2022-11-10
Il Patto di stabilità corretto da Gentiloni resta una trappola
Paolo Gentiloni (Imagoeconomica)
La proposta di riforma, che non leva i vecchi paletti, va bocciata. Anche perché prevede l’incaprettamento per chi non si allinea.Hanno perfettamente ragione coloro che si sono affrettati a sostenere che la riforma del Patto di stabilità proposta da Paolo Gentiloni e dalla Commissione Ue non è una trappola. Infatti si tratta non di una semplice trappola ma di un autentico trappolone, di una gabbia capace di combinare la storicapropensione dell’Ue a produrre stagnazione (anziché crescita) e l’attitudine delle burocrazie bruxellesi all’arbitrio, alla discrezionalità, alla trattativa estenuante e - in ultima analisi - al bullismo nei confronti dei governi politicamente sgraditi. Per prima cosa, non facciamoci incantare dai lirici del gradualismo minimalista. È facile immaginare - infatti - che da oggi partirà una discussione volta a far credere agli italiani che la proposta Gentiloni sia una mediazione ragionevole, un compromesso accettabile. Già mi sembra di sentire commenti improntati al noto adagio secondo cui «la politica è l’arte del possibile», così come analisi di apparente buonsenso centrate sul «piuttosto che niente meglio piuttosto…». Non è così. Tanto per cominciare restano - come principio - le regole più assurde, quelle che non a caso erano state sterilizzate da tempo (nei fatti) e comunque erano state sospese durante l’emergenza pandemica e quella energetica: 3% (rapporto deficit/Pil), 60% (rapporto debito/Pil), cioè esattamente i vecchi contestatissimi paletti che, se si aggiunge quanto era previsto alla lettera nel Fiscal compact, avrebbero addirittura dovuto portare (per la quota eccedente rispetto al 60%) al taglio di un ventesimo del debito all’anno. Tradotto in soldoni: aumenti di tasse forzosi, o tagli di spesa forzosi, comunque un percorso a passi veloci verso la recessione. E allora dove sarebbero le «novità»? Bontà sua, l’Ue preparerebbe per ogni Paese un’ipotesi eufemisticamente detta di «aggiustamento» spalmata su quattro anni. A quel punto, il Paese presenterebbe delle controdeduzioni, e alla fine si arriverebbe all’adozione di un «percorso» che potrebbe essere allungato nel tempo fino a sette anni se il Paese si obbliga a mitiche «riforme».Non basta ancora questo palese incaprettamento? Ecco altre due squisitezze. La prima: si adotterebbe sistematicamente, come meccanismo sanzionatorio, come altalena premiale o punitiva, un meccanismo di condizionalità: non ti sei comportato bene? E allora ti sospendo i fondi. La seconda (quest’ultimo tocco di sadismo viene ammesso solo a mezza bocca e tramite funzionari): si facilita l’innesco di una procedura per debito eccessivo, il cui avvio diverrebbe perfino compatibile con un deficit al di sotto del 3%. Come dire: per quanti sacrifici tu faccia, questi non basteranno mai. Resta da capire con quale coraggio si continui a usare la parola «crescita» accanto a «stabilità» (la definizione resta infatti: «Patto di stabilità e crescita»): semmai, questa è un’autostrada verso la stagnazione o proprio verso la recessione. Intendiamoci bene: chi scrive non ha mai negato che l’Italia debba fare qualcosa di rilevante per ridurre il suo stock di debito, né che debba mettere mano a un ragionevole ma serio taglio degli sprechi. Ma attraverso quanto propone Bruxelles si rende drammaticamente impervia anche un’operazione pro-crescita volta a sforare con un forte taglio di tasse. In più si conferma e si aggrava un elemento di intollerabile asimmetria. Da molti anni (anche extra pandemia e crisi energetica) quelle regole erano applicate in modo incostante (gli ottimisti dicevano: «flessibile»). Il che ha portato alla solita distinzione tra figli e figliastri: l’Italia era quasi sempre bacchettata benché avesse sforato poche volte rispetto all’asticella del 3%, mentre la Francia veniva regolarmente «assolta» benché avesse scavalcato quello stesso limite del 3% per dieci anni consecutivi, dal 2007 al 2016, inclusi gli anni in cui al governo c’era Pierre Moscovici, che poi, una volta nominato commissario Ue, sarebbe diventato uno dei cerberi più scatenati contro l’Italia. Adesso ci si dice, come abbiamo visto, che la «grande novità» sarebbe l’idea di trattare a livello bilaterale tra Bruxelles e il singolo Stato. Ma si tratta della versione 2.0, cioè di un mero aggiornamento (con i peggioramenti descritti), di ciò che de facto già avviene da anni e che non ci è mai piaciuto: una trattativa estenuante, caso per caso, anno per anno, con i commissari Ue nei panni degli esaminatori e i governi nei panni degli scolari. Inutile far finta che non sia così: questo sistema continuerebbe a portare con sé enormi rischi di discrezionalità e arbitrarietà. A un governo «gradito» si praticherà un trattamento, mentre a uno «sgradito» - con ogni probabilità - sarà riservato un trattamento diverso. Non solo: come dimostra anche la recente vicenda dei migranti, il mix inevitabile di circostanze casuali e furbizie interessate fa sì che a un certo punto si aprano contemporaneamente più fronti, che dossier diversissimi finiscano sullo stesso tavolo nello stesso momento, trasformando il negoziato in una trattativa da suk, opaca, fatta di avvertimenti e di do ut des, di richieste di cedimento (su un punto) per ottenere concessioni (su un altro punto). Il tutto in mezzo a un gioco sapiente di attacchi mediatici e magari (il futuro può sempre ispirarsi ai «classici» del passato) di un nuovo utilizzo del manganello dello spread.Per queste ragioni, sarà bene che l’Italia sia determinata nel cercare alleanze per contrastare e modificare questo schema, e comunque non si faccia infilare al collo il solito cappio, ancora più insidioso rispetto al passato. Ci vogliono commissariare: è bene esserne consapevoli e reagire di conseguenza.