2025-11-24
Usa contro i cartelli. Perché la nuova guerra di Trump rischia di diventare un conflitto senza fine
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Il Corpo dei Marines degli Stati Uniti, Marine Fighter Attack Squadron 225, lavora all'aeroporto José Aponte de la Torre, ex base navale di Roosevelt Roads, a Ceiba, Porto Rico (Getty Images)
La scelta di Trump di classificare cartelli e bande latinoamericane come gruppi terroristici apre a un approccio militarizzato. Ma l’escalation in Messico e Venezuela, i rischi per i civili e le possibili ritorsioni negli Usa rendono lo scenario altamente instabile.La decisione dell’amministrazione Trump di ridefinire i cartelli messicani, il Tren de Aragua venezuelano e varie bande latinoamericane come organizzazioni terroristiche straniere ha aperto una nuova fase nella politica di sicurezza degli Stati Uniti, trasformando una minaccia criminale in un nemico strategico da colpire con strumenti militari. È un’evoluzione radicale rispetto al modello che per decenni aveva lasciato alle forze dell’ordine federali la gestione del narcotraffico, con operazioni lente, collaborative, basate su indagini di lungo periodo e interventi chirurgici contro reti complesse.Oggi Washington sembra invece orientata verso una vera campagna antiterrorismo guidata dall’esercito, segnata da attacchi già condotti in mare aperto, dall’uso di droni, dallo schieramento di F-35 e dalla crescente presenza di assetti militari nei Caraibi. L’impostazione militare rischia però di produrre una spirale di conseguenze difficilmente controllabili. I cartelli operano in territori urbani e rurali complessi, si mimetizzano tra la popolazione e dispongono di reti estese e resilienti, tali da sopravvivere a colpi anche molto duri dall’alto. Nessuna campagna aerea, nella storia recente, è mai riuscita a distruggere in modo definitivo né un’organizzazione terroristica né una rete criminale transnazionale.La militarizzazione della lotta al narcotraffico aumenterà il rischio di vittime civili e di errori di targeting, fattori che hanno già compromesso operazioni contro Al-Qaeda o l’ISIS, alimentando sentimenti antiamericani e rafforzando i gruppi colpiti. Le modalità dell’amministrazione ricordano, per modalità e retorica, le fasi precedenti alle campagne in Afghanistan e Iraq: direttive segrete, ampliamento progressivo delle forze dispiegate, ridefinizione della minaccia a livello dottrinale e briefing al Congresso che parlano apertamente di «guerra ai cartelli». Anche il quadro dell’intelligence è stato riallineato: nella National Intelligence Threat Assessment del 2025 i gruppi criminali transnazionali superano persino Cina, Russia, Iran e Corea del Nord nella lista delle minacce prioritarie alla sicurezza nazionale. Se il Messico rappresenta il cuore del problema, il Venezuela appare come il teatro più rischioso. Nicolás Maduro sa che un’operazione antiterrorismo americana potrebbe trasformarsi rapidamente in un tentativo di cambio di regime, con conseguenze potenzialmente devastanti.Le milizie civili che il governo ha iniziato a organizzare renderebbero qualunque intervento un conflitto urbano ad alta intensità, che costringerebbe gli Usa a passare da operazioni mirate a una presenza terrestre prolungata. Una volta caduto Maduro, gli Stati Uniti si troverebbero a gestire un Paese fragile, armato, impoverito e attraversato da gruppi criminali e paramilitari: uno scenario che ricorda, nelle sue dinamiche più profonde, le crisi irachene del dopo-invasione. Il rischio di «slittamento» verso una guerra irregolare di lunga durata è elevatissimo anche in Messico. Piccole operazioni delle forze speciali, inizialmente concepite come incursioni rapide, si trasformerebbero quasi inevitabilmente in raid più ampi, basi avanzate, perdite statunitensi, pressioni politiche interne e un’escalation progressiva. L’esperienza degli Usa negli ultimi vent’anni dimostra che le guerre irregolari richiedono competenze, tempo, risorse e un impegno politico che il Paese non sembra più disposto a sostenere. Ma forse il rischio più grave è quello della cosiddetta «escalation orizzontale»: la possibilità che i cartelli rispondano agli attacchi portando la violenza dentro gli Stati Uniti. Le loro reti sono presenti in decine di città americane e dispongono di capacità paramilitari, armi ed esplosivi. Per la prima volta nella storia moderna, un conflitto condotto fuori dai confini potrebbe avere ritorsioni dirette contro civili americani in luoghi pubblici, contro agenti federali, infrastrutture o obiettivi simbolici.Questo scenario, per quanto non inevitabile, è considerato credibile dagli esperti e rappresenta uno dei principali argomenti contro un’operazione militare prolungata. Le conseguenze di secondo e terzo ordine sarebbero altrettanto pesanti: aumento del prezzo del petrolio per la paralisi venezuelana, peggioramento delle relazioni con il Messico, rischi per migliaia di aziende statunitensi presenti nel Paese, deviazione delle risorse necessarie per competere con la Cina, ulteriore frammentazione dei cartelli in gruppi più piccoli e violenti, esattamente come avvenuto in Colombia dopo la dissoluzione delle FARC. Il Soufan Center avverte che l’unica strategia sostenibile è rafforzare la cooperazione con il Messico e mantenere la lotta ai cartelli nel perimetro della legalità internazionale, sostenendo le forze dell’ordine, potenziando le capacità investigative e fornendo supporto tecnologico, logistico e di intelligence ai partner regionali. In Venezuela, dove non esiste un interlocutore legittimo, l’opzione più razionale rimane quella di intensificare le operazioni multinazionali di polizia aerea, terrestre e marittima, non un intervento armato diretto. La tesi centrale del rapporto è chiara: agire «perché bisogna fare qualcosa» non è una strategia, e una guerra contro i cartelli potrebbe trasformarsi nella prossima, costosa e insoddisfacente guerra irregolare degli Stati Uniti. Combattere i cartelli nel modo giusto, con partner affidabili, con aspettative realistiche e dentro i confini del diritto internazionale, rappresenta non solo la via più efficace, ma probabilmente l’unico modo per evitare che una crisi di sicurezza diventi una catastrofe geopolitica.
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