al quale è stato affidato il compito di intervistarlo, gli chiede che fine abbia fatto Elly Schlein. E controbatte: «Ci sarebbe stata se aveste deciso chi è il leader del campo largo». Conte insiste, sentendosi evidentemente già leader del campo largo: «Verrà il giorno, io sono sicuro che verrà un giorno in cui faremo questo confronto». E poi sul campo largo precisa: «Noi siamo disponibili a dialogare con Il Pd e con le altre forze progressiste. Se verrà fuori un’alleanza dipenderà solo dai programmi, se ci verranno scritte le nostre battaglie di sempre, dall’etica pubblica alla legalità, alla giustizia ambientale e sociale».
Alle domande di Cerno, il leader pentastellato risponde sempre scaricando le proprie responsabilità su altri. Sul Superbonus dice: «Conte dopo sei mesi è andato a casa perché il signore qui, Renzi, ha voluto rompere la coalizione. È stato Giancarlo Giorgetti ad aver gestito il Superbonus, è disonorevole chiedere a me conto di come è stato gestito. Non è il Superbonus, è la “superscusa”», si difende attaccando. «È vigliacco chiedermi di rispondere su questa misura, fatta in un momento di emergenza e che non ho potuto gestire». Sul Covid, questa volta è colpa di Mario Draghi: «Da quando è iniziata questa commissione parlamentare di inchiesta sul Covid, non ho mai sentito nominare il nome di Draghi da questa maggioranza. Il green pass è stato introdotto dal governo Draghi, non da me. Avete un problema con Draghi anche solo a nominarlo», denuncia. Tornato all’opposizione, Conte torna ad attaccare l’Europa dimenticandosi di aver sostenuto e contribuito a creare il Von der Leyen I: «L’Europa doveva essere protagonista, ma si rischia il disastro politico». Il riferimento è all’Ucraina su cui spiega: «Se continuiamo a scommettere solo sulla vittoria militare dell’Ucraina sulla Russia e chiudiamo anche quella porta che dovrebbe rimanere sempre socchiusa, quella della diplomazia, ci ritroveremo con una pace che verrà fatta sopra la nostra testa». Rivendica la posizione sfidando anche la Lega. «Vorrei chiarire anche a questa platea che ci sono delle differenze tra il M5s e la Lega di Matteo Salvini, perché la Lega ha fatto un accordo con Russia unita di Vladimir Putin mentre noi non abbiamo accordi con nessuno, siamo assolutamente autonomi e indipendenti. Poi, la Lega di Salvini ha votato tutti gli invii delle armi, ogni volta vota e dice che non è d’accordo». Conte, poi, invita il suo intervistatore a essere più sintetico, bramoso di avere più spazio e visibilità possibili. Di certo lo spazio, tanto, se lo è preso Matteo Renzi, che nel panel dedicato alle riforme, mette in piedi un vero e proprio comizio, un Renzi show.
Tanto che, alla fine, interviene Guido Crosetto che, con un simpatico siparietto, lo solleva e lo porta via di peso dal palco. La verità è che Atreju è di fatto diventata una vetrina imperdibile per tutti, o quasi. Soprattutto per chi, come Renzi, è in cerca di visibilità e consensi. Critico con la segretaria del suo ex partito: «Giorgia Meloni ha detto che era pronta a sfidare Elly Schlein. Schlein ha dato la disponibilità poi però, questo non è accaduto: sto parlando di ciò che è avvenuto nel 2024. Meloni ha ribadito questo invito all’inizio della conferenza stampa di inizio anno. Dopodiché la cosa è molto semplice. Ognuno ha un suo stile. Quando ero presidente del Consiglio, ho dialogato con Giorgia Meloni che aveva allora il 3%, era un po’ il mondo alla rovescia», ricorda amareggiato nel punto stampa di Atreju. Critiche, sul palco, anche sul campo largo: «Io ho visto Abu Mazen al Cairo un mese fa e, quindi, sono un precursore del campo largo...», ironizza riferendosi all’appuntamento che le opposizioni hanno avuto con il leader dell’Anp. «La politica estera è una cosa seria, non è che si fa sulla base degli incontri. Comunque, se può interessare, ho visto Abu Mazen il primo novembre al Cairo».
Poi va nel merito delle riforme. Nel mirino ha quella elettorale. «È evidente che loro (la maggioranza, ndr) vogliono cambiare la legge elettorale perché hanno paura di perdere i collegi. Non è un caso che il rilancio della legge elettorale sia avvenuto mezz’ora dopo che sono arrivati gli exit poll di Decaro e di Fico (alle regionali, ndr). Dopodiché, va capito che tipo di legge fanno, se fanno una legge per bene noi ci siamo. Meloni ha sempre detto preferenze, preferenze, preferenze. Faremo le preferenze sì o no? Io sono qui anche con un po’ di curiosità a sentire Casellati». A cui dice: «Al Senato non è arrivata, avete votato alla Camera», ha detto Renzi, riferendosi alla riforma del premierato nonostante sia stato approvato in prima lettura a Palazzo Madama nel giugno 2024. Secca la replica del ministro delle Riforme, Elisabetta Casellati: «Si vede che al Senato non ci sei mai».
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