Sorge il dubbio che, nella tesa discussione riguardante il ddl Zan, vi sia in effetti una indebita ingerenza. No, non quella del Vaticano che dovrebbe - come qualcuno sostiene - evitare di immischiarsi negli affari di uno «Stato laico». Semmai, l'ingerenza è quella del sistema mediatico-culturale progressista che pare convinto di poter telecomandare il Papa. Il problema è annoso, e va riconosciuto che talvolta la sottile ambiguità gesuitica di Francesco lo abbia alimentato. Ma, in soldoni, il punto è sempre lo stesso: quando il Pontefice si esprime in modo gradito a sinistra (cioè in conformità a un pensiero minoritario ma dominante), è celebrato con tutti gli onori. Quando invece - come avvenuto rispetto al bavaglio arcobaleno - difende l'ortodossia, i valori e la libertà della Chiesa e dei cristiani, ecco che l'atteggiamento nei suoi confronti cambia radicalmente.
Nel caso specifico, si assiste a una curiosa - benché non certo inedita - opera di mistificazione. La linea prevalente fra i commentatori e gli intellettuali «democratici» sembra essere la seguente: poiché la realtà non ci aggrada, non ci resta che negarla. Sfogliando i giornali e ascoltando le dotte analisi squadernate in televisione e sulla Rete, ci si trova di fronte alla descrizione di un Pontefice dimezzato, indebolito, financo raggirato.
Ora, è molto difficile, se non impossibile, che Bergoglio non fosse a conoscenza della nota verbale consegnata all'ambasciata d'Italia dal segretario per i rapporti con gli Stati, l'arcivescovo Paul Gallagher. È presumibile, anzi, che il Papa quella nota l'abbia condivisa, approvata, voluta. Di più: raramente, negli ultimi anni, si è vista una tale unità d'intenti nella Chiesa. La Conferenza episcopale italiana e la Santa Sede si sono mosse in modo simmetrico, concordato (anche se il termine, in queste ore, suscita strani pruriti). Tuttavia, Repubblica ci informa che «La legge Zan divide il Vaticano» e ci spiega che l'azione diplomatica «ha provocato lo smarrimento di diversi prelati».
Sulla Stampa, la nota vaticanista Michela Murgia - assurta a commentatrice di faccende ecclesiastiche in virtù di un discutibile libretto sulla Madonna pubblicato anni fa - si spinge perfino oltre, evocando le proverbiali «trame nere». «In questo caso», scrive arguta la Regina degli schwa, «il gioco non sembra essere il frutto di un'armonia tra la guida che deve ispirare e il custode che deve garantire. La percezione è che il ddl Zan sia solo l'ennesima arma della guerra che va consumandosi nelle stanze vaticane, dove c'è da mesi la corsa a chi più mette in imbarazzo papa Francesco allo scopo di delegittimarne l'autorevolezza esterna». Dunque i prelati sarebbero spaccati, Bergoglio sarebbe vittima di un complotto, la nota verbale avrebbe l'unico scopo di metterlo in imbarazzo, creando divisione nella casa del Signore.
Nella vulgata progressista, il Pontefice è - solo e soltanto - l'uomo del «chi sono io per giudicare», quello che apre alle coppie Lgbt, che si batte contro l'omofobia e il razzismo, quello che tifa per i migranti. Se si discosta dalla linea che altri (da Eugenio Scalfari in giù) hanno tracciato per lui, significa che dietro c'è qualcosa di poco chiaro, una truffa, un inganno, una oscura macchinazione. No, non può essere stato Bergoglio ad approvare quel documento contro la mordacchia arcobaleno: devono aver approfittato della sua buona fede o di un momento di assenza. Gli hanno giocato un brutto tiro, dev'essere così!
Certo, tutti gli osservatori hanno il diritto di commentare le mosse papali, specie quelle concernenti questioni politiche e non strettamente dottrinali. Ma un conto è commentare, un altro conto è tentare di svuotare di legittimità un atto soltanto perché non coincide con i propri desiderata. Senz'altro una parte della Chiesa ha sofferto l'ultima mossa della Santa Sede. Ma si tratta dell'avanguardia che, negli anni passati, ha premuto con fin troppa foga sull'acceleratore arcobaleno. Non è stata rinnegata, questo no, ma ridimensionata sì. E, comunque, si tratta pur sempre di un'avanguardia, che per definizione è minoritaria. Parliamo di personalità come padre Antonio Spadaro, che ha dolorosamente accusato il colpo, e ha reagito pubblicando sui social una canzone di Marco Mengoni, portabandiera Lgbt.
Ma per uno Spadaro (o qualche Spadaro) che non apprezza, non si può arrivare a sostenere che il Vaticano sia lacerato. Anche perché, se pure ci fosse una spaccatura tanto ampia e tanto profonda, beh, allora bisognerebbe renderne conto ogni volta. Anche quando Bergoglio attacca i sovranisti o invita all'accoglienza dei clandestini. In quei casi, però, il dissenso non è mai contemplato, nemmeno quando è forte. Se si tratta di ddl Zan, invece, il dissenso (pur ridotto) merita i titoloni. Tradotto: se il Papa vira a sinistra, tutto bene; se le sue azioni compiacciono la destra, si salvi chi può.
C'è persino, in questa messe di contorcimenti ideologici, chi tenta una disperata difesa di Bergoglio in quanto santino progressista, e cioè il professor Alberto Melloni. Il quale, sempre tramite Repubblica - di fatto contraddicendo la Murgia e vari altri, compreso il direttore di Repubblica - prova a sostenere che la nota verbale sia, in realtà, un'astutissima mossa utile a fermare le destre. Un modo per sbarrare «preventivamente la strada al protagonismo di quei vescovi che fossero stati tentati dall'uso politico dei sacramenti, come stanno facendo i vescovi americani con Joe Biden». Capito? L'azione diplomatica vaticana sembra dar ragione ai conservatori, ma solo perché in realtà vuole arginarli e ghettizzarli. Non è un complotto dunque, ma un autocomplotto bergogliano.
Come sopra: quando la realtà non è gradevole, non resta che negarla ostinatamente.
- Mr Bce lascia la palla all'Aula: «È il momento del Parlamento, non del governo». Il messaggio alla sinistra, però, è chiaro: o si va incontro alle richieste della Chiesa, o la legge rischia di essere bocciata dalla Consulta.
- I dem dovranno accettare modifiche, anche se i partiti giallorossi insistono per portare al voto il testo. Roberto Fico incalza il M5s, Giorgia Meloni si mette di traverso: «Sospendiamo l'iter».
Lo speciale contiene due articoli.
«Voglio infine precisare una cosa, che si ritrova in una sentenza della Corte costituzionale del 1989: la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, la laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali»: per comprendere fino in fondo il significato del breve ma raffinatissimo intervento di ieri di Mario Draghi, al Senato, in merito all'intervento del Vaticano sul ddl Zan, occorre partire da questa frase. Il riferimento di Draghi è alla «madre di tutte le sentenze» sulla laicità dello Stato, la 203 del 12 aprile 1989, redatta da Francesco Paolo Casavola, con la quale la Consulta, presieduta da Francesco Saja, si espresse sull'insegnamento della religione nelle scuole. La sentenza richiamata da Draghi eleva a principio supremo la laicità dello Stato ma afferma anche che esso «implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni, ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale». Dunque, Draghi non ha per nulla preso posizione contro la nota verbale del Vaticano, anzi: richiamando l'affermazione del principio della «non indifferenza» dello Stato davanti alle religioni, ha invitato, seppure implicitamente, il parlamento a modificare il ddl Zan andando incontro alle richieste della Santa Sede.
L'intervento di ieri del primo ministro va analizzato filologicamente, e non in maniera grossolana e propagandistica, come pure si sono affrettati maldestramente a fare da sinistra. «Mi soffermo», esordisce Draghi, «sulla discussione in questi giorni in Senato, senza voler entrare nel merito della questione. Quello che però voglio dire, specialmente rispetto agli ultimi sviluppi, è che il nostro è uno Stato laico, non è uno Stato confessionale. Quindi il Parlamento», aggiunge Draghi, «è certamente libero di discutere, ovviamente, sono considerazioni ovvie, e di legiferare». Una ovvietà, come sottolinea lo stesso premier, che rappresenta una carotina servita alle sinistre; una frase che potrà essere letta (anzi Letta) dagli irriducibili del ddl Zan, come puntualmente avviene subito dopo la conclusione del discorso del premier, per cantare vittoria e poter diramare comunicati stampa trionfalistici. Ma dopo la prima carota, arriva anche il primo bastone: «Il nostro ordinamento», scandisce in Aula Draghi, «contiene tutte le garanzie per assicurare che le leggi rispettino sempre i principi costituzionali e gli impegni internazionali, tra cui il concordato con la Chiesa. Vi sono i controlli di costituzionalità preventivi nelle competenti commissioni parlamentari: è di nuovo il Parlamento che, per primo, discute della costituzionalità», aggiunge il presidente del Consiglio, «e poi ci sono i controlli successivi nella Corte costituzionale». Traduzione: amici cari, sta a voi decidere se correggere il testo del ddl Zan in modo tale che non vengano violati gli impegni internazionali, compreso il Concordato, oppure andare avanti facendo finta di niente, esponendovi alla figuraccia della bocciatura finale.
Ricordiamo che la Segreteria di Stato del Vaticano, nella nota verbale trasmessa al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, «rileva che alcuni contenuti dell'iniziativa legislativa […] avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario. Tale prospettiva è infatti garantita dall'Accordo tra la Santa Sede e la Repubblica italiana di Revisione del concordato lateranense, sottoscritto il 18 febbraio 1984».
Dunque, per Draghi, se il Parlamento vuole rischiare una clamorosa bocciatura della legge Zan, oppure ha intenzione di inasprire un contenzioso con la Chiesa Cattolica, se ne assumerà la responsabilità: molto più intelligente sarebbe intervenire prima, apportando alla legge le modifiche necessarie per evitare una probabile stroncatura della legge stessa, una volta approvata. E arriviamo al punto cruciale, ovvero alla seconda bastonata: «Voglio infine precisare una cosa», argomenta Draghi, «che si ritrova in una sentenza della Corte costituzionale del 1989: la laicità non è indifferenza dello Stato rispetto al fenomeno religioso, la laicità è tutela del pluralismo e delle diversità culturali». Il richiamo alla «madre di tutte le sentenze» è il momento cruciale dell'intervento del presidente del Consiglio. Il principio della «non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni», viene precisato, dalla sentenza, in modo cristallino: «L'attitudine laica», si legge nel testo, «dello Stato-comunità che risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato persona, o dei suoi gruppi dirigenti, rispetto alla religione o a un particolare credo, ma si pone a servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini».
Il principio di laicità dello Stato, spesso e volentieri citato a sproposito dalle sinistre e non solo relativamente al ddl Zan, non contrappone la politica e la religione, ma ne delinea gli ambiti di competenza pur senza interrompere la comunicazione. La sfera della spiritualità è distinta da quella temporale ma tra le due aree c'è una osmosi culturale. Draghi lo sa, e cita questa sentenza; chi non capisce nemmeno di cosa si sta parlando, o peggio finge di non capirlo, si limita al primo passaggio dell'intervento del presidente del Consiglio, quello sullo Stato laico, che lo stesso Draghi definisce «una considerazione ovvia». Infine, la seconda carota offerta alle sinistre: «Per completare l'informazione», osserva Draghi, «ieri l'Italia ha sottoscritto con altri 16 Paesi europei una dichiarazione comune in cui si esprime preoccupazione sugli articoli di legge in Ungheria che discriminano in base all'orientamento sessuale. Queste sono le dichiarazioni che oggi mi sento di fare, senza entrare ovviamente nel merito della discussione parlamentare. Come vedete», conclude Draghi, «il governo la sta seguendo ma questo è il momento del Parlamento, non è il momento del governo».
Una bella citazione sulle discriminazioni sessuali in Ungheria è quello che ci vuole per far cantare vittoria ai pasdaran del ddl Zan: Draghi la concede senza problemi, del resto l'uomo è perfettamente cosciente della variegata composizione della maggioranza che lo sostiene. Fatto sta che, al di là delle strumentalizzazioni politiche e propagandistiche, Draghi ieri ha invitato chiaramente il Parlamento a venire incontro alle richieste della Chiesa. Chi ha orecchie per udire, ha udito, su entrambe le sponde del Tevere.
Il Pd applaude, ma ora deve trattare
Se il destino del ddl Zan appare sempre più incerto, la giornata di ieri ha confermato che il rischio di una deflagrazione del Pd su questo tema è ora dietro l'angolo. E proprio le parole del premier Mario Draghi sulla laicità dello Stato e la primazia del Parlamento, alle quali tutti gli esponenti più in vista del Nazareno si sono aggrappati, potrebbero accelerare la resa dei conti interna.
Le giravolte del segretario Enrico Letta, seguite alla presa di posizione del Vaticano sulla libertà di insegnamento, hanno avuto l'effetto immediato di rafforzare le posizioni della parte di maggioranza che sostiene la necessità di un compromesso parlamentare e, soprattutto, di polarizzare le posizioni nel Pd. Dove la questione della legge sull'omofobia, ora, sta diventando il nuovo terreno di quello scontro tra le varie anime del partito al quale l'arrivo di Letta alla segreteria aveva provvisoriamente messo la sordina. Uno scontro che rischia di diventare esplosivo e che tiene conto anche di qualche ruggine pregressa, come nel caso di Monica Cirinnà, senatrice paladina dei diritti civili e madre della legge sulle unioni civili, non dimentica del fatto di essere stata «invitata» dal gruppo dirigente dem a ritirare la propria candidatura alle primarie a Roma, dove sarebbe stata una minaccia rilevante per il designato Roberto Gualtieri. È facile immaginare che la Cirinnà (che ha parlato di «entrata a gamba tesa del Vaticano» e ha definito «altissime e sagge» la frasi di Draghi) e gli altri parlamentari dell'ala più radical del Pd costituiranno uno sbarramento strenuo nei confronti di chi, come ad esempio gli ex renziani, hanno già fatto intendere di essere pronti a valutare una parziale revisione del testo in commissione. Allo stesso modo, all'interno del M5s, come testimoniano i toni usati dal presidente della Camera, Roberto Fico, che ha tuonato contro le «ingerenze» della Santa Sede, il ddl Zan potrebbe essere funzionale al risiko interno che sta accompagnando l'avvento di Giuseppe Conte al timone.
Ma visto che Mario Draghi in persona ha affermato in Aula che «ora è il momento del Parlamento», il punto è ora quello che accadrà in commissione Giustizia al termine delle audizioni disposte dal presidente leghista Andrea Ostellari, relatore della proposta alternativa per una legge anti omofobia, il quale, ieri, ha presieduto la capigruppo al Senato, nella quale i partiti giallorossi dovevano insistere per la calendarizzazione della legge.
La dislocazione delle forze in campo, dopo la nota del Vaticano, lascia comuqnue pensare che a Palazzo Madama difficilmente ci sarà una maggioranza per il testo uscito da Montecitorio. Letta, che ieri si è affrettato a dirsi di riconoscersi completamente in quanto detto da Draghi, è chiamato nei prossimi giorni a dire quale sarà la linea del suo partito: se cioè prevarrà il Letta che ha affermato di voler «affrontare i nodi» del testo evidenziati dal Vaticano, o quello «dell'avanti a tutti i costi» con il testo della Camera, con il rischio tangibile del binario morto.
Non a caso, Matteo Salvini continua a incalzarlo parlando di un «silenzio assordante» sulla proposta di incontro per arrivare a quel compromesso che Lega e Fi sponsorizzano, ma che è anche negli auspici di Italia viva, che ha parlato per bocca del capogruppo Davide Faraone del ministro Elena Bonetti, e che potrebbe ancora una volta trovarsi a fare l'ago della bilancia in Senato.
Ma c'è anche chi, come Fdi, torna al merito della questione sollevata dalla Santa Sede e chiede a Draghi di riferire più approfonditamente, sospendendo l'iter della legge in attesa di ulteriori chiarimenti.
Una volta le contraddizioni più plateali maturavano nel tempo, e poi, a un certo punto, esplodevano. Oggi semplicemente si verificano, senza neppure più lo stridore che dovrebbe produrre la vista di un 2+2 che fa cinque. Avviene così che, letteralmente nelle stesse ore, il deputato Alessandro Zan, al cui cognome è legato l'omonimo ddl in discussione alla commissione Giustizia del Senato, abbia scritto sui suoi social: «Il ddl Zan è stato approvato da un ramo del Parlamento a larga maggioranza, e l'iter non si è ancora concluso. Vanno ascoltate tutte le preoccupazioni e fugati tutti i dubbi, ma non ci può essere alcuna ingerenza estera nelle prerogative di un parlamento sovrano» (ore 16.52) e «Bene che l'Italia abbia firmato, insieme ad altri 13 Paesi europei, la dichiarazione di condanna verso l'approvazione in Ungheria della legge contro la comunità Lgbt+, un ottimo segnale da parte del governo. Non c'è spazio in Ue per odio e discriminazioni» (ore 20.58).
Nei 246 minuti tra le due uscite devono essere successe un sacco di cose, ma nessuna che permettesse all'onorevole di rilevare ostacoli alla razionale coesistenza delle due posizioni. A parziale discolpa di Zan, il deputato democratico è in ottima compagnia.
Il diktat mondiale che impone di fischiare fortissimo contro l'Ungheria di Orbán (lo stesso i cui voti furono necessari a eleggere la Commissione Ue che ora lo bastona) sta coprendo una incongruenza talmente clamorosa da passare inosservata. È totalmente lecito criticare la legge di Budapest che regolamenta l'educazione sessuale dei minori a scuola e il loro accesso a materiali di natura pornografica o sessuale ritenuta inappropriata. È perfino normale, in nome di una interpretazione soggettiva dei «valori europei» o dei Trattati sottoscritti, chiederne la modifica - cosa che anche l'Italia ha fatto. Ciò che pare ardito è gridare simultaneamente alla lesa sovranità del Parlamento se il Vaticano, cioè la controparte del nostro Paese in un Trattato di rango costituzionale, fa analoghe eccezioni preventive.
La pubblicazione, avvenuta ieri, del testo integrale della Nota verbale con cui la Santa Sede lamenta l'incompatibilità di alcune parti del ddl Zan con i Patti lateranensi è, a confronto della dichiarazione dei 17 Paesi contro l'Ungheria, un piccolo capolavoro di diritto. Laddove i censori di Orbán lamentano generiche «discriminazioni basate sull'orientamento sessuale, l'identità di genere e l'espressione», in contrasto con i «diritti fondamentali» derivanti dai «valori fondanti dell'Unione europea», la Segreteria di Stato rileva che gli articoli del ddl Zan «in cui si stabilisce la criminalizzazione delle condotte discriminatorie per motivi “fondati sul sesso, sul genere, sull'orientamento sessuale, sull'identità di genere" (articolo 5, ndr) avrebbero l'effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario», in particolare all'articolo 2, commi 1 e 3. Comunque la si pensi, è una missiva che denota una lettura del testo di legge discusso, cosa che nel caso ungherese è probabilmente non così scontata.
A proposito di stenti istituzionali, strappa un sorriso il fatto che Roberto Fico, terza carica dello Stato, senta la necessità di spiegare che «i parlamentari decidono in modo indipendente quello che vogliono votare»: lui che è espressione di un gruppo che i parlamentari li ha espulsi perché votavano quello che volevano votare. «Noi come Parlamento non accettiamo ingerenze. Il Parlamento è sovrano e tale rimane sempre», ha detto ancora il presidente della Camera. E neppure lui scorge alcuna contraddizione tra il contemporaneo rimbrotto a Orbán e il rifiuto del rimbrotto vaticano.
Forse ha ragione Fico, però. Nei giorni in cui la quasi totalità dell'opinione pubblica si commuove alle lacrime per l'approvazione da parte della Commissione Ue del Pnrr italiano, con tanto di pagelline che condizioneranno - quelle sì - governi e parlamenti nella spesa di denari nostri impiegati con criteri altrui, è più che normale gridare alla sovranità violata per una nota di quello stesso Vaticano che, finché si allinea alle pressioni internazionali su altri temi politico-culturali, ovviamente non commette alcuna ingerenza.
A riprova che la discussione in corso ha un grave problema di metodo prima ancora di entrare nelle pieghe del merito, ecco Marco Cappato (cui se non altro va riconosciuta coerenza rispetto alla Chiesa). L'esponente spiega che «la libertà di criticare una proposta di legge è indiscutibile. Farlo utilizzando il Concordato è invece grave. Una religione che agisce come uno Stato fa male alla stessa libertà religiosa». A parte il fatto che il Vaticano sarebbe uno Stato, e quindi è perfino normale che agisca come tale, la «logica» di Cappato implica che una critica sia fondata solo se ininfluente e non basata sul diritto. Per un seguace di Marco Pannella è bizzarro.
Sul dibattito scatenatosi sul ddl Zan, del resto, ragione e logica paiono ormai gioiosamente abbandonati. Una volta considerata una cosa straordinaria il fatto che un premier affermi che l'Italia non è uno Stato confessionale, poi vale tutto: l'ingerenza gradita è diritto in purezza, quella sgradita un mezzo attentato. Se il livello è questo, il Marchese del Grillo era almeno più onesto. Di sicuro più divertente.
Finalmente il Papa fa il Papa. Invece di parlare di condizionatori, cambiamenti climatici, materie plastiche, di vermi e insetti e financo di car sharing, Bergoglio per una volta interviene su una questione che riguarda da vicino i cattolici e la Chiesa stessa: il disegno di legge Zan. Quella del Pontefice non è un'enciclica e nemmeno una preghiera rivolta ai fedeli dalla finestra che si affaccia su piazza San Pietro. Si tratta al contrario di un atto ufficiale che Francesco ha autorizzato nei confronti dello Stato italiano: un ricorso alle norme che regolano i rapporti fra il Vaticano e la Repubblica. In pratica, per fermare la legge che vorrebbe punire con il carcere chi ha atteggiamenti ritenuti lesivi o discriminatori nei confronti degli omosessuali e del mondo Lgbt, istituendo una giornata contro la transfobia con tanto di educazione nelle scuole di ogni ordine e grado, la Santa Sede si appella ai Patti Lateranensi, cioè alle regole che fissano i rapporti tra lo Stato pontificio e quello italiano. Firmati nel febbraio del 1929 da Benito Mussolini e dal cardinale Pietro Gasparri, gli accordi misero fine al contenzioso seguito alla presa di Roma, a seguito della confisca da parte del Regno d'Italia dei possedimenti vaticani. Il trattato riconobbe la libertà di culto e la garanzia di alcuni privilegi agli ecclesiastici ed è recepito dalla Costituzione. Rivisto nel 1984 con la firma di un nuovo patto da parte di Bettino Craxi e del segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli, il cosiddetto Concordato è tuttora in vigore e Bergoglio intende farlo valere per bloccare il ddl Zan che tanto piace ai compagni e al mondo Lgbt.
I lettori della Verità naturalmente conoscono le ragioni che spingono il Papa a mettersi di traverso con una mossa tanto decisa. Semmai c'è da chiedersi perché il Pontefice abbia inteso farlo solo ora, lasciando che per mesi vescovi e prelati schiudessero la porta alle norme che imbavagliano la libertà di opinione su temi delicati come la famiglia, l'educazione sessuale, l'identità di genere. Da parte nostra ci saremmo aspettati reazioni ferme nei confronti di una legge che pretende di istituire la «giornata nazionale contro l'omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia» e impone che nelle scuole e nelle amministrazioni pubbliche si organizzino «cerimonie, incontri e altre iniziative di sensibilizzazione contro i pregiudizi omotransfobici». In pratica, secondo il disegno di legge appoggiato dal Pd e dalla sinistra nell'offerta formativa scolastica, che non prevede l'educazione sessuale, bisognerebbe inserire una giornata di educazione omosessuale, transessuale, bisessuale e così via, prevedendo iniziative di commemorazione sul modello della Giornata della memoria contro la persecuzione degli ebrei. Immaginiamo già i progetti, con dibattiti e proiezione di film «educativi» sul tema. E proprio come per le vittime del nazionalsocialismo, il ddl Zan, dal nome del deputato del Partito democratico che ne è il primo sottoscrittore, si propone di tutelare le vittime dell'omotransbifobia con un ufficio nazionale antidiscriminazioni, che avrà «il compito di prevenire e contrastare le discriminazioni legate all'orientamento sessuale e all'identità di genere».
Anche chi non ne sa niente capisce che se una legge del genere entrasse in vigore, chiunque osteggiasse la propaganda pro gender e le follie che spingono per il cambio di sesso degli adolescenti, rischierebbe seri guai, con condanne e multe. E a nulla vale la spiegazione che il diritto di critica sarà sempre possibile, perché all'articolo 4 del suddetto disegno di legge si sostiene sì che la libertà di espressione è garantita, ma purché non idonea a determinare il concreto pericolo di «atti discriminatori». E che cosa sono gli atti discriminatori? Chi stabilisce cosa è discriminatorio? Se in una scuola cattolica si insegna che la famiglia è composta da una mamma e un papà e non da un papà e un papà o da una mamma e una mamma, è un atto discriminatorio? E se un insegnante si rifiuta di celebrare la giornata pro gay, si può considerare un atto discriminatorio? E se un preside vieta a un ragazzo che si sente donna di recarsi a fare pipì nel bagno delle donne, è punibile con il carcere e potrebbe essere costretto a pagare una multa? E se un docente di educazione fisica - tanto per rimanere a un argomento che in questi giorni divide il mondo dello sport - non vuole far gareggiare con le sue studentesse uno studente che si è sottoposto alla terapia per cambiare sesso, che succede? Sì, perché la legge Zan non solo è scritta con i piedi, ma è anche uno strumento in mano ai gruppi pro gender che la possono interpretare a piacimento. Tuttavia, se a chiunque tutto ciò è chiaro, a vescovi e alti prelati con tendenza arcobaleno finora non lo era. E dunque il Papa ha mosso la diplomazia vaticana, facendo intervenire il cardinal Paul Richard Gallagher.
Chissà ora come la prenderà Enrico Letta, che appena diventato segretario del Pd ha sposato la lotta all'omofobia più di quella all'epidemia. S'inginocchierà al volere del Papa oppure si schiererà contro l'ingerenza vaticana? Una cosa è certa: prepariamoci a una guerra di religione. La religione gender contro la religione del buon senso.







