Luca Zaia, ex governatore del Veneto, lo scorso giovedì ha aperto la prima seduta del Consiglio regionale.
«Alle 9.30 spaccate».
Ha sfoderato piglio asburgico.
«Il popolo guarda e giudica. Abbiamo grandi aspettative. In aula si sono sentiti interventi alti e nessuna tromboneria».
È stato inflessibile con i colleghi.
«Il mio compito è dirigere in modo super partes, senza sforare».
Ha imposto il voto per alzata di mano.
«Sono un uomo del digitale. Amo le nuove tecnologie. Devono funzionare, però. Allora, ho detto: “Spegniamo i computer. Non perdiamo altro tempo”».
Urge velocizzare.
«Su quattro ore, alla fine abbiamo splafonato di qualche minuto. Sono un manager e ottimizzo il processo. Cerco di far bene il nuovo mestiere».
Dopo tre legislature da presidente.
«Ci siamo impegnati con un bel programma, in continuità con i miei quindici anni e mezzo. Bisogna fare le leggi, per dar modo alla giunta di essere operativa».
Pochi credono che un fuoriclasse come Zaia rimarrà a lungo a Palazzo Ferro Fini.
«Cerco di prendermi poco sul serio. Occorre relativizzare quello che succede. Dopo la pioggia, arriva sempre il sereno».
Fuor di metafora?
«Ogni nuovo percorso può diventare un’opportunità. Ce l’ho nel sangue: qualsiasi roba, anche la più piccola, devo farla al meglio. Non sono uno di quelli che sta lì, a sbattere la testa contro il muro. Citando il titolo di un mio libro: I pessimisti non fanno fortuna. Dopodiché, ovviamente mi guardo intorno».
L’odierno ruolo potrebbe essere un buon allenamento per diventare presidente della Camera o del Senato?
«A ‘sto punto, fatto trenta facciamo trentuno: aggiungiamoli a sindaco di Venezia, presidente dell’Eni, parlamentare e futuro ministro. Ho sei possibilità, allora. Grasso che cola, eh».
Snoccioliamo le singole ipotesi.
«Ma no, lasciatemi prendere fiato. Sono stati anni impegnativi. L’acqua alta a Venezia, la grande alluvione, un terremoto nel Polesine, il Covid».
E dopo aver rifiatato?
«Restano tutte possibilità di cui si comincerà a discutere tra marzo e maggio».
Nell’attesa, avrà tempo da dedicare alla Lega.
«Sono un militante storico, nel partito più vecchio del Parlamento. Le nostre battaglie rimangono epocali. Come quella di Salvini con Open Arms».
È stato appena assolto dall’accusa di aver impedito lo sbarco della Ong spagnola.
«Matteo ha dato voce a tutti quei cittadini che si ritrovano assediati nelle loro città, per colpa dell’accoglienza senza se e senza ma. Non significa mancanza di compassione o solidarietà. Ma quello è un modello sbagliatissimo, che è stato portato avanti per anni».
Si continua a parlare di un nuovo Carroccio ispirato al modello tedesco, dove l’identitaria Csu bavarese è federata con i conservatori della Cdu.
«Non è certo una novità. Ne avevo già parlato anni fa con Salvini. E l’ho rifatto, recentemente, a Pontida. A ragion venuta: l’autonomia nasce con me, in Veneto».
Quindi?
«Dico semplicemente questo: ci sono due Italie. Il fallimento del modello centralista, nato il primo gennaio del 1948, è evidente. Trovo immorale che un bambino abbia un futuro diverso, se nasce a Milano piuttosto che a Crotone. O che ci siano ancora cittadini costretti a far le valigie per andare negli ospedali del Nord».
La Lega dovrebbe adeguarsi?
«Questo Paese, volente o nolente, cambierà. Così come i partiti: le istanze del militante del Pd di Campione d’Italia sono diverse da quelle del militante di Canicattì. Tutti indosseranno una veste più federale. Sarà inevitabile. Non possiamo riempirci la bocca di nazione e Costituzione, senza prima riconoscere l’ovvio: c’è una questione meridionale che non si può risolvere con l’assistenzialismo».
I governatori del Carroccio sollevano pure la «questione settentrionale».
«Dobbiamo smettere di pensare che sia da egoisti parlarne. Le quattro regioni del Nord guidate dalla Lega hanno un residuo fiscale attivo. Bisogna ascoltarle».
Tanti nel partito la vorrebbero referente per il Nord.
«Sono temi da affrontare, eventualmente, in un congresso. E comunque, non mettono in discussione la figura del segretario».
Gli ex colleghi sono venuti a omaggiarla dopo il trionfo. Tifano per «il Doge».
«Con loro, conservo un rapporto straordinario. Come Salvini sa benissimo, la Lega ha la fortuna di avere una squadra di governatori eccezionali, amati dal popolo. I nostri amministratori sono il vero patrimonio del partito. Lo spartiacque tra movimento di protesta e proposta furono proprio i nostri sindaci. Ci hanno permesso di crescere e prendere un sacco di consensi. Penso innanzitutto a Gentilini».
Lo «sceriffo» di Treviso.
«C’è una Lega prima Gentilini e una Lega dopo Gentilini. Quelli come lui ci hanno sdoganato come forza di governo. Anche i grillini riempivano le piazze, dicendo che avrebbero fatto sfracelli. Una volta messi alla prova, li hanno cacciati. Noi, invece, siamo qui da trent’anni».
Dopo il veto sulla sua lista civica, a metà ottobre, lei è sbottato: «Se sono un problema, vedrò di diventarlo davvero».
«Poi mi sono candidato e abbiamo preso il 36%, stravolgendo ogni sondaggio che ci dava punto a punto con Fratelli d’Italia».
Era un messaggio all’alleato?
«La campagna elettorale è finita. Ognuno ha fatto la sua corsa. Loro, in consiglio regionale, dimostrano grande lealtà. E considero Giorgia Meloni il migliore presidente del Consiglio possibile. Sta dando al Paese un prestigio internazionale che non si vedeva dai tempi di Berlusconi. Ha investito nella politica estera, in un mondo sempre più piccolo. Una scelta intelligente».
L’opposizione eccepisce.
«Se avessimo lo spread a 200 punti, sarebbero scesi in piazza con i cartelli. Invece, il differenziale è ai minimi storici. Non si tratta di un primato teorico. Vuol dire pagare meno il debito pubblico e avere risorse da investire per gli italiani, a cominciare dalla sanità».
Alle ultime regionali ha preso oltre 200.000 voti. Un record assoluto. Le piacerebbe cimentarsi in un’elezione nazionale?
«Non anticipo nulla, per ora sono concentrato sul mio nuovo incarico. Questo non è un parcheggio. Ho ancora un elenco interminabile di cittadini che vogliono incontrarmi».
Cosa le chiedono?
«Mi raccontano pure della lite con il vicino. Come dico a tutti: non ho la sfera di cristallo, ma ascolto e cerco di consigliare».
Il suo vittorioso slogan è stato: «Dopo Zaia, scrivi Zaia».
«Ho vissuto in mezzo al popolo per oltre quindici anni, prendendo decisioni non sempre facili: pandemie, catastrofi, alluvioni... Ma io sono un uomo da pantano. È il terreno in cui mi muovo meglio».
Il ricordo più lieto, invece?
«Aver portato le Olimpiadi invernali in Veneto. La candidatura di Cortina l’ho inventata io».
Presenzierà o guarderà da lontano?
«Qualche ora fa mi hanno invitato alla cerimonia d’apertura a Milano, il 6 febbraio».
Ora anche le sue strade potrebbero portare a Roma. Proprio mentre Attilio Fontana avverte sul rischio della politica «all’amatriciana».
«Quella politica l’ho già conosciuta da giovane, quando fui chiamato all’Agricoltura. Il presidente Napolitano mi chiese: “Che ministro sarà?”. Io risposi: “Con le scarpe sporche di terra”. In quegli anni non partecipai mai a un convegno, giravo le aziende e incontravo i contadini. Alla fine, tutto si riduce a un problema di interpretazione».
Tranquillizziamo il governatore lombardo.
«A Roma l’autoreferenzialità diventa un pericolo reale, ma non c’è politica senza rapporto con il popolo».
Non si strugge per il potere?
«Ho sempre vissuto con spirito di servizio. Anche la parola ministro vuol dire servitore. Ripartiamo dall’etimologia».
Intanto, presiede il consiglio veneto.
«Mai si dovrà dire che l’ho gestito male».
Nel frattempo?
«Riordino le idee».
In che modo?
«Cammino. Faccio sette chilometri al giorno».
Medita sul suo luminoso domani?
«Seneca scrive che non è la vita a essere breve. È l'uomo che l’accorcia, sperando nel futuro senza vivere il presente».
A cosa pensa, allora?
«Sono figlio di un meccanico e una casalinga. Penso a quelli che non arrivano a fine mese».
La risposta alla scoppiettante Atreju è stata una grigia assemblea piddina
Mario Mantovani: «Ho pagato le mie idee con un arresto ingiusto. Un giudice si è scusato»
Mario Mantovani, eurodeputato di Fratelli d’Italia, adesso lei è ufficiosamente una vittima della malagiustizia. Cos’è successo?
«Durante un dibattito, il presidente del Tribunale di Milano, Fabio Roia, mi ha chiesto scusa».
«L’ho fatto per solidarietà umana verso una persona che ha ingiustamente sofferto una vicenda dalla quale poi è stato totalmente assolto», ha spiegato.
«Sono state parole importanti».
È sorpreso?
«Sì, non lo fa mai nessuno. Se chiedessero scusa tutti i magistrati che sbagliano, avremmo un’Italia migliore».
Lo considera un risarcimento morale?
«Anche quello economico non mi sarebbe dispiaciuto. L’avrei usato per fare del bene».
La sua carriera politica scorreva magnificamente.
«Fino al 13 ottobre 2015. Erano le sei di mattina. Dieci finanzieri suonarono il campanello. Sembrava la scena di un film sui narcos. In un attimo, la mia vita crollò. Uscii di casa. Fuori c’erano già i giornalisti e le telecamere».
Ex senatore e sottosegretario alle Infrastrutture, allora era vicepresidente della Lombardia. Le contestarono corruzione, concussione e turbativa d’asta.
«Non capivo. Non riuscivo a rendermi conto. Guardavo quel mandato d’arresto sbigottito: “Ma perché si sono inventati queste accuse?” dissi. E loro: “Faccia la borsa e ci segua”. Mi ritrovai a San Vittore».
Chi erano i suoi compagni di cella?
«Uno scontava cinque omicidi, l’altro una condanna per droga. Furono gentili. C’erano i letti i castello: mi chiesero se volevo dormire sopra o sotto».
Quarantuno giorni di reclusione.
«Li passai leggendo e rileggendo le quattrocento pagine dell’ordinanza, giorno e notte. Continuavo a interrogarmi su come avessero potuto interpretare con tanta malafede tutte quelle banali telefonate».
Quante?
«Trecentomila. Mi intercettavano ormai da quattro anni. Avevano cominciato mentre ero coordinatore regionale del Popolo delle libertà e organizzavo le manifestazioni in difesa di Berlusconi, su sua richiesta».
Con il megafono in mano, denunciava «l’uso strumentale della giustizia».
«Riuscivo a portare davanti al tribunale di Milano anche mille persone. Arrivavano pullman pieni di gente per protestare».
L’inchiesta le sembrò una rappresaglia?
«Le intercettazioni scattarono pochi giorni dopo la fine di quelle manifestazioni».
Non fu una coincidenza?
«Viene da pensar male. Di sicuro, la vicinanza a Berlusconi l’ho pagata cara».
Qual era il suo assillo in carcere?
«La famiglia. Per dieci giorni non ho potuto parlare con nessuno. Cosa pensavano mia moglie, i miei figli, i miei nipoti? Non avevo pace».
I giornali la chiamavano il «faraone di Arconate».
«Ero solo un sindaco amato e rispettato».
Veniva definito ricchissimo e spregiudicato.
«Vengo da una famiglia di contadini. Mia madre mi lavava nella stalla, la parte calda della casa. E usavo l’acqua per ultimo, visto che ero il più piccolo di quattro figli. Sono stato l’unico che ha avuto la possibilità di studiare: prima alle superiori, poi all’università. Ho insegnato per 24 anni, dopo ho avviato una piccola impresa e ho cominciato a fare politica».
Berlusconi commentò il suo arresto?
«Guardavamo la piccola televisione di un compagno di cella. Spuntò al telegiornale e disse: “Mantovani è una persona perbene”».
Dopo altri 142 giorni ai domiciliari, tornò in consiglio regionale. I 5 stelle, per protesta, occuparono l’aula.
«Vennero con i fischietti e le arance in mano. Urlavano come ossessi. Gente disumana. Me li ricordo tutti: nome, cognome, indirizzo».
E i suoi compagni di partito?
«Molti ne approfittarono per prendere le distanze. Fui abbandonato da Forza Italia. Solo Berlusconi mi chiese di ricandidarmi nel 2018. Ma ero sotto processo: rifiutai. Lui insistette: “Devi tornare a Roma. Ho bisogno di avere accanto amici che portano nella carne le ferite della malagiustizia”».
Alla fine, però, non venne candidato.
«Il suo cerchio magico non mi mise in lista. Fui escluso».
Nel 2019, in primo grado, prese cinque anni e sei mesi.
«Purtroppo, non fu una sorpresa. Il giudice era lo stesso che aveva condannato Berlusconi».
Seguì il processo?
«Con una rabbia indescrivibile. Vedevo i testimoni sfilare, seguivo gli interrogatori, ascoltavo le domande. L’obiettivo era evidente. E veniva pure palesato con disinvoltura. Mi ripetevo: “Perché interpretano falsamente cose che hanno spiegazioni tanto banali?”».
Ad esempio?
«L’intercettazione che veniva reputata la prova regina. Il mio architetto parlava con un suo amico: “Il capo mi sta girando due lavori, per la prima volta nella sua vita”, raccontava. Loro si convinsero che aveva detto “villa”, invece che “vita”».
Era l’accusa principale: una ristrutturazione privata in cambio di lavori pubblici.
«Che non ebbe mai, tra l’altro. Solo nel processo d’appello, finalmente, l’ennesima relazione tecnica rese ancora più lampante l’intercettazione. Ricordo ancora il giudice che, dopo avere riascoltato la telefonata in aula, si voltò verso il procuratore generale: “Ha sentito? Ha detto vita”».
Venne assolto nel 2022. Intanto, s’era iscritto a Fratelli d’Italia.
«Spero che la mia storia sia servita a far riflettere sulla cattiva giustizia».
Sente questa riforma anche un po’ sua?
«È di Giorgia Meloni. Posso aver dato un piccolo contributo, forse».
Avete parlato della vicenda?
«Mi è sempre stata molto vicina. È una donna di grande valore, sia politico che umano».
Si è ricandidato a Bruxelles, nel 2024.
«Ho ripreso i miei 40.000 voti, quelli di una volta. Sono un sopravvissuto».
Ha chiesto un risarcimento di mezzo milione di euro per ingiusta detenzione.
«Che motivo c’era di mettermi in carcere? Non esisteva pericolo di fuga e nemmeno di inquinamento delle prove. E come potevo reiterare ipotetici reati avvenuti dieci anni prima? Hanno fatto una cosa spaventosa. È stato un assassinio politico».
La Corte d’appello, in quella causa, ha citato il refuso che lei scovò nell’ordinanza mentre era detenuto.
«Alla fine di un taglia e incolla delle accuse c’era scritto, tra parentesi: “Vedi se modificare questa parte”».
Sarebbe stato un suggerimento del gip al pm?
«Il dubbio viene. Ma hanno chiarito che non era la sede opportuna per discuterne».
Comunque le hanno negato l’indennizzo, tacciandola anche di arroganza.
«Pur di non ammettere l’ingiusta detenzione, si sono appellati a quisquilie».
E adesso?
«Andrò avanti».
La riforma prevede l’Alta corte, al posto della sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, per valutare i supposti illeciti dei magistrati.
«Bisognerà anche arrivare alla responsabilità civile. O quantomeno individuare provvedimenti disciplinari che non siano sanzioni ridicole: ad esempio, la perdita di qualche mese di anzianità. Chi ha sbagliato in maniera fragorosa, va mandato in archivio a ordinare fascicoli».
Come andrà il referendum?
«Vinceremo. Per la maggioranza degli italiani, la magistratura sbaglia. E spesso non si tratta di piccoli errori, ma di sbagli devastanti. Dietro ci sono famiglie distrutte, lacrime, vergogna, fallimenti e suicidi».
Ai tempi dell’inchiesta, veniva considerato un aspirante governatore. Vorrebbe ricandidarsi per il Pirellone?
«Deciderà Giorgia. Io sono a disposizione del partito».
Non si sottrae.
«Diciamo che sarei preparato. Conosco bene la regione. Questo lo sanno tutti. Ero il vicepresidente, ma allora fui costretto alle dimissioni».
La sua carriera politica è ripresa.
«Ho perso sette anni. Quelli non me li ridarà indietro nessuno».
Ha ricominciato a organizzare l’indimenticabile festa d’estate a Villa Clerici. La Russa e Santanchè non mancano mai.
«Assieme a tantissimi altri parlamentari. Ignazio e Daniela sono amici veri».
Cos’ha detto davanti ai politici accorsi?
«Che la vita continua. Spero che la mia storia dia un po’ di speranza a chi vive drammi del genere. Non bisogna abbattersi. Oppure, peggio ancora, patteggiare. Comunque, vale la pena di continuare a combattere. La libertà non è solo un diritto, ma un vessillo da sventolare sempre».
Riassuma l’insegnamento.
«Per la quarta volta, l’anno scorso sono stato rieletto sindaco di Arconate con la mia lista civica. Si chiama Forza e Coraggio».





