Il ministro degli Esteri: «Stiamo lavorando per riportare a casa lui e gli altri detenuti politici. L’altro giorno il nostro ambasciatore ha avuto la possibilità di incontrare Alberto Trentini e un altro italiano detenuto in Venezuela, e ha parlato con loro. Trentini è sì detenuto, ma è stato trovato in condizioni migliori rispetto all’ultima volta in cui era stato visto». Lo ha dichiarato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, parlando dell’attivista trattenuto in Venezuela, a margine dell’assemblea di Noi Moderati in corso a Roma. «La famiglia è stata informata – ha aggiunto – e questo dimostra che stiamo seguendo la vicenda con la massima attenzione. Il ministero degli Esteri, come tutto il governo, se ne occupa con grande scrupolo. Stiamo lavorando per riportarlo a casa. Non è un’impresa facile: basta guardare la situazione internazionale».
Usa contro i cartelli. Perché la nuova guerra di Trump rischia di diventare un conflitto senza fine
La scelta di Trump di classificare cartelli e bande latinoamericane come gruppi terroristici apre a un approccio militarizzato. Ma l’escalation in Messico e Venezuela, i rischi per i civili e le possibili ritorsioni negli Usa rendono lo scenario altamente instabile.
La decisione dell’amministrazione Trump di ridefinire i cartelli messicani, il Tren de Aragua venezuelano e varie bande latinoamericane come organizzazioni terroristiche straniere ha aperto una nuova fase nella politica di sicurezza degli Stati Uniti, trasformando una minaccia criminale in un nemico strategico da colpire con strumenti militari. È un’evoluzione radicale rispetto al modello che per decenni aveva lasciato alle forze dell’ordine federali la gestione del narcotraffico, con operazioni lente, collaborative, basate su indagini di lungo periodo e interventi chirurgici contro reti complesse.
Oggi Washington sembra invece orientata verso una vera campagna antiterrorismo guidata dall’esercito, segnata da attacchi già condotti in mare aperto, dall’uso di droni, dallo schieramento di F-35 e dalla crescente presenza di assetti militari nei Caraibi. L’impostazione militare rischia però di produrre una spirale di conseguenze difficilmente controllabili. I cartelli operano in territori urbani e rurali complessi, si mimetizzano tra la popolazione e dispongono di reti estese e resilienti, tali da sopravvivere a colpi anche molto duri dall’alto. Nessuna campagna aerea, nella storia recente, è mai riuscita a distruggere in modo definitivo né un’organizzazione terroristica né una rete criminale transnazionale.
La militarizzazione della lotta al narcotraffico aumenterà il rischio di vittime civili e di errori di targeting, fattori che hanno già compromesso operazioni contro Al-Qaeda o l’ISIS, alimentando sentimenti antiamericani e rafforzando i gruppi colpiti. Le modalità dell’amministrazione ricordano, per modalità e retorica, le fasi precedenti alle campagne in Afghanistan e Iraq: direttive segrete, ampliamento progressivo delle forze dispiegate, ridefinizione della minaccia a livello dottrinale e briefing al Congresso che parlano apertamente di «guerra ai cartelli». Anche il quadro dell’intelligence è stato riallineato: nella National Intelligence Threat Assessment del 2025 i gruppi criminali transnazionali superano persino Cina, Russia, Iran e Corea del Nord nella lista delle minacce prioritarie alla sicurezza nazionale. Se il Messico rappresenta il cuore del problema, il Venezuela appare come il teatro più rischioso. Nicolás Maduro sa che un’operazione antiterrorismo americana potrebbe trasformarsi rapidamente in un tentativo di cambio di regime, con conseguenze potenzialmente devastanti.
Le milizie civili che il governo ha iniziato a organizzare renderebbero qualunque intervento un conflitto urbano ad alta intensità, che costringerebbe gli Usa a passare da operazioni mirate a una presenza terrestre prolungata. Una volta caduto Maduro, gli Stati Uniti si troverebbero a gestire un Paese fragile, armato, impoverito e attraversato da gruppi criminali e paramilitari: uno scenario che ricorda, nelle sue dinamiche più profonde, le crisi irachene del dopo-invasione. Il rischio di «slittamento» verso una guerra irregolare di lunga durata è elevatissimo anche in Messico. Piccole operazioni delle forze speciali, inizialmente concepite come incursioni rapide, si trasformerebbero quasi inevitabilmente in raid più ampi, basi avanzate, perdite statunitensi, pressioni politiche interne e un’escalation progressiva. L’esperienza degli Usa negli ultimi vent’anni dimostra che le guerre irregolari richiedono competenze, tempo, risorse e un impegno politico che il Paese non sembra più disposto a sostenere. Ma forse il rischio più grave è quello della cosiddetta «escalation orizzontale»: la possibilità che i cartelli rispondano agli attacchi portando la violenza dentro gli Stati Uniti. Le loro reti sono presenti in decine di città americane e dispongono di capacità paramilitari, armi ed esplosivi. Per la prima volta nella storia moderna, un conflitto condotto fuori dai confini potrebbe avere ritorsioni dirette contro civili americani in luoghi pubblici, contro agenti federali, infrastrutture o obiettivi simbolici.
Questo scenario, per quanto non inevitabile, è considerato credibile dagli esperti e rappresenta uno dei principali argomenti contro un’operazione militare prolungata. Le conseguenze di secondo e terzo ordine sarebbero altrettanto pesanti: aumento del prezzo del petrolio per la paralisi venezuelana, peggioramento delle relazioni con il Messico, rischi per migliaia di aziende statunitensi presenti nel Paese, deviazione delle risorse necessarie per competere con la Cina, ulteriore frammentazione dei cartelli in gruppi più piccoli e violenti, esattamente come avvenuto in Colombia dopo la dissoluzione delle FARC. Il Soufan Center avverte che l’unica strategia sostenibile è rafforzare la cooperazione con il Messico e mantenere la lotta ai cartelli nel perimetro della legalità internazionale, sostenendo le forze dell’ordine, potenziando le capacità investigative e fornendo supporto tecnologico, logistico e di intelligence ai partner regionali. In Venezuela, dove non esiste un interlocutore legittimo, l’opzione più razionale rimane quella di intensificare le operazioni multinazionali di polizia aerea, terrestre e marittima, non un intervento armato diretto. La tesi centrale del rapporto è chiara: agire «perché bisogna fare qualcosa» non è una strategia, e una guerra contro i cartelli potrebbe trasformarsi nella prossima, costosa e insoddisfacente guerra irregolare degli Stati Uniti. Combattere i cartelli nel modo giusto, con partner affidabili, con aspettative realistiche e dentro i confini del diritto internazionale, rappresenta non solo la via più efficace, ma probabilmente l’unico modo per evitare che una crisi di sicurezza diventi una catastrofe geopolitica.
Donald Trump è sempre più intenzionato a rilanciare la Dottrina Monroe: il presidente americano punta infatti ad arginare l’influenza della Cina sull’Emisfero occidentale. È dunque anche in quest’ottica che, l’altro ieri, il capo del Pentagono, Pete Hegseth, ha annunciato un’operazione militare che riguarderà l’America Latina. «Il presidente Trump ha ordinato l’azione e il Dipartimento della Guerra sta dando seguito alle sue richieste. Oggi annuncio l’operazione Lancia del Sud», ha dichiarato.
«Questa missione difende la nostra patria, allontana i narcoterroristi dal nostro emisfero e protegge la nostra patria dalla droga che sta uccidendo il nostro popolo. L’Emisfero occidentale è il vicinato dell’America e noi lo proteggeremo», ha proseguito, rendendo noto che l’operazione avrà luogo sotto l’ombrello di Southcom: il comando militare statunitense responsabile della sicurezza in America Latina.
Nonostante la motivazione ufficiale sia la lotta al narcotraffico, è evidente che, con questa operazione, Washington mira a mettere ancor più sotto pressione il regime di Caracas, che è uno dei principali referenti di Pechino nell’Emisfero occidentale. Da settembre, il Pentagono ha del resto condotto una ventina di attacchi in area caraibica contro imbarcazioni accusate di condurre traffici di droga ai danni degli Stati Uniti: traffici in cui, secondo la Casa Bianca, il Venezuela sarebbe pesantemente coinvolto. Non solo. La Cbs ha rivelato che, mercoledì, il capo di stato maggiore congiunto statunitense, Dan Caine, e lo stesso Hegseth avrebbero sottoposto a Trump delle opzioni aggiornate per eventuali azioni militari da attuare direttamente sul territorio venezuelano. In tutto questo, pochi giorni fa, la portaerei statunitense Gerald Ford è entrata nell’area di controllo di Southcom, aggiungendosi alle navi da guerra che, nelle scorse settimane, il Pentagono aveva schierato al largo del Venezuela: Venezuela che, secondo quanto recentemente riferito dal Washington Post, si sarebbe rivolto a Cina, Russia e Iran per ottenere materiale bellico (soprattutto missili, sistemi radar e droni). «Basta guerre infinite. Basta guerre ingiuste. Basta Libia. Basta Afghanistan. Lunga vita alla pace», ha dichiarato Nicolas Maduro giovedì sera, poco prima che fosse annunciata l’operazione Lancia del Sud.
Sotto questo aspetto, è interessante notare come, sempre l’altro ieri, la Casa Bianca abbia annunciato alcuni accordi in materia commerciale con Argentina, Guatemala, El Salvador ed Ecuador: Paesi che, secondo un funzionario americano, riceveranno presto «un certo sgravio tariffario su determinati prodotti o merci». È evidente come anche questa mossa rientri fondamentalmente nella riedizione della Dottrina Monroe, portata avanti da Trump. Da una parte, il presidente americano sta mettendo militarmente sotto pressione il regime filocinese di Maduro, lanciando un monito ai Paesi latinoamericani che intrattengono strette relazioni con Pechino; dall’altra, la Casa Bianca tende la mano, dal punto di vista commerciale, ad alcune nazioni dell’area, proprio per arginare l’influenza economico-politica della Repubblica popolare.
Dal canto suo, il Dragone è ben conscio della strategia di Trump. E, pur di non perdere terreno in America Latina, sta cercando di usare Madrid come grimaldello. Mercoledì, Xi Jinping ha ricevuto a Pechino il re spagnolo, Filippo VI. E, nell’occasione, il presidente cinese ha detto che Cina e Spagna «dovrebbero ampliare gli investimenti bilaterali, creare più progetti epocali, sfruttare i loro punti di forza complementari ed esplorare congiuntamente mercati terzi come l’America Latina». Non è del resto un mistero che il premier iberico, Pedro Sanchez, abbia notevolmente rafforzato i rapporti di Madrid con Pechino. Si tratta di una situazione che irrita Washington. E Trump potrebbe non vedere di buon occhio un eventuale coordinamento tra Spagna e Cina in America Latina. Vale a tal proposito la pena di ricordare che la guerra ispano-americana del 1898 scoppiò all’interno della logica su cui poggiava la Dottrina Monroe. Tutto questo, senza trascurare che, da tempo, la Casa Bianca è ai ferri corti con Sanchez (basti pensare alla questione dell’Alleanza atlantica).
Insomma, la tensione continua a salire in America Latina. E Trump è chiamato a fare una scelta. Procederà con un regime change a Caracas o no? Se optasse per questa soluzione, infliggerebbe un duro colpo all’influenza di Pechino in loco ma si esporrebbe alle accuse sino-russe di essere un neocon travestito: il che lo danneggerebbe nel suo tentativo di ricucire i rapporti di Washington con il Sud Globale. Dall’altra parte, è difficile che il presidente americano, dopo la pressione militare, possa avviare una trattativa con Maduro, come ha fatto in altri scenari. Ricordiamo che Trump, alle presidenziali, ha vinto per tre volte in uno Stato cruciale, come la Florida: uno Stato che vanta un folto elettorale anticastrista e anti-Maduro, che l’inquilino della Casa Bianca non può permettersi di irritare.
L’operazione Southern Spear lanciata da Washington fa salire il rischio di escalation. Maduro mobilita 200.000 militari, denuncia provocazioni Usa e chiede l’intervento dell’Onu, mentre l’opposizione parla di arruolamenti forzati e fuga imminente del regime.
Nel Mar dei Caraibi la tensione fra Venezuela e Stati Uniti resta altissima e Washington, per bocca del suo Segretario alla Guerra Pete Hegseth, ha appena lanciato l’operazione Southern Spear. Questa nuova azione militare è stata voluta per colpire quelli che l’amministrazione Trump ha definito come i narco-terroristi del continente sudamericano ed ha il dichiarato obiettivo di difendere gli Stati Uniti dall’invasione di droga portata avanti da questi alleati di Maduro. Intanto è stata colpita la 21ª imbarcazione, accusata di trasportare droga verso il territorio statunitense, facendo arrivare a circa 80 il numero delle vittime.
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha ordinato alle forze armate di essere pronte ad un’eventuale invasione ed ha dispiegato oltre 200mila militari in tutti i luoghi chiave del suo paese. il ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez sta guidando personalmente questa mobilitazione generale orchestrata dalla Milizia Nazionale Bolivariana, i fedelissimi che stanno rastrellando Caracas e le principali città per arruolare nuove forze.
L’opposizione denuncia arruolamenti forzati anche fra i giovanissimi, soprattutto nelle baraccopoli intorno alla capitale, nel disperato tentativo di far credere che la cosiddetta «rivoluzione bolivariana», inventata dal predecessore di Maduro, Hugo Chavez, sia ancora in piedi. Proprio Maduro si è rivolto alla nazione dichiarando che il popolo venezuelano è pronto a combattere fino alla morte, ma allo stesso tempo ha lanciato un messaggio di pace nel continente proprio a Donald Trump.
Il presidente del Parlamento ha parlato di effetti devastanti ed ha accusato Washington di perseguire la forma massima di aggressione nella «vana speranza di un cambio di governo, scelto e voluto di cittadini». Caracas tramite il suo ambasciatore alle Nazioni Unite ha inviato una lettera al Segretario Generale António Guterres per chiedere una condanna esplicita delle azioni provocatorie statunitensi e il ritiro immediato delle forze Usa dai Caraibi.
Diversi media statunitensi hanno rivelato che il Tycoon americano sta pensando ad un’escalation con una vera operazione militare in Venezuela e nei primi incontri con i vertici militari sarebbe stata stilata anche una lista dei principali target da colpire come porti e aeroporti, ma soprattutto le sedi delle forze militari più fedeli a Maduro. Dal Pentagono non è arrivata nessuna conferma ufficiale e sembra che questo attacco non sia imminente, ma intanto in Venezuela sono arrivati da Mosca alcuni cargo con materiale strategico per rafforzare i sistemi di difesa anti-aerea Pantsir-S1 e batterie missilistiche Buk-M2E.
Dalle immagini satellitari si vede che l’area della capitale e le regioni di Apure e Cojedes, sedi delle forze maduriste, sono state fortemente rinforzate dopo che il presidente ha promulgato la legge sul Comando per la difesa integrale della nazione per la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale. In uno dei tanti discorsi alla televisione nazionale il leader venezuelano ha spiegato che vuole che le forze armate proteggano tutte le infrastrutture essenziali.
Nel piano presentato dal suo fedelissimo ministro della Difesa l’esercito, la polizia ed anche i paramilitari dovranno essere pronti ad una resistenza prolungata, trasformando la guerra in guerriglia. Una forza di resistenza che dovrebbe rendere impossibile governare il paese colpendo tutti i suoi punti nevralgici e generando il caos.
Una prospettiva evidentemente propagandistica perché come racconta la leader dell’opposizione Delsa Solorzano «nessuno è disposto a combattere per Maduro, tranne i suoi complici nel crimine. Noi siamo pronti ad una transizione ordinata, pacifica e che riporti il Venezuela nel posto che merita, dopo anni di buio e terrore.»
Una resistenza in cui non sembra davvero credere nessuno perché Nicolas Maduro, la sua famiglia e diversi membri del suo governo, avrebbero un piano di fuga nella vicina Cuba per poi probabilmente raggiungere Mosca come ha già fatto l’ex presidente siriano Assad.
Intanto il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha espresso preoccupazione per i cittadini italiani detenuti nelle carceri del Paese, sottolineando l’impegno della Farnesina per scarcerarli al più presto, compreso Alberto Trentini, arrestato oltre un anno fa.
Sono ormai diversi giorni che nella parte dell’aeroporto Simon Bolivar di Caracas adibita al traffico militare atterrano aerei di una compagnia russa sotto sanzioni internazionali perché accusata di essere sotto controllo da parte dell’ex Wagner Group. Alcune decine di aerei cargo hanno scaricato materiale top secret, gestito direttamente dai servizi segreti di Nicolas Maduro. Secondo alcuni membri dell’opposizione nelle casse potrebbero esserci armi e probabilmente sistemi di difesa nel caso di un eventuale attacco statunitense. A conferma di questi movimenti sospetti nelle notti venezuelane il Washington Post ha svelato che il presidente venezuelano ha personalmente richiesto a Vladimir Putin di rifornirlo di missili, radar e aerei, ma ufficialmente Mosca si è limitata ad osservare con preoccupazione la possibile escalation nel Mar dei Caraibi. Le Compagnie Militari Private (Pmc) russe hanno però da sempre una certa libertà d’azione e molto spesso hanno lavorato con governi sotto sanzioni sia in Africa che in America meridionale. Donald Trump ha pubblicamente negato un intervento diretto in Venezuela, almeno per il momento, ma comunque ribadito che Maduro ha i giorni contati. Al largo delle coste venezuelane incrociano da tempo diverse navi di Washington. Il naviglio guidato dalla portaerei intitolata all’ex presidente General Ford, vede altre tre navi da guerra ed un sottomarino per un totale di almeno 8.000 uomini a bordo. Tutto mentre uno stormo di bombardieri B-52 e B-1 sorvolavano le coste venezuelane. Accanto a questo imponente dispiegamento, Washington ha colpito almeno 15 imbarcazioni, a suo dire cariche di droghe, partite dalle coste del Venezuela, provocando una settantina di vittime. Sulla testa di Nicolas Maduro e del suo vice campeggiano taglie da 50 milioni di dollari e il segretario di Stato americano Marco Rubio lo ha più volte accusato di essere il vero capo del Tren de Aragua, il più potente cartello della droga del Venezuela.
Questi raid contro imbarcazioni non meglio identificate sono stati condannati da diversi leader regionali, compreso il presidente della Colombia Gustavo Petro, anche lui bollato da Donald Trump come un pericoloso narcotrafficante. Il presidente colombiano ha accusato il governo americano di omicidio di alcuni innocenti pescatori e violazione della sovranità nelle acque territoriali di Colombia e Venezuela. Intanto secondo l’agenzia Reuters l’esercito statunitense da alcuni giorni sta ammodernando l’ex base navale dei tempi della Guerra Fredda, ormai abbandonata, di Porto Rico, una mossa che potrebbe far pensare ai preparativi per operazioni militari prolungate proprio contro Caracas.
Il «riscaldamento» delle acque ha messo in agitazione anche le isole di Trinidad e Tobago che hanno messo il suo apparato militare in massima allerta e hanno ordinato alle truppe di rientrare nelle caserme. Il ministero della Difesa delle isole caraibiche ha ordinato che la Trinidad and Tobago Defence Force sia pronta a qualsiasi evenienza. Anche le forze di polizia e di pronto intervento di Trinidad e Tobago sono state coinvolte in questa fase di estrema attenzione. Se i vicini geografici di Maduro si stanno organizzando, i vicini politici sembrano invece molto distanti dalle vicende venezuelane. Mosca ufficialmente ha respinto la sua richiesta di armi e la Cina non vuole essere coinvolta in questa complicata situazione. Anche l’Iran, storico alleato di Caracas, non sembra intenzionato a farsi tracimare in un conflitto con gli Stati Uniti, a dimostrazione di una situazione geopolitica molto avversa a Nicolas Maduro, che ieri ha dichiarato: «La nostra democrazia è la più avanzata del pianeta. Sì, siamo un popolo istruito, colto, patriottico, coraggioso e consapevole dei propri diritti. Niente e nessuno ci toglierà l'opportunità di vivere e di essere parte del “Secolo dei Popoli”». Per il Cremlino resta sempre il braccio ufficioso dell’ex Wagner Group, grazie al quale in passato è riuscito a fare affari anche con chi negava di avere rapporti ufficiali. La numerosa comunità italiana del Venezuela è sempre stata un elemento portante dell’economia del paese sudamericano ed oggi è quasi totalmente schierata dalla parte dell’opposizione al governo madurista e proprio per questo motivo il ministro degli Esteri Antonio Tajani sta monitorando con estrema attenzione lo sviluppo degli eventi.







