2025-11-02
La Schlein schiera (e spacca) il Pd per non farsi sorpassare da Conte
Matteo Renzi e Elly Schlein (Ansa)
Il segretario dem schiaccia il suo partito sulle posizioni dei duri e puri dell’Anm per mero calcolo politico. L’ala riformista è favorevole a separare le carriere. Matteo Renzi lo era ma oggi prevale l’odio contro la Meloni.Era il 2014 e Matteo Renzi aveva da poco soffiato la poltrona a Letta, insediandosi a Palazzo Chigi al posto di «Enrico stai sereno». Da presidente del Consiglio mi invitò a fare colazione con lui, per fare due chiacchiere con l’impegno che non le avrei trasformate in un’intervista. E mentre i commessi servivano spremute d’arancia, caffè e brioche, il neo premier cominciò a elencarmi le riforme che aveva in testa. «Ne faremo una al mese. Prima il lavoro, poi il fisco, la scuola e la giustizia», mi spiegò. L’avevo conosciuto quando era stato eletto sindaco di Firenze, alla presentazione del libro di un collega: io, lui e Carlo Freccero a commentare in una libreria del capoluogo toscano il futuro della tv. Da subito mi sembrò un tipo sveglio e tosto così, quando cominciò a pestare i piedi a Massimo D’Alema e a Pier Luigi Bersani per avere più spazio nel Pd, lo invitai alla trasmissione che all’epoca conducevo su Canale 5. In altre parole, nel 2014 avevo con lui una certa confidenza. «Ma che riforma della giustizia farai?», chiesi sorseggiando il caffè. «Quella che vuole Berlusconi», replicò lui che, nelle settimane precedenti, aveva stretto con il Cavaliere il famoso patto del Nazareno (l’accordo scritto con l’inchiostro rosso un giorno mi fu mostrato da Denis Verdini, che lo custodiva gelosamente, e come è noto, oltre alla riforma della giustizia, prevedeva anche l’elezione congiunta del capo dello Stato).Sì, undici anni fa Renzi non sembrava avere dubbi su una riforma che prevedeva la separazione delle carriere e anche l’elezione a sorteggio dei componenti del Csm. Di certo, a indurlo a un ripensamento non sono state le inchieste della Procura di Firenze che hanno messo lui e la sua famiglia nel mirino. Anzi, le indagini su Open e sui presunti reati del papà (traffico di influenze e fatture false) credo abbiano rafforzato in lui la diffidenza nei confronti delle toghe. Ma più dell’avversione contro i pm può quella nei confronti di Giorgia Meloni. Da quando il premier ha iniziato a frequentare i Paesi da cui Renzi incassa lauti compensi e Fratelli d’Italia ha varato una norma che impedisce ai parlamentari di prendere soldi da Stati esteri, il fondatore di Italia viva non perde occasione per attaccare il premier, che lui ha soprannominato, con disprezzo, «influencer». Dunque, l’odio nei confronti del presidente del Consiglio scavalca perfino quello contro i magistrati. Non fosse così, il fondatore di Italia viva si sarebbe già iscritto ai comitati per il sì alla riforma, divenendone il primo sponsor.Ma quella di Renzi non è la sola inversione a U che, sul tema della magistratura, si registra a sinistra. Infatti, c’è stato un periodo in cui la separazione delle carriere fra pm e giudici era piuttosto popolare anche fra i compagni. Di questa impostazione si trova traccia negli atti della Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema quando, pur non prevedendo due Csm, si immaginava di suddividere in sezioni diverse i percorsi di carriera dei magistrati requirenti rispetto ai giudicanti. All’epoca, considerando chiusa o in via di chiusura la stagione di Berlusconi, con il quale l’allora segretario del Pds si apprestava a stringere un accordo, D’Alema e i suoi volevano chiudere anche la stagione di Tangentopoli. Ma poi, a causa di un ripensamento del Cavaliere, l’accordo sulle riforme saltò e con esso anche la separazione delle carriere e pure il governo Prodi. Tuttavia, l’idea di ridisegnare l’assetto che riguarda la magistratura, ovvero le promozioni, i provvedimenti disciplinari e le correnti, ha continuato a far parte del programma della sinistra. Tanto è vero che Carlo Calenda, dicendo sì alla riforma del centrodestra, lo ha ricordato, rovesciando sui compagni l’accusa di incoerenza o, peggio, di essersi venduti.Ma allora, se fino a qualche anno fa a sinistra la pensavano così, perché oggi si schierano compatti con l’Anm, rischiando di farsi schiacciare sulla posizione di una categoria che, secondo gli ultimi sondaggi, non è proprio popolarissima? Per quanto riguarda Renzi, credo di avere già risposto: la questione è più personale che politica. Se non ci fossero di mezzo i soldi e l’ego espanso del personaggio, l’ex Rottamatore sventolerebbe la bandiera della riforma della giustizia. Anzi, fosse per lui probabilmente avrebbe fatto di peggio, rovesciando per esempio i rapporti dei componenti del Csm e dell’Alta corte disciplinare a favore dei membri laici. Quanto agli altri, il tema è politico, nel senso che se a decidere fossero i riformisti del Pd, il partito voterebbe compatto a favore della legge Nordio, evitando di schiacciarsi sulle posizioni conservatrici dell’Anm. Ma a decidere la linea non sono Lorenzo Guerini, Graziano Delrio o Luca Lotti ma Elly Schlein e i suoi pasdaran i quali, pur di non lasciare spazio a Giuseppe Conte e ai giustizialisti grillini (capitanati da Federico Cafiero De Raho e da Roberto Scarpinato), hanno deciso di sposare le tesi dell’Anm. Una mossa che non solo rischia di spaccare la sinistra, perché nel Pd non tutti hanno intenzione di uniformarsi alle indicazioni di partito, ma che potrebbe rendere ancora più precario il segretario dem, dopo le sconfitte alle regionali e dopo le critiche di Romano Prodi. Diverse rilevazioni, infatti, segnalano che la maggioranza degli italiani è disposta a votare sì alla separazione delle carriere. A credere il contrario sono rimasti solo i duri e puri dell’Anm (una minoranza) e i duri e puri della sinistra (un’altra minoranza). Con la conseguenza è che il «No» si potrebbe trasformare non in uno stop alla riforma, ma una sconfitta definitiva del partito dei giudici e di un’opposizione che è subalterna ai magistrati. Come dimostra la linea sui migranti.