- La missione di Prevost in Turchia aiuta ad abbattere il «muro» del Mediterraneo tra cristianità e Islam. Considerando anche l’estensione degli Accordi di Abramo, c’è fiducia per una florida regione multireligiosa.
- Leone XIV visita il tempio musulmano di Istanbul ma si limita a togliere le scarpe. Oggi la partenza per il Libano con il rebus Airbus: pure il suo velivolo va aggiornato.
Lo speciale contiene due articoli.
Pur non essendo credente, da sempre raccomando a colleghi ricercatori e studenti in economia e geopolitica economica di includere nei loro studi le religioni, perché mostrano una relazione forte con tali settori disciplinari. Nelle contingenze di questa epoca vedo una correlazione fortissima tra un’estensione degli Accordi di Abramo abbozzati da Emirati e Israele nel 2019 su pressione della prima amministrazione Trump che continua nella seconda.
In quell’anno fui tra i relatori (per un tema economico) in un mega-convegno negli Emirati, ad Abu Dhabi, a cui parteciparono tutti i Paesi islamici (eccetto gli sciiti iraniani) e parecchi tra i presenti mi chiesero quale sarebbe stata la posizione dei cristiani, perché nelle cene si ipotizzava la creazione di un sito abramitico dove fossero contigue per simbolismo di pace una moschea, una sinagoga e una chiesa cristiana. Non seppi rispondere, ma dissi che l’ingaggio dei cristiani sarebbe stato fondamentale per una «geoeconomia abramitica» che desse struttura a un mercato del Mediterraneo costiero e profondo, connesso con l’Indo-Pacifico e con l’Atlantico. Lo chiamai Ekumene.
Feci un balzo sulla sedia quando, a fine agosto 2023, in occasione del G20 a New Delhi, America, Arabia, Emirati, Francia, Germania, India, Italia e Regno Unito siglarono un accordo preliminare per creare la «Via del cotone» (Imec) tra India e Mediterraneo (con sbocco ad Haifa) via penisola arabica come percorso più breve tra Indo-Pacifico ed Atlantico settentrionale. La probabilità di Ekumene stava aumentando.
Oggi dalle cronache vedo che papa Leone XIV in visita in Turchia ha fatto annunciare dal Vaticano il progetto di un ampio summit (interreligioso?) a Gerusalemme nel 2033 con formato giubilare. Poiché la creazione di Ekumene richiede l’abbattimento del più che millenario Muro del Mediterraneo tra cristianità e mondo islamico, mi sono chiesto se la Chiesa cattolica, sempre aperta al dialogo interreligioso, si stia muovendo verso una specifica convergenza abramitica con concreti effetti geoeconomici e geopolitici.
Lo spero, e qui fornisco un motivo di «salvazione in terra» ai cultori della «salvazione in cielo». Lo scenario geoeconomico su cui sto lavorando da anni con miei ricercatori vede una regione economica centrata sul Mediterraneo costiero e profondo, connessa sia con il Pacifico sia con l’Atlantico, come luogo di maggiore moltiplicazione della ricchezza nel mondo e per tutte le nazioni partecipanti, anche perché stimolativo di uno sviluppo enorme dell’Africa. Non è che questo scenario possibile lo veda solo il mio gruppo di ricerca. La Cina lo interpreta come una riduzione della sua influenza sul Sud globale (in effetti strategia statunitense). L’Iran vedrebbe il pericolo di compressione ed esclusione. Così come la Russia che punta a creare una fascia orizzontale tra Mar Rosso e Atlantico di suo dominio sia in collaborazione sia (motivo più forte) in competizione con la penetrazione cinese.
Infatti, nel settembre 2023, un mese dopo l’accordo di New Delhi detto sopra, Hamas attaccò Israele su ordine iraniano (probabilmente le milizie semi-indipendenti e non il regime politico) forse stimolato riservatamente da Pechino per generare una reazione bellica di Israele stessa che poi impedisse ai sauditi e ad altri sunniti di procedere sia con l’Imec, dove Israele era il terminale mediterraneo, sia con gli Accordi di Abramo. Per inciso, la Cina aveva avviato una pressione diplomatica per far convergere Iran ed Arabia e ridurre l’influenza statunitense.
In sintesi, la macroregione economica indo-pacifica-mediterranea-africana-atlantica è vista come uno dei futuri centri economici (potenziali) del pianeta non solo da ricercatori, ma, soprattutto, dalle maggiori potenze del globo. Per la media potenza geopolitica italiana, basata su un modello di forte dipendenza dall’export e internazionalizzazione delle sue imprese, il vantaggio di una posizione centrale in una futura Ekumene estesa sarebbe enorme. Per tale motivo, penso, la presidenza del Consiglio ha voluto gestire direttamente sia il progetto Mattei per l’Africa (14 nazioni) e dintorni, sia la posizione italiana nell’Imec nonché la strategia dei parteniariati a livello globale. È ragionevole pensare che se il Vaticano aderisse agli Accordi di Abramo, Roma otterrebbe una centralità sia spirituale sia geoeconomica.
E per quella geopolitica? La Roma italiana deve necessariamente avvalersi sia della convergenza dell’Ue (per i soldi) sia degli Stati Uniti (per moltiplicare la forza geopolitica), ma se si aggiungesse quella con la Roma cattolica una centralità sarebbe meno difficile da raggiungere, anche tenendo conto che la politica estera italiana non cerca supremazie, ma intelligentemente e realisticamente collaborazioni paritarie. Penso che una chiacchierata in materia tra governo italiano e Vaticano sarebbe utile.
Il principio di separazione tra Stato e Chiesa, in realtà, ha confini spugnosi e rende importante il dialogo tra «salvazione minore» e «salvazione maggiore». Dove il punto è rendere la religione uno strumento di convergenza e non di guerra. Vedo due fasi per i cristiani e gli islamici:
1) riconvergenza tra le varianti delle due fedi in ciascuna area, cioè riconvergenza intra-sunnita tra Islam wahabita (Saudi) e Fratelli musulmani (Turchia, Qatar) e, per quanto possibile, tra sunniti e sciiti (Iran) e per l’area cristiana riconvergenza tra cattolici, ortodossi e protestanti. Non cercando rinunce dottrinali, ma convergenze per la «salvazione in terra»;
2) passo strutturante precursore di una solida convergenza abramitica: pax, shalom, salam.
Il Papa in moschea. Senza pregare
Papa Leone sta effettuando il suo primo viaggio apostolico (dal 27 novembre al 2 dicembre) con prima tappa in Turchia per onorare la memoria del primo Concilio ecumenico della Chiesa, tenutosi nel 325 nell’antica città bizantina di Nicea e che corrisponde all’attuale Iznik, 130 chilometri a Sudest di Istanbul. Al celebre Concilio, indetto dall’imperatore Costantino per definire il dogma della divinità di Cristo, il pontefice ha dedicato un’articolata e profonda Lettera apostolica intitolata In unitate fidei. Proprio in questa Lettera, papa Prevost spiega lo scopo del viaggio apostolico in Turchia, che consiste nell’incoraggiare «tutta la Chiesa» a un «rinnovato slancio» nella «professione della fede». Quella fede biblica, professata in Oriente e in Occidente, che «da secoli costituisce il patrimonio condiviso tra i cristiani», la quale merita di essere «confessata e approfondita» in maniera «sempre nuova e attuale». Ieri, papa Leone ha visitato la Moschea Sultan Ahmed, detta la «Moschea blu», considerata «tra i luoghi più simbolici di Istanbul». Il pontefice è stato accompagnato nella visita dal ministro turco della Cultura, Mehmet Nuri Ersoy, dal mufti di Istanbul Emrullah Tuncel e dall’imam Kurra Hafiz Fatih Kaya. Tra i presenti alla visita, il cardinal Kurt Koch, prefetto del dicastero per la Promozione dell’unità dei cristiani e il cardinal George Koovakad, prefetto del dicastero per il Dialogo interreligioso e abituale organizzatore dei viaggi pontifici. Leone ha vissuto la visita al tempio sacro musulmano «in silenzio» e «in spirito di raccoglimento e di ascolto», dimostrando «profondo rispetto» del luogo e della fede «di quanti si raccolgono lì in preghiera». Non diversamente da come fecero i suoi predecessori Francesco, Benedetto e Giovanni Paolo, i quali visitarono moschee e sinagoghe prima di lui. Vatican news aggiunge che il muezzin Askin Musa Tunca presente alla visita papale ha dichiarato ai giornalisti che il pontefice avrebbe voluto «vedere di più» per «sentire l’atmosfera della Moschea». E in ogni caso papa Leone è parso al dignitario islamico «molto soddisfatto». Quello che però Vatican news omette di riportare, lo fa notare fin dal titolo il sito cattolico indipendente Silere non possum. Infatti, il muezzin Tunca, sempre nel colloquio coi giornalisti, ha dichiarato di aver detto al pontefice che «se voleva poteva pregare» (testuale) lì in moschea. Ma il Papa, a piedi scalzi, avrebbe replicato così: «No, osserverò in giro». E anche qui si vede lo spirito profondo e lungimirante di papa Leone. Non rinnegare nulla del vero «ecumenismo» e dell’autentico «dialogo interreligioso», sorto a seguito del Concilio Vaticano II. Inserendo però le «novità conciliari» all’interno di una teologia più sobria e dogmaticamente ordinata, che i cattolici chiamano la «sacra Tradizione». A margine del viaggio apostolico e dei suoi voli, è poi apparsa una notizia che sembra kafkiana, ma che pare fondata a proposito del caso Airbus. La celebre compagnia aerea infatti ha dovuto bloccare all’improvviso circa 6.000 velivoli per ragioni di «manutenzione straordinaria». E l’aereo A320 su cui vola il pontefice, e che oggi pomeriggio verso le 15 dovrebbe portarlo a Beirut e il 2 dicembre a Roma, potrebbe essere fermato per la «sostituzione di un componente». Senza però cambiare il programma ufficiale del pontefice riportato dai media vaticani.
Analisi costi/benefici del piano statunitense per la cessazione del conflitto in Ucraina: viene tentata una valutazione dal punto di vista/interesse degli attori coinvolti, cioè Stati Uniti, Russia, Ucraina, Ue e Regno Unito e Cina. Tecnicamente appare prematuro tentare questo tipo di analisi, ma c’è un dato che la orienta: gli europei rilevanti dell’Unione e il Regno Unito hanno dichiarato che il piano americano è una «base» per arrivare a una pace equilibrata. L’Ucraina, nei giorni scorsi, aveva già dichiarato la volontà di discutere con l’America, ma senza respingere a priori un piano che appariva sbilanciato per eccesso di penalizzazione dell’Ucraina stessa.
Semplificando, il dilemma enunciato da Volodymyr Zelensky, cioè se perdere l’America oppure l’orgoglio nazionale, ha una risposta chiara: né gli europei né l’Ucraina possono rischiare una divergenza eccessiva con Washington. Pertanto lo scenario dei prossimi giorni vedrà un picco negoziale tra alleati, a ridosso della trattativa bilaterale tra Stati Uniti e Ucraina per fare alcune modifiche al piano di Trump, mentre la Russia farà il massimo sforzo militare per evitare che il piano venga modificato sostanzialmente.
Stati Uniti. Evidentemente Washington è riuscita a ottenere qualcosa da Mosca nei negoziati bilaterali riservati mai interrotti che ha indotto Trump a una pressione fortissima su Zelensky per fagli accettare il suo piano con minaccia di sospensione degli aiuti. L’interesse di Trump è certamente un recupero del consenso interno, cedente, combinato con quello degli strateghi tecnici statunitensi che ritengono chiave per la vittoria sulla Cina un distacco tra Mosca e Pechino, considerando anche la ricchezza mineraria russa che potrebbe annullare il monopolio cinese su alcuni minerali critici. Va aggiunto l’interesse di Trump di caratterizzare la sua presidenza come globalmente pacificatrice combinato con il mantenimento del ruolo di maggiore potenza militare globale, ma ormai troppo piccola per gestire fronti molteplici. In sintesi, il piano statunitense di pace in Ucraina corrisponde al massimo vantaggio valutato dal governo corrente. Ma va notato il problema: l’atteggiamento induce gli avversari dell’America a percepirla come debole. Per tale motivo Washington non potrà rinunciare a dare garanzie all’Ucraina.
Russia. Appare potenza vincitrice, ma in realtà non può sostenere a lungo lo sforzo di un’economia di guerra. Pertanto è disposta a un compromesso che rispetti la possibilità di dichiarare la vittoria dell’«operazione speciale». In sintesi, avrebbe il massimo vantaggio dall’applicazione del piano americano che anche difenderebbe Mosca sia dalle pressioni europee, sia dalle sanzioni. Il principale fattore negoziale di Putin è la disponibilità, pur enunciata indirettamente, a utilizzare armi nucleari. Ma è anche motivo che incentiva la sua eliminazione. Pertanto ha interesse a un compromesso.
Europei. Percepiscono che l’America non può sperare di restare potenza globale senza di loro. Sanno che dovranno pagare il più della ricostruzione dell’Ucraina. Francia e Germania percepiscono, tuttavia, un vantaggio nell’aggressione russa dell’Ucraina perché permette loro di investire cifre enormi in un riarmo che traina la modernizzazione competitiva sul piano globale dell’industria civile. Ma sul piano della sicurezza e dell’export hanno bisogno di una convergenza euroamericana molto forte, certamente nei prossimi 5/10 anni. Comunque, nel periodo critico corrente, gli europei non mostrano l’intenzione di sabotare un compromesso sull’Ucraina.
Ucraina. Analizzando i punti del piano americano che Mosca è disposta a valutare si trova uno svantaggio per l’Ucraina, ma in relazione all’obiettivo di riconquistare i territori perduti e non alla sopravvivenza come nazione indipendente. Divieto di aderire alla Nato? Può essere bilanciato da un accordo militare con l’Ue che poi include di fatto la Nato stessa. Limite alle forze armate di non più di 600.000 soldati? La robotizzazione della difesa li rende più che sufficienti. La perdita di un quinto del territorio? Kiev non ha la forza per riconquistarlo. Quindi il compromesso è un vantaggio, valutabile quando l’America chiarirà le garanzie per l’Ucraina. L’orgoglio nazionale? Se finisce con un compromesso, all’Ucraina va riconosciuto: Davide non ha battuto Golia, ma nemmeno Golia ha sconfitto Davide. Ma vale di più per la popolazione la fine di un conflitto erosivo.
Cina. Non vuole perdere il controllo sulla Russia e ne sta preparando uno più pieno quando Putin non sarà più al potere. Né vuole perdere lo status di potenza che può condizionare Mosca. Ma al momento non vuole rischiare un confronto aperto con l’America è ciò crea una finestra per una pace in Ucraina, forse non giusta, ma razionale.
Poiché gli interessi geoeconomici dell’Italia - export ed internazionalizzazione delle nostre imprese - sono globali mi sembra ovvio che l’attenzione e l’azione geopolitica di Roma debbano esserlo altrettanto. Cioè tutto il mondo è un’area viciniore dell’Italia e non solo quella geograficamente contigua (si faccia riferimento per l’argomentazione al mio Italia Globale, Rubbettino, 2023). Con questo in mente, che per altro è criterio antico della politica estera italiana ora intensificato dal governo corrente, va annotata la crescente divergenza tra Giappone e Cina con linguaggi inusualmente minacciosi e bellicisti da parte della seconda. Una parte della stampa italiana ha commentato questo episodio come un evento esotico lontano da noi. Qui cerco di argomentare perché, invece, è un fatto vicino, che ci coinvolge imponendo una riflessione strategica.
Pechino ha reagito con violenza verbale ad un’espressione, in sede parlamentare, del nuovo primo ministro nipponico Sanae Takaichi: un attacco di Pechino a Taiwan costringerebbe Tokyo ad un intervento militare per la difesa dell’isola (ex Formosa) in quanto minaccia esistenziale conseguente per lo stesso Giappone. Secondo me questa analisi del premier nipponico è realistica perché se l’America ed il G7 più le democrazie compatibili del Pacifico non difendessero Taiwan, che è una democrazia funzionante, mostrando la giusta deterrenza contro Pechino, allora la Cina comunista acquisterebbe il potere sufficiente per poter condizionare non solo il Giappone, ma anche la Corea del Sud, le Filippine, l’area dell’Indocina, ecc. E Pechino sta perseguendo una tale strategia montando un potenziale offensivo di forza tale contro Taiwan da richiedere una difesa collettiva di questa isola, ricca e tecnologicamente avanzata, ma piccola. E per evitarlo la Cina comunista dichiara che se altri si opponessero alla sua conquista di Taiwan supererebbero una linea rossa con la conseguenza di relazioni totalmente ostili con la Cina comunista stessa. Tale minaccia ha causato negli scorsi decenni l’interruzione delle relazioni diplomatiche ufficiali tra quasi tutti i Paesi del mondo e Taiwan: se vuoi fare affari con la Cina devi riconoscere una sola Cina, quella comunista, ed il suo diritto di annettere Taiwan definendola una sua regione interna. E da almeno tre decenni quasi tutte le nazioni hanno preferito cedere al ricatto di Pechino per non compromettere il loro business. Ma il mondo delle democrazie ha mantenuto relazioni informali solidissime con Taipei e negli ultimi decenni l’America ha venduto più di 60 miliardi di dollari di armi a Taiwan, nonché addestrato le sue forze armate. Tuttavia, ora la Cina ha promesso a Donald Trump che non tenterà di invadere Taiwan fino a che durerà il suo mandato. Washington non sa se crederci o meno: ha appena approvato un’ulteriore vendita a Taipei di armamenti utili per trasformare Taiwan in un «riccio» inespugnabile, ma non al livello della vera deterrenza. Per tale motivo il nuovo governo giapponese ha dichiarato la disponibilità ad un ingaggio militare diretto per aumentare la deterrenza stessa contro la Cina comunista. Va detto che da tempo Tokyo ha preso una postura di garante dell’indipendenza di Taiwan. E non perché l’isola è stata per 50 anni, fino al 1945, un suo possedimento, ma per il motivo detto sopra: un cedimento nella difesa di Taiwan comporterebbe un enorme aumento del potere condizionante di Pechino nell’area del Pacifico ed oltre. L’America vuole certamente limitarlo: ha spinto per la creazione dell’Aukus, cioè un’alleanza specifica con Regno Unito ed Australia per dotare questa ultima di sommergibili nucleari (non di missili atomici, ma imbarcabili quelli statunitensi e britannici se necessario); è parte dell’alleanza tra India, Giappone ed altri che fa da muro contro l’espansione della Cina, ecc. Per inciso, ho annotato un recente accordo tra Canada e Filippine in materia militare: da approfondire. Ma gli alleati dell’America hanno dubbi sul vero ingaggio statunitense a causa di un’impennata del voto isolazionista e conseguente condizionamento della politica estera. Non tanto in senso «ritirista», ma in quello di affidare agli alleati la difesa delle loro regioni di interesse, riservando all’America il compito di fornire un ombrello indiretto e non più diretto di difesa con l’eccezione di minacce esplicite ed incombenti agli interessi vitali statunitensi. Se così, questa è la dottrina dello Interesse nazionale descritta da Condolezza Rice nel 2000 su Foreign Affairs che era il punto principale della campagna elettorale di George W. Bush contrapposta al globalismo sostenuto dal Partito democratico. Dopo l’attacco jihadista del 2001 a New York, Bush invertì tale dottrina ripristinando quella del presidio diretto globale. Poi Barack Obama riprese la dottrina Bush-Rice, rinominandola «lead from behind» (guidare da dietro). E secondo me Trump la sta continuando: la pressione per l’aumento delle spese Nato per gli europei ha questa origine in un pensiero strategico statunitense bipartisan che impone agli alleati un loro riarmo. Se così, dovremmo noi europei così come le democrazie del Pacifico riflettere su una nuova strategia che porti ad una (sorta di) Nato globale e ad un nuovo concetto di allargamento del G7 per rispondere al nuovo bipolarismo con una riglobalizzazione selettiva economica e militare più strutturata che ritengo interesse vitale per l’Italia se vorrà avere status globale via alleanze che ne moltiplicano la media forza nazionale. Al riguardo del Giappone penso opportuno rinforzare la già forte convergenza bilaterale, spingendo anche gli altri alleati a non lasciare sola la tostissima signora Sanae Takaichi.





