Ieri l’avvocato Domenico Aiello, difensore dell’ex procuratore aggiunto di Pavia Mario Venditti, ha sparato bordate contro la Procura di Pavia. Riferendosi ad Alberto Stasi ha detto che i magistrati sono «al servizio di un condannato, assassino riconosciuto con sentenza passata in giudicato» e che l’ufficio inquirente «sta violando il principio di “intangibilità del giudicato”, perché manca oramai da mesi la richiesta di revisione».
Un attacco frontale. Ribadito anche commentando i risultati dell’incidente probatorio genetico-forense depositati dalla perita genetista Denise Albani: «L’ennesimo buco nell’acqua a spese del contribuente, ho perso il conto, tutto per alimentare un linciaggio mediatico di innocenti, sbattuti da mesi in prima pagina».
Il punto è che queste parole, pronunciate per demolire l’impianto accusatorio delle nuove indagini, finiscono per sbattere contro un dettaglio che l’avvocato Aiello (che aveva chiesto di trasferire il fascicolo da Pavia a Brescia «per connessione» ottenendo un rigetto) tiene da parte: fu proprio Venditti, nel 2016, a iscrivere il fascicolo (poi archiviato) su Andrea Sempio sulla base quasi degli stessi presupposti che anche all’epoca sembravano non tenere conto dell’intangibilità del giudicato, ovvero la sentenza definitiva di condanna a 16 anni per Stasi. Tant’è che furono richieste (proprio da Venditti e dalla collega Giulia Pezzino) e poi disposte dal gip perfino intercettazioni di utenze e, in ambientale, di automobili (attività che, proprio come quelle odierne, non sono gratuite). Anche la critica sulla prova genetica nasce zoppa. La genetista Albani, incaricata nell’incidente probatorio, ha depositato una relazione di 94 pagine che evidenzia gli stessi limiti già noti all’epoca: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ma, nonostante le criticità, i calcoli mostrano una corrispondenza «moderatamente forte/forte e moderato» tra le tracce di Dna sulle unghie di Chiara Poggi e l’aplotipo Y della linea paterna di Sempio. La conclusione è matematica: per la traccia «Y428 – MDX5», la contribuzione di Sempio è «da 476 a 2153 volte più probabile». Per la «Y429 – MSX1» è «approssimativamente da 17 a 51 volte più probabile». Non un’assoluzione, non una condanna, ma un dato: Sempio, o un soggetto imparentato in linea paterna con lui, ha contribuito a quelle tracce biologiche. La genetista avverte: «L’analisi del cromosoma Y non consente di addivenire a un esito di identificazione di un singolo soggetto». Ricorda però un passaggio importante: che la mancata replica (in genetica forense un risultato è considerato affidabile solo se può essere riprodotto più volte) è dovuta a «strategie analitiche adottate nel 2014» dal perito Francesco De Stefano, che «hanno di fatto condizionato le successive valutazioni perché non hanno consentito di ottenere esiti replicati». Ovvero: non è colpa delle nuove indagini se i dati sono lacunosi, ma degli errori di allora.
La relazione (di 94 pagine) sostanzialmente non si discosta da quella già effettuata in passato dal professor Carlo Previderé, che nulla aggiunge su come e quando quelle tracce del profilo «Y» sino finite sulle unghie di Chiara. «Nel caso di specie», scrive infatti la genetista, «si tratta di aplotipi misti parziali per i quali non è possibile stabilire con rigore scientifico se provengano da fonti del Dna depositate sotto o sopra le unghie della vittima e, nell’ambito della stessa mano, da quale dito provengano; quali siano state le modalità di deposizione del materiale biologico originario; perché ciò si sia verificato (per contaminazione, per trasferimento avventizio diretto o mediato); quando sia avvenuta la deposizione del materiale biologico».







