2025-08-30
«La salute pubblica è solo un alibi. Il dibattito sui vaccini è ideologico»
Nel riquadro il professore di farmacologia Paolo Puccetti (iStock)
Il professore di farmacologia Paolo Puccetti: «Ormai si riduce tutto a un confronto tra persone invece che tra idee. Il divieto di imporre trattamenti è un diritto inviolabile, forzarlo su chi è capace di intendere e volere è ingiustificabile».Il professor Paolo Puccetti, medico, immunofarmacologo, già professore ordinario all’Università di Perugia e a quella di Roma Tor Vergata, attivo su bioetica, biodiritto e politiche sanitarie, racconta alla Verità il suo punto di vista sull’obbligo vaccinale. Professore, in Italia il dibattito sui vaccini e, più in generale, sulla scienza, appare ancora prigioniero di schemi polarizzati. Perché? «Perché si continua a ridurre tutto a un confronto tra persone, anziché a un confronto tra idee. Si giudica chi siede in una commissione, chi è considerato allineato e chi no, ma non si discute mai dei principi. È un dibattito povero perché ideologico: si parte già con categorie precostituite - “pro vax”, “no vax”, “scienziati”, “antiscienza” - e ci si muove dentro questo recinto. Ma la vera questione non è se i vaccini siano utili, su cui peraltro non c’è motivo di dubitare: il punto è se l’utilità presunta o reale possa diventare di per sé la giustificazione per imporre un trattamento medico a persone capaci di intendere e di volere».Qui entra in gioco la bioetica? «Esatto. La bioetica nasce per interrogarsi sui dilemmi che emergono quando la medicina incontra i limiti della libertà individuale. Il principio cardine è che ogni intervento sanitario richiede il consenso libero e informato del paziente. Non è una formula astratta: è ciò che distingue la cura dalla coercizione. La Convenzione di Oviedo del 1997, ratificata dal Consiglio d’Europa, lo esprime con chiarezza: nessun atto medico può essere praticato senza consenso. La nostra Costituzione lo ribadisce: all’articolo 32 garantisce che nessuno possa essere obbligato a un trattamento sanitario, e aggiunge che la legge non può mai violare i limiti imposti dal rispetto della persona. È un doppio vincolo che non lascia spazio a equivoci».Ma durante la pandemia si parlava molto di «immunità di gregge». Non era questa la ragione dell’obbligo? «L’“immunità di gregge” è un concetto tecnico dell’epidemiologia: significa che, se un certo numero di persone è immunizzato contro una malattia, il virus non riesce più a circolare. È valido per vaccini sterilizzanti, come quelli contro morbillo o poliomielite. Ma non per i vaccini anti-Covid, che hanno mostrato efficacia nel ridurre le forme gravi ma non nel bloccare la trasmissione. Usare quel concetto per giustificare obblighi universali è stato un errore metodologico e, soprattutto, un abuso comunicativo. Si è trasformato un modello matematico in una categoria morale: chi non si vaccinava veniva additato come incivile, irresponsabile, una minaccia alla collettività. Ma questo non era più scienza: era stigmatizzazione sociale».Lei dice quindi che la vera questione non era scientifica, ma etica? «Esattamente. Non bastano i dati, perché i dati non decidono da soli. Il nodo è bioetico: può lo Stato imporre un trattamento medico a chi lo rifiuta?. La risposta, alla luce dei principi, è no. Lo Stato può informare, può raccomandare, può persino incentivare; ma non può sostituirsi alla libertà corporea dell’individuo. Se accettiamo che lo faccia una volta, apriamo una porta che non si richiude: oggi il vaccino, domani una terapia genica, dopodomani un prelievo obbligatorio di organi. Il corpo dell’individuo diventerebbe proprietà collettiva. E questo, sul piano del biodiritto, è inaccettabile».Eppure molti insistono che l’obbligo è «giustificato dalla salute pubblica». «È una semplificazione pericolosa. La salute pubblica è certamente un bene primario, ma non può essere perseguita annullando la dignità individuale. L’articolo 32 della Costituzione lo dice chiaramente: il rispetto della persona è un limite invalicabile, anche per la legge. Non è un dettaglio: è il principio che ci evita di trattare gli esseri umani come strumenti di un progetto collettivo. Senza questa barriera, qualsiasi utilità potrebbe trasformarsi in coercizione. È qui la differenza tra civiltà e barbarie»Quindi la sua critica non riguarda i vaccini in sé, ma un uso della scienza che rischia di diventare ideologia? «Esattamente. Non è un rifiuto della scienza: al contrario, è la difesa della scienza da chi la vuole trasformare in dogma. La scienza non è un catechismo di certezze: è un metodo basato sul dubbio, sulla revisione continua e, per dirla con Popper, sulla falsificabilità. Un’affermazione è scientifica se può essere confutata da un fatto osservabile: “tutti i cigni sono bianchi” resta valida finché non si trova un cigno nero. È proprio questa apertura alla smentita che distingue la scienza dalla religione o dall’ideologia. Il problema nasce quando si dimentica questo, e l’utilità di uno strumento -come i vaccini- viene trasformata in un principio assoluto che giustifichi l’obbligo. Lì non siamo più sul piano del metodo scientifico, ma su quello dello scientismo: la fede cieca che pretende di imporsi a tutti. E lo dico anche con un bagaglio personale: avendo presieduto per anni il comitato di Bioetica dell’Università di Perugia, so quanto sia essenziale che i principi etici e giuridici facciano da contrappeso agli entusiasmi tecnici. La bioetica ricorda alla scienza che la dignità della persona viene prima dei suoi strumenti».Lei ha anche sottolineato la dipendenza della ricerca biomedica dai finanziamenti industriali. Perché lo ritiene rilevante? «Perché condiziona il dibattito e la percezione pubblica. In Italia la ricerca biomedica è di ottimo livello, ma molto più che in altri Paesi europei dipende dai finanziamenti di Big Pharma. Questo crea una vulnerabilità strutturale: congressi sponsorizzati, carriere che dipendono da bandi industriali, persino momenti di formazione organizzati in contesti lussuosi che hanno più la forma di un evento di rappresentanza che di un reale scambio scientifico. Non dico che questo renda inattendibile la scienza, ma certamente la espone a conflitti di interesse e a un clima poco propenso alla critica indipendente».Professore, se dovesse indicare il vero punto di svolta, quale sarebbe? «Il punto di svolta è riconoscere che utilità non significa obbligo. I vaccini possono essere utili, e lo sono stati in molte occasioni storiche. Ma questo non giustifica automaticamente la coercizione. Il consenso non è un optional, ma il fondamento della medicina moderna. È la linea che ci separa da ogni forma di strumentalizzazione del corpo umano. In questo senso, il dibattito sui vaccini non è questione del passato, ma è un banco di prova per il futuro: se sapremo difendere il principio del consenso, avremo preservato la civiltà del nostro tempo».
Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)
Emanuele Fiano (Getty Images)