
Nella guerra commerciale in corso, il Dragone agisce da potenza simmetrica agli Usa, blindando i suoi metalli indispensabili. Ma è un azzardo: i Paesi occidentali potrebbero estrarli in territori amici, tipo la Svezia. Ricchi giacimenti anche in Russia e Africa.La Cina ha condizionato l’esportazione di terre rare e delle tecnologie di trattamento delle stesse a un’approvazione politica. Per tre motivi. 1 L’analisi dell’ufficio strategico del Partito comunista ha valutato che i crescenti ostacoli tariffari e non all’export cinese in America e verso l’Ue comprimono troppo lo sviluppo, rendendo necessario aumentare la deterrenza, quindi usando come arma la condizionalità fornita dal suo quasi monopolio su terre rare e tecnologie collegate. 2 L’intelligence cinese ha rilevato il tentativo di europei e statunitensi di ridurre la dipendenza dalla Cina nel settore, ma anche i problemi di consenso nelle democrazie, perché lo sfruttamento delle terre rare richiede enormi distruzioni di territorio. 3 La speranza di poter negoziare da una posizione di forza la riduzione delle barriere al suo export con uno scambio di concessioni condizionate relativo alle terre rare. È una forma di guerra economica «sotto soglia» per deterrenza contro le barriere anti-cinesi. La Cina ha dato qualche mese per condurre i negoziati. Ma ha fatto un errore: la guerra economica scatenata è in realtà «sopra soglia» nella percezione Usa, perché i dati mostrano un’offensiva della Cina per espandere la propria influenza globale ritenendo che Washington sia indebolita per la sua politica dazista che rende meno coesa l’alleanza americocentrica: pertanto si è permessa, con il blocco condizionale dell’export delle terre rare, un affondo da potenza simmetrica a quella americana. Qui Pechino sbaglia: l’America non concederà mai lo status di potenza simmetrica alla Cina. E va annotato che su questo c’è una convergenza tra repubblicani e democratici. Se la Cina insistesse sul potere di blocco delle terre rare, gli Usa percepirebbero tale azione come l’attacco di Pearl Harbor nel 1941. Come mai Pechino, che ha una capacità di pensiero strategico raffinata, diversamente da Mosca, ha commesso un errore che potrebbe portare a un’azione esterna facilitata dall’interno per un cambio di regime? C’è dibattito tra think tank occidentali su due ipotesi: il regime è in guai economici ingestibili (e i dati veri sosterrebbero questa inferenza) da costringerlo a un’azione molto rischiosa o confida troppo sulla separazione tra America ed Europa e sulla ribellione del Sud globale contro Washington? Penso sia una combinazione delle due analisi che abbia ispirato la nuova postura cinese ricattatoria sulle terre rare, considerazione che mi porta ad approfondire le relazioni euro-cinesi. In sintesi, le nazioni europee tendono a essere più morbide con la Cina per la dipendenza di alcune da quel mercato, ma comunque prevale un atteggiamento limitativo dell’influenza cinese non solo per pressione statunitense, ma anche per autonoma posizione degli europei. Il business cinese è condizionante in Ungheria e sta crescendo in alcune zone dell’Est, ma la percezione negativa di un’espansione ulteriore è più forte. Va valutato che la Germania ha parte della sua industria dipendente dalla Cina, pur meno che nel passato, e anche la Francia. L’Italia ha poca dipendenza, ma per alcuni settori non vuole perdere l’export. Pertanto, la dipendenza europea è nettamente mercantilistica, ma non di convergenza geopolitica, a parte i soggetti sul libro paga della diffusa azione clandestina cinese. Pechino dovrebbe valutare che la morbidezza europea non è un dato che indichi influenza. Ciò rende probabile che se la Cina confermasse la condizioni sulla fornitura di terre rare, l’Ue convergerebbe con l’America in un confronto duro con la Cina stessa. Ma l’America farà un tale confronto? Accetterà un compromesso con la Cina dove questa farà finta, recuperando la lucidità strategica al momento ombreggiata, di lasciare a Donald Trump un’apparente vittoria? Qui lo scenario diventa tecnico perché la risposta dipende dalla capacità del sistema industriale euroamericano - e del G7 - di resistere a un blocco delle forniture di terre rare. Da un lato, la possibilità teorica di estrarle in territori amici c’è, perché tali minerali in realtà non sono rari sulla Terra. Dall’altro, la loro estrazione è complessa e distruttiva di territorio. Va detto che tali minerali critici potrebbero essere estratti dall’economia circolare, cioè dal riciclo di rottami, per un periodo di tempo sufficiente ad aprire aree di sfruttamento con relativi macchinari di trattamento. In Italia c’è già un luogo valutabile oltre a diverse miniere ancora sfruttabili, ma chiuse, di minerali importanti non rari, per esempio rame e cobalto. L’attenzione americana per la Groenlandia dipende anche dal fatto che ha una ricchezza mineraria enorme. In Svezia c’è uno dei potenziali più grandi in Europa di terre rare. E in Brasile enormi giacimenti. La Russia poi è una cuccagna mineraria come l’Africa. Da un lato, tali valutazioni porterebbero ad un’azione euroamericana sostituiva della dipendenza dalla Cina, una sorta di Nato mineraria estesa globalmente. Dall’altro, c’è un problema di tempi che suggerisce di trovare un accordo con la Cina, ma aumentandola contro-deterrenza economica: prova a bloccare e noi ti portiamo all’implosione economica. In questi termini un negoziato è possibile, ma sta emergendo la consapevolezza che per il bene del pianeta bisognerebbe facilitare la liberazione del popolo cinese dal regime nazionalsocialista.
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