Cognome e nome: Caschetto Giuseppe. Detto Beppe. Professione: «agente delle star», Vip, vippeti e svippati dell’abbagliante universo dello showbiz.
Una sessantina, tra artisti, giornalisti e autori, le cui facce sono sul sito della sua società Itc 2000, intonanti il coro: Call my agent.
Come la serie tv.
Che non lo entusiasma: «Un agente non dovrebbe mai raccontare quello che fa», ha confidato a Elvira Serra del Corriere della Sera il 16 aprile 2023.
«Preferisco stare nascosto ed essere considerato autorevole. Credo nel teorema Cuccia», aveva anticipato a La Stampa il 16 aprile 2008.
Giusto: anche se tra «uomo ombra» e «Richelieu della tv» preferisce come soprannome «Lucio Presta della sinistra» (leggete e capirete).
«Un mammasantissima del piccolo schermo», così il sito davidemaggio.it del 18 novembre 2010, quando Roberto Saviano gli affidò la cura del suo contratto con la Rai per Vieni via con me con Fabio Fazio, altro suo cliente «eccellente».
Frase cult: «L’agente non deve essere un percentista, uno che prende le percentuali sui guadagni altrui e basta, come quelli che accompagnano le signore la sera nelle periferie», ohibò.
«Roberto Vannacci è una pippa. C’è un solo Generale. Il nostro: Caschetto. Se domani Caschetto ordinasse lo sciopero dei “caschettiani”, si paralizzerebbe un’intera industria. È un intreccio di mondi. Tv, editoria, giornalismo, teatro, cinema. Caschetto è anche produttore di spettacoli, pellicole. È stato candidato come miglior produttore ai David di Donatello. Il Traditore di Marco Bellocchio è un film di Caschetto girato da Bellocchio. Caschetto è un punto di Pil», così un adepto in pieno deliquio a Carmelo Caruso del Foglio, 4 settembre 2023.
«Coschetta», anagramma figlio di un mio refuso al computer, uno scherzo.
Ma avendo la sua famiglia origini sicule, Modica in provincia di Ragusa, e un padre carabiniere, lo ha ritenuto alludente e ingiurioso.
E se l’è legata al dito (Caschetto, stacchi il numeretto e si metta in coda...).
Potentissimo per antonomasia.
Il Messaggero il 9 novembre scorso chiede a Herbert Ballerina, nato in tv con Maccio Capatonda e ora alla corte di Stefano De Martino ad Affari tuoi: ha l’agente? Ed ecco la risposta, la parentesi è nell’originale: «Da cinque anni sono con Beppe Caschetto (potentissimo, si occupa di Fazio, Sabrina Ferilli, Alessia Marcuzzi, Miriam Leone, Maurizio Crozza, Fabio Volo, Virginia Raffaele etc, ndr), sempre grazie a Stefano», gestito pure lui da Caschetto.
Si conclude una trattativa per Luciana Littizzetto?
Ecco l’insalivante Corriere della Sera, 20 giugno 2023:
«Il doppio ingaggio è il capolavoro (l’ennesimo) del suo agente che riesce a moltiplicare gli assegni dei suoi artisti più di quanto faceva alcuni anni fa un tipo più famoso di lui con i pani e i pesci».
Nientemeno: Caschetto come Gesù il Salvatore (di carriere e conti correnti dei suoi assistiti, sicuramente).
È indubbio: Caschetto, insieme al suo deuteragonista Lucio Presta (calabro sanguigno, perciò appellato - copyright di Dagospia - Brucio), è il dominus di molti intrecci televisivi, e non solo.
Ma è più potente lui o Presta?
Lui: «Presta».
Serra, inzigando: «Com'è riuscito Presta a portare il presidente della Repubblica Sergio Mattarella in tv (a Sanremo)?».
Caschetto, prendendo d’aceto: «Veramente ci siamo riusciti pure noi nel 2015, quando intervenne al programma di Fazio Viva il 25 aprile!».
Lì pesò l’intervento di Giancarlo Leone, all’epoca direttore di Rai 1, figlio di un altro capo dello Stato, il democristiano Giovanni.
Di parrocchia politica affine a quella di Caschetto, che si considera «un progressista, di formazione cattolica», e «un terrone, figlio di un siciliano».
Insomma, un cattocomunista, nella migliore tradizione emiliano-romagnola: Caschetto, nato a Roma, è infatti bolognese d’adozione.
Nel 2024 Presta, ospite del Festival della Tv di Dogliani, a casa dell’ingegner Carlo De Benedetti, si è sbilanciato: «Siamo amici e lo stimo molto. Abbiamo molta più confidenza di quanto si possa immaginare».
Per poi aggiungere: «Ma Caschetto è molto più potente di me. Perché è di sinistra. Mentre io ho fatto incazzare sinistra, destra e centro...».
Affermazione non campata in aria, scorrendo per esempio i volti da Caschetto parcheggiati a La7 di ieri e di oggi: Daria Bignardi, Ilaria D’Amico, Lilli Gruber, Giovanni Floris, Corrado Formigli, Massimo Gramellini, la cremina del giornalismo pettinato (con la riga a sinistra).
Presta ha pure rifilato una stoccata a De Martino: «A Carlo Freccero, allora direttore di Rai2, dissi di prendere Stefano per Stasera tutto è possibile che inizialmente doveva condurre Angelo Pintus. “Vedrai che con lui ti troverai meglio”, gli dissi. Sono stato un buon profeta».
Come ringraziamento, De Martino ha lasciato l’Arcobaleno Tre, la società di Presta, per la scuderia di Caschetto.
Brucio: «Quello che dovevo dire a Stefano gliel’ho detto, “chi tradisce una volta, nella vita poi tradisce sempre”. Toccherà ad altri».
Caschetto ha comunque fatto al meglio gli interessi di De Martino, se è vero che per lui ha strappato alla Rai un contratto quadriennale da 2 milioni di euro l’anno, con annessa clausola per il Festival di Sanremo 2027 (viste le scoppole che sta rimediando da Gerry Scotti con la Ruota della Fortuna su Canale 5 pare che la Rai intenda riparlarne).
A fare la fortuna di Caschetto è stato Bibi Ballandi, persona degnissima, impresario e poi produttore degli show tv di Gianni Morandi, Renato Zero, Fiorello, fino a Ballando con le stelle.
Mentre lavorava con l’assessore al Turismo Alfredo Sandri, Beppe fece da paciere tra Rai e Regione.
«L’Emilia Romagna aveva una convenzione con viale Mazzini per realizzare in Riviera importanti eventi tv, e Ballandi gestiva al Bandiera gialla (la sua discoteca sulle colline riminesi) lo show Beato tra le donne. Il colpo di fulmine fu a Roma in una riunione in cui tutti litigavano. Presi la parola e si tranquillizzarono. Ballandi chiese: sapresti rifarlo?».
Però lo show ci fu nel 1994.
Mentre Caschetto ha da sempre datato al 1993 l’inizio della sua attività, nata «grazie a un’intuizione di Ballandi» (prima artista: Alba Parietti).
Sia come sia, io l’ho conosciuto con Bibi, che me lo presentò come persona amica, agli inizi degli anni Novanta. Per questo, quando - in occasione di un infortunio professionale, proprio in avvio di carriera - ci sentimmo, scelsi di non infierire limitandomi alla mera cronaca dei fatti.
Estate 1994. Venni a sapere di un patatrac in Calabria, zona Soverato, terra mia.
Valeria Marini, da Caschetto rappresentata, passò una nottata in una stazione dei carabinieri. Chiamati dagli organizzatori di una manifestazione locale, causa lite su compenso e contorno.
Ne scrissi su Panorama del 30 settembre.
Il caso esplose a livello nazionale, e il qui pro quo finì a carte bollate.
Da allora Caschetto è diventato più che abile nelle trattative.
Tipo quella per l’ex Iena Antonino Monteleone, artefice su Rai 2 di un doppio flop, in prima e seconda serata.
«Molto ben visto dalle parti di Fratelli d’Italia, ha un biennale da 360.000 euro lordi annui» spettegolano davanti al Cavallo morente.
Cifra che «corre» anche se ora è in panchina.
Su tali compensi Caschetto incassa una legittima provvigione: «Un agente guadagna dal 10 al 15%. Ho venduto una breve campagna pubblicitaria per 5 milioni, alcuni big guadagnano milioni in una sola stagione, ma generano anche ricavi per milioni».
Una delle sue specialità è piazzare squadre di lavoro «a pacchetto».
In Rai ci si ricorda il caso di Quelli che il lunedì, con Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu, Mia Ceran, Enrico Lucci, l’ottimo Ubaldo Pantani, Federico Russo: tutti suoi.
Così come molti ospiti del «tavolo» di Fazio a Che tempo che fa.
Il che va bene in un’azienda privata (come Nove, dove Fabietto è approdato dopo la Rai), che si regola come crede.
Lo era meno nella tv pubblica dove l’amministratore delegato Fabrizio Salini nel 2020 emanò una circolare ad hoc (rimasta sulla carta): un singolo agente non avrebbe potuto rappresentare più del 30% degli artisti di una stessa produzione Rai, né curare gli interessi di artisti di programmi da lui prodotti.
Era il tentativo di arginare non i conflitti d’interesse, bensì il soffritto di interessi, la loro convergenza.
Caschetto: «Ma dove sarebbe il conflitto? Se io immagino che la Littizzetto possa funzionare da qualche parte, posso proporla o no? La scelta finale non è mia: chi decide pensa al bene del programma».
Vero. L’agente fa il suo, è la controparte a non dover farsi imporre diktat.
Aldo Grasso su Caschetto (e Presta): «Da anni hanno ucciso la linea editoriale delle reti. Le trasmissioni se le inventano Caschetto e Presta, i volti li impongono Caschetto e Presta, gli ospiti li suggeriscono Caschetto e Presta. Siamo ben oltre l’amichettismo. Sono due clan. Per certi versi fanno paura».
Pure too much, la sentenza del massmediologo.
E comunque: paura, perché mai?
Non lo sa l’insigne critico tv che il proverbio preferito da Caschetto è «male non fare, paura non avere»?
Cognome e nome: Carofiglio Giovanni. Aka - conosciuto anche (e soprattutto) come - Gianrico. Look alla Bernard-Henri Lévy, camicia bianca senza cravatta, perché il nitore è il messaggio.
Virginale simbolo di purezza e giustezza.
Come da suo tour nei teatri, Il potere della gentilezza in jazz, sentimento virtuoso che incarna «l’opposto della mitezza. Non è remissività, ma una scelta consapevole e coraggiosa che implica la responsabilità di essere nel mondo».
«Ma porca puttena», esclamerebbe a ’sto punto il suo concittadino Lino Banfi, «sembra una supercazzola».
Del resto si sa, gli intellò - «ridicoli e stronzi», s’titolava così sul Foglio del 13 settembre 2013 l’analisi di Alfonso Berardinelli sull’aulica corporazione - sono unti, e bisunti, dalla grazia dell’eloquio forbito.
Eleganti al limite del lezioso.
Come appare talvolta Carofiglio, che alla domanda: «Il Carofiglio scrittore quando nasce?», ha risposto: «Nel settembre 2000, dopo un’estate in cui si era coagulata la perdita di senso» (del lavoro
come magistrato).
Capite? Un’idraulica del tubo esistenziale: gli si era coagulata la perdita, mica cotica, e del resto chi sono io per obiettare alcunché a chi nel 2010 ha scritto per Rizzoli La manomissione delle parole? Lo presentò anche su La7, dove oggi è di casa, in un’amena trasmissione in cui, quando si toccò il tema dei romanzi in vernacolo, spiegò: «Non vado pazzo per l’uso letterario delle lingue dialettali,
lo rispetto ma io amo l’italiano». Al che quel fesso del padrone di casa tv gli citò Carlo Emilio Gadda e il suo Er pasticciaccio brutto, perdendo l’occasione di inzigare sui suoi rapporti con Andrea Camilleri, maestro di dialetto siculo, esploso come best-sellerista nella stessa casa editrice, quella di Elvira Sellerio (per la cronaca: quel conduttore ero io, ad AhiPiroso con Adriano Panatta e Fulvio Abbate).
A Panorama dell’1 luglio 2019 ha concesso: «Voglio molto bene a Camilleri, uno scrittore molto interessante, ha una straordinaria inventiva linguistica, ma dal punto di vista letterario non potremmo
essere più diversi».
Carofiglio ha ammesso, con Aldo Cazzullo e Elvira Serra per il Corriere della Sera del 18 luglio 2024, che il vizio capitale dell’invidia non gli è estraneo: «Mi ha afflitto a lungo per varie ragioni: è stato penoso negarlo agli altri e a me stesso. Ma l’invidia rispetto a mio fratello Francesco (a sua volta scrittore e illustratore) era sana. Mi diceva: “Vedi com’è stato bravo?”. Oggi è molto meno nociva, ma resta una belva selvaggia. Anche se l’ammetti, se ci hai lavorato, non la elimini».
E chissà se la bestia lo ha azzannato anche nei confronti di Michele Emiliano, come lui ex pm d’assalto, visto che i due giornalisti sottolineano che «Carofiglio risponde a tutto, tranne che a domande su Emiliano» (perché? Boh. Curiosamente, l’arcano non viene svelato). I due frequentavano lo stesso liceo classico, l’Orazio Flacco, con Emiliano «già iscritto alla Fgci» e Gaetano Quagliarello che «prima dell’approdo a destra, era un leader radicale, impegnato nelle
battaglie civili e libertarie di Marco Pannella».
Carofiglio si descrive invece come «progressista non militante», per quanto continuista alle urne: Pci-Pds-Ds-Pd. E rissaiolo alla bisogna, ma «solo per legittima difesa». Questo dopo essersi impratichito con il karate, arrivando alla cintura nera, livello quinto dan, il top di gamma. «Da ragazzino ero timido, fragile, goffo, sono stato bullizzato fino ai 14 anni. Poi ho cominciato con le arti marziali e il bullismo è cessato, si sono invertiti i ruoli», ha spiegato, sincero ma un po’ smargiasso, al Corriere del 6 luglio 2023.
A Sette del novembre 2014: «Quando avevo 16 anni ho fatto a botte con un fascista. Dopo una discussione in classe mi aveva detto: “Ti aspetto fuori”. Gliene diedi tante. Da quel momento a scuola smisero di considerarmi uno sfigato allampanato e innocuo».
Al citato Panorama: lei sembra così pacato. «Sbagliato. Non si deve far ingannare dalle apparenze. Una volta camminavo per strada quando mi aggredì un operaio, evidentemente fuori di senno, con una pala in mano, riteneva che avessi calpestato l’area sopra cui stava lavorando. Finì lanciato per aria», però, un «compagno» che fa decollare un operaio trasformato in un razzo missile, con circuiti di mille
valvole, che manco Ufo Robot.
Basta? Macché. «Stavo camminando con una collega magistrato a Firenze. Due giovani nordafricani tentano di scipparle la borsa. Accade in un minuto, ci scambiamo appena uno sguardo, poi tutto inizia, uno si appoggia a una ringhiera, mi spinge mi aggredisce, e io gli faccio: “Cerchi guai? Sparisci”. Lui ignaro di quello che stava per accadergli, mi risponde “Ti spezzo tutte le ossa”, poi mi afferra e salta per darmi una testata. Ma prima di potermi sfiorare finisce rovesciato sui tavoli, travolgendone almeno tre, mentre l’altro spacca una bottiglia di vetro e corre verso di me brandendola. Uso con lui una tecnica karate in cui fai cadere l’altro trascinandolo con te».
Un po’ Bruce Lee, insomma, un po’ Chuck Norris con i suoi calci rotanti, un po’ Mario Brega in Borotalco: «J’ho tirato ’n destro ’n bocca, m’è cascato per tera come Gesù Cristo e io che je gridavo: “Arzate, ’a cornuto, arzate!”».Mancava solo che la collega lo interrogasse: «Ma chi erano?», e lui a minimizzare: «Niente, due de passaggio».
Laureatosi con 110 e lode, nel 1985 «dopo aver cazzeggiato per un anno, un pomeriggio incontrai per strada Emiliano che mi fa: “Sto andando a iscrivermi all’esame di magistratura”». Carofiglio si dice: «Cur non ego?».
Passa l’esame con 80, il massimo.
Quindi pretore a Prato.
In Procura a Foggia.
L’Antimafia a Bari.
Nel 1998, lo stop: «Una sconfitta che in modo inatteso m’ha cambiato la vita in meglio. Concorrevo per un posto nel comitato scientifico del Csm. Per vanità più che per ambizione. Non passai per un voto. L’anno successivo cominciai a scrivere storie». Nel 2002, dopo una bella serie di rifiuti, la telefonata di Sellerio: pubblicherò il suo romanzo. Carofiglio lo voleva intitolare Quello che il bruco: «Pensavo a Lao Tse: quello che il bruco chiama fine del mondo, il mondo chiama farfalla». «Grazie, come se avessi accettato», gli fece sapere l’Elvira, che scelse il più ficcante Testimone inconsapevole, che esplose nell’estate 2003, rimanendo gettonato per anni.
Appende definitivamente la toga al chiodo quando diventa parlamentare nel 2008, anche se in politica ballerà una sola legislatura.
Ma non manca di parlarne.
A Concetto Vecchio di Repubblica ha riciclato un mantra democratico e antifascista: «Destra e sinistra esistono ancora, e sono categorie fondamentali. Chi sostiene il contrario è quasi sempre di destra», e te pareva, se non sei d’accordo con un sinistrato, sei fascista di default.
Divenuto progressivamente un «intoccabile della Repubblica delle Lettere» (così Luigi Mascheroni), è scrittore prolifico: dall’inizio del secolo più di 30 pubblicazioni all’attivo, oltre sette milioni di copie vendute, un indubbio successo che gli consente sussiegose sentenze: «L’incipit di Anna Karenina, “Tutte le famiglie felici sono simili fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, è sopravvalutato».
È stato tradotto in 30 e più lingue diverse, compresi il thailandese e lo swahili, che è parlato in Tanzania, Ruanda e Burundi, e infatti nel capoluogo pugliese si è usi dire: «S’ Burun tness u’ mer, fuss ’na piccula Ber».
È approdato financo in tv con un suo programma, Dilemmi, candidandosi a «esponente più eminente della woke tv, quella dei giusti, dei corretti, dei migliori», così nel 2022 il critico Aldo Grasso. «In una puntata con Walter Siti e Stefano Massini i tre si misuravano sull’altezza della loro cultura (citazioni, controcitazioni, riferimenti, richiami) come fosse una gara a dimostrare chi avesse il sapere più lungo», per dir così.
Anche su magistratura, giudici, carriere interviene ancora oggi. Una volta facendomi avvertire un urticante fastidio.
Nel dicembre 2022 espone alla Stampa una «provocazione»: «Il tirocinio di chi lavorerà con la libertà delle persone dovrebbe includere tre giorni da detenuto. Dopo sarebbe meno probabile un uso disattento - a volte capita ancora - delle misure cautelari».
«Come, come?», mi dico. Ma è un’idea di Leonardo Sciascia, sul Corriere del 7 agosto 1983, a proposito del caso Enzo Tortora (i miei sette lettori sanno che qualcosina sul tema la conosco). Carofiglio era pure recidivo. Si era così già espresso nell’agosto 2012, da senatore Pd intervistato da Radio Radicale: «Ho proposto, e non provocatoriamente (aridanga), che chi entra in magistratura dovrebbe, nel periodo del tirocinio, essere ristretto per tre giorni in carcere».
Intendiamoci: potrebbe non aver saputo del precedente, e quindi l’appropriazione indebita sarebbe avvenuta in buona fede. Carofiglio ha confessato: «Amo molto una teoria di Carl Jung, quella sulla “sincronicità causale”, secondo cui le storie acquistano senso quando le racconti».
E soprattutto quando te le racconti abbellendole e facendole tue.
Venghino, siori, venghino, qui si narrano le gesta di una sempiterna compagnia di ventura.
L’inossidabile categoria dei cultori del piagnisteo.
Che fa del vittimismo una posa.
Per una buona causa: la loro.
Trattasi dei «chiagnifottisti», esponenti di quella corrente culturale mainstream chiamata «chiagnifottismo» (hashtag da social: #Cf), declinazione parte-nopea parte-volgare, ma che dà l’idea.
I suoi esponenti allignano in ogni corporazione, dal parlamento allo spettacolo, maxime in tv.
Prendete Fabio Fazio: «Dopo Rai 1 siamo stati puniti e messi su Rai 2, quindi puniti e messi ancora su Rai 3. Poi per fortuna accolti sul Nove», ha pigolato il 24 ottobre, al festival dello Spettacolo di Tv Sorrisi e Canzoni.
È in video quasi ininterrottamente da più di 30 anni, visto che Quelli che il calcio, il suo primo programma di peso, debuttò nel 1993.
Ciò nonostante, ciclicamente si lascia andare al pianto greco sul destino cinico e baro che l’ha colpito, lacrime che si sono sempre rapidamente asciugate sulla carta assorbente dell’ennesimo contratto (beato lui).
«Fazio ha detto di essere stato 40 anni in Rai, ma non è vero: andò a lavorare a La7, all’epoca di proprietà della Telecom. Non fece manco una puntata, quella esperienza si concluse e andò via con una paccata di miliardi, devastato, ma molto più ricco di prima», lo infilzò Michele Santoro su La7.
Da che pulpito...
Ma ve li siete dimenticati i tormenti del Paese tutto quando ogni due per tre Sant’Oro doveva decidere se rimanere a viale Mazzini, dove secondo lui tutti lo odiavano, oppure traslocare a Mediaset (cosa che in effetti farà, nel triennio 1996-1999 per 12 miliardi, per poi tornare tra le braccia di mamma Rai)?
Più si lagnava, e più era sotto i riflettori, finendo fuori mercato solo quando Silvio Berlusconi andò incontro all’autunno del patriarca.
Dimostrando vieppiù che il Cavaliere aveva un doppio delitto sulla coscienza: aver creato i berlusconiani e gli antiberlusconiani, entrambi a lui devoti per una buona causa (sempre la loro).
Ricordate Antonio Gramsci?
«Odio le persone cosiddette serie, che abusando del loro carattere di commedia, truffano la nostra buona fede».
Come? Stracciandosi le vesti coram populo, per poi passare all’incasso.
Anche in politica.
Ha chiosato Umberto Eco: «Una dose di vittimismo è indispensabile per non galvanizzare gli avversari. Beppe Grillo ha fatto una campagna da vincente, ma è riuscito a dare l’impressione che lo escludessero dalla tv e dovesse rifugiarsi nelle piazze - e così ha riempito i teleschermi prendendo le parti delle vittime del sistema».
Solo lui, un #Cf?
Ma no: sapevano piangere Palmiro Togliatti, che presentava i lavoratori come tenuti fuori dalla stanza dei bottoni dalla reazione in agguato. Marco Pannella che, lamentandosi sempre che i media ignorassero i radicali, riusciva a monopolizzare l’attenzione costante di giornali e televisioni. E naturalmente Berlusconi, che si è sempre presentato come perseguitato dai giornali, dai poteri forti e dalla magistratura, e quando era al potere si lamentava che non lo lasciassero lavorare e gli remassero contro. È il fondamentale principio del «chiagne e fotti».
Sul Cav si esercitò anche Indro Montanelli, dopo il suo trionfo nelle urne: «A Berlusconi nulla riesce tanto bene quanto la parte di vittima e perseguitato. “Chiagne e fotte”, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito».
Lo stesso Montanelli si beccò però lo stesso capo d’imputazione quando gli rinfacciarono il voltafaccia nei confronti del Signore di Arcore che aveva ripianato per anni le perdite del Giornale.
Il fondatore di Fininvest (poi Mediaset) e di Forza Italia è stato il maestro ispiratore delle generazioni successive, a destra e a sinistra.
Il 30 aprile 2001 finì sulla prima pagina del Manifesto, in piedi, senza nessuno intorno, la mano destra sulla bocca a tenersi la testa china, e sotto la scritta: «Nessuno mi ama».
Una postura quasi identica a quella di Carlo De Benedetti, esemplare speculare di #Cf, sulla copertina dell’Espresso dopo il fallito tentativo di conquistare la cassaforte belga Sgb, didascalia feroce: Lo smacco (da cui si riprese benissimo, of course).
Chiagnifottisti a frotte nello showbiz.
Mara Venier è cintura nera della specialità.
«Questa è davvero la mia ultima Domenica In, anche se lo ripeto da sei anni», giurò nel settembre 2024, alla vigilia della ripartenza per la sua sedicesima conduzione del programma, la settima consecutiva (dal 2018; la prima in assoluto fu nel 1993).
Quindi la tv ora la guarda da casa?
Macché. La Madonna di Campo de’ Fiori sta sempe mmiez’, altra locuzione napoletana, avendo solo concesso che la conduzione del contenitore diventasse «corale» (uno specchietto per le allodole, ovviamente il timone è saldamente in mano sua) con la presenza dei Fratelli Bandiera, i Sirenetti del dì di festa, Tommaso Cerno, Teo Mammucari e Enzo Miccio.
Iscritto d’ufficio al club è anche l’attore Luca Marinelli, che confessò tutto il suo disagio nell’interpretare Benito Mussolini nella serie tv M, tratta dalla saga a firma di Antonio Scurati.
A sua volta così o-scurato, per un non possumus di ottusi funzionari Rai, da stazionare per settimane in tv a spiegare quanto gli venisse impedito di parlare.
Marinelli raccontò di aver dato un dispiacere a sua nonna: «È la prima persona a cui ho parlato della serie. Non potrò mai scordare la sua faccia. Mi ha chiesto: “Perché?”».
«Ovviamente il patè d’animo t’è passato quando è arrivato il primo bonifico», l’hanno sfregiato i rosiconi del web.
Anche nello sport militerebbero i #Cf.
Ad esempio, l’allenatore del Napoli Antonio Conte (Sandro Piccinini, 21 aprile 2025: «Chiagne e fotte, il suo non è un miracolo e il Napoli non è una società derelitta. Se vince è merito suo, se perde la colpa è di qualcun altro, ormai lo conosciamo»).
Ma pure l’ex ct della Nazionale Roberto Mancini, per aver fatto ammenda: «È stato un errore lasciare gli Azzurri», al suo rientro dopo un breve soggiorno professionale in Arabia Saudita, da cui è ritornato onusto di milioni di petroldollari.
Se fate l’errore di aprire i social, allora i chiagnifottisti diventano legioni.
Nessuno è risparmiato.
Enzo Iacchetti, accusato di approfittare della popolarità conquistato come paladino della causa palestinese per promuovere il suo libro (lui ha replicato: «Venite a dirmelo in faccia, conigli»).
Bruno Vespa per aver sostenuto - dopo che nel 2024 ai festeggiamenti per i 100 anni della radio e i 70 della tv sono stati ricordati diversi programmi giornalistici ma non Porta a Porta, che «cambiano le stagioni, ma l’anima profonda della Rai resta sempre dalla stessa parte». Che detto da lui, onestamente, lascia vagamente basiti, essendo lui entrato in Rai nel 1962, avendo iniziato il talk dai bianchi divani nel 1995, avendo aggiunto, con il governo di Giorgia Meloni, financo la striscia di Cinque minuti.
Perfino Enrico Mentana, quando in giugno ha scritto su Instagram: «Il 2 luglio saranno 15 anni da quando presi la guida del TgLa7. Devi capire tu quando è il momento di staccare, senza che siano gli altri, o il pubblico, a dirtelo», quasi a preannunciare l’addio, è stato lambito dal sospetto di #Cf.
Urbano Cairo sembrò non capire le sue intenzioni, replicando ai microfoni di Super Guida Tv: «Come diceva quella pubblicità? Con quella bocca può dire ciò che vuole», e infatti i due hanno rinnovato gli sponsali per la soddisfazione di tutti, anche di coloro che erano già pronti a gridare allo scandalo.
Come il sito di Libero: «Se l’addio di Mentana dovesse concretizzarsi, non si tratterebbe di una prima volta. Tra i fondatori del Tg5, infatti, il giornalista milanese ha guidato il telegiornale della rete ammiraglia Mediaset per 12 anni, prima di essere “cacciato” (e sostituito da Clemente Mimun) a causa di presunte tensioni con Berlusconi nel 2004».
Raccontò Umberto Brunetti, direttore di Prima Comunicazione, a Stefano Lorenzetto in un’intervista per Panorama, 2004: «Repubblica il 12 novembre spara in prima pagina: “Mentana licenziato dal Tg5”. Come licenziato? Non è vero! Ma se erano sei mesi che trattava. E poi ti pare che stava 13 anni insieme con Berlusconi senza andarci d’ accordo? Tre miliardi lordi prende questo ragazzo. S’è mai visto uno che resta nella stessa azienda, con lo stesso stipendio, con la poltrona di direttore editoriale, con tre prime serate a disposizione in tv e con una liquidazione della Madonna già garantita nel caso si dovesse stufare? E ha il coraggio di andare in giro a dire: “Mi hanno sollevato dall’incarico”!».
Alla fine, se c’è uno che ha pianto davvero - davanti alle telecamere del Tg1 - è stato Gennaro Sangiuliano per la nota vicenda.
Già direttore del Tg2, quindi ministro, quindi a Parigi corrispondente della tv di Stato, quindi di nuovo in politica per le regionali in Campania.
Sono le «porte girevoli Rai», di cui hanno usufruito in passato anche a sinistra, con Piero Badaloni e Piero Marrazzo.
E che restano il miglior simbolo plastico del #Cf nazionale.





