2025-10-30
Oggi tutti fan della libertà di parola. Ma solo per i compagni di parrocchia
Emanuele Fiano (Getty Images)
Il tentativo di censura subito da Fiano suscita commenti indignati. Ma, alla fine, si conclude che la colpa dell’intolleranza è tutta della destra. E quando si tappa la bocca a chi è sgradito, nessuno si preoccupa.Grazie al vergognoso episodio di intolleranza e ottusità di cui è stato vittima Emanuele Fiano, a cui gruppuscoli di ragazzotti comunisti hanno impedito di parlare all’università Ca’ Foscari di Venezia, la stampa italiana sembra avere scoperto il valore della libertà di pensiero e di espressione. Il Corriere della Sera ha dedicato all’esponente Pd una bella paginata di intervista firmata dal prestigioso Aldo Cazzullo, decisione sacrosanta per ribadire che a nessuno deve essere levata la parola, tanto meno all’interno dell’accademia. Purtroppo però ci tocca notare che gli afflati libertari di via Solferino sono - come quasi sempre accade -limitati a un perimetro molto ristretto. Sentito giustamente Fiano, il grande quotidiano è subito corso ai ripari per spiegare che, se si respira un clima di odio politico, la colpa è della destra, figuriamoci se poteva essere di altri. Carlo Verdelli, in un denso editoriale, si è premurato di spiegare che dalla politica arrivano dei brutti segnali. «Nessuno pensa al ritorno di una dittatura di tipo mussoliniano con gli orpelli che l’hanno caratterizzata: camicie nere, saluto al duce, olio di ricino, botte a chi si oppone, tralasciando il resto e il molto peggio, dall’omicidio degli avversari alle deportazioni nei lager degli ebrei», dice Verdelli. «Però negli ultimi giorni le occasioni per risentire un certo olezzo si sono, certamente per caso, moltiplicate. Basta unire i pezzetti sparsi del puzzle».E quali sarebbero i pezzi? Sentiamo: «A Roma, zona Brancaccio, due schiaffoni a un giornalista, colpevole di indossare una felpa antifascista e di non volersela togliere e neppure di girarla al contrario, sotto lo sguardo della compagna con in braccio il loro figlio di sei mesi. A Genova una ventina di ardimentosi multietnici fa visita con spranghe e bastoni a un liceo occupato, sfascia sedie e banchi, lascia una grande svastica sulle pareti, si dilegua nella notte». Tutto questo fa concludere al fine editorialista che «il me ne frego è un marchio di fabbrica che sta ritrovando un’insperata attualità». Dal succitato puzzle non esce un fascio littorio, ma emerge «una maschera, che per una parte copre un’ombra che si allarga, minimizzando il carico eversivo che porta in sé. Eversivo rispetto all’ordine che i Padri costituenti della nostra Patria hanno voluto per questa Italia, uscita a pezzi proprio da quel Ventennio, tempo ormai lontanissimo e come tale più facile da sbiadire, aggiustare, cancellando i partigiani e tenendosi buoni i cattivi». Interessante. Diciamo che un paio di teppisti picchiatori che attaccano briga una sera e i maranza di Genova che disegnano svastiche sono un po’ poco per gridare al ritorno del fascismo. Ma ormai siamo abituati agli allarmi insulsi. In compenso Verdelli - bontà sua - riesce a citare per qualche riga (senza mai definirli comunisti e di sinistra, ci mancherebbe) anche i pro Pal che hanno tacitato Fiano. Però non si dilunga sulla minaccia antagonista, benché quell’episodio di intolleranza sia l’ultimo di una lunga serie e sia anche l’unico politicamente studiato fra quelli citati. Insomma, a via Solferino, nonostante le difese della libertà, restano alcune vecchie abitudini, in primis quella di vedere fasci ovunque sorvolando contestualmente sulle schifezze d’altro colore. Viene da chiedersi come si possa svelenire il clima di odio di cui discetta Verdelli se da anni, imperterriti, si continua a insistere sul pericolo nero, demonizzando più o meno direttamente ogni fenomeno destrorso. Tra l’altro, accusare i fascisti per lo più immaginari di aver creato una atmosfera violenta e mefitica è decisamente ipocrita. Giova ricordare, a tale proposito, come abbia agito negli ultimi anni il Corriere della Sera nei riguardi di coloro che esprimevano posizioni dissenzienti rispetto alla linea espressa dall’editorialista unico liberal-progressista. Nel periodo Covid il giornale evitò accuratamente di dare spazio a chiunque criticasse il regime sanitario in vigore, e non tralasciò di bastonare a dovere i perfidi no vax. Parliamo dello stesso quotidiano che sbatté in prima pagina, indicandoli quali pericolosi servi di Putin, intellettuali e giornalisti colpevoli soltanto di disapprovare il bellicismo spinto sull’Ucraina. Certo, il Corriere è stato in ottima compagnia, perché i principali media italiani hanno agito e continuano ad agire nello stesso modo.Risulta dunque grottesco che si fingano paladini della libertà a corrente alternata e insistano a parlare di «clima d’odio» incolpando questo o quello (di solito un questo o quello di destra) di fomentare astio. È vero che questa nazione, e non da oggi, è ferocemente divisa. I grandi media hanno fatto di tutto per peggiorare la situazione, infierendo con ogni mezzo possibile sui «nemici del popolo» di volta in volta indicati al pubblico ludibrio. Gli stessi media hanno accuratamente evitato, poi, di indignarsi per gli innumerevoli episodi di censura che non facevano comodo alla loro narrazione. L’ultimo caso è quello di Frédéric Baldan, autore di un libro documentato e affilato su Ursula von der Leyen che, per aver osato accusare la presidente della Commissione Ue, ha subito allucinanti ritorsioni tra cui la chiusura dei conti correnti. Non una riga è uscita in Italia sul suo caso. Perché va bene la libertà di stampa e di opinione, ma senza esagerare per carità.
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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Viktor Orbán durante la visita a Roma dove ha incontrato Giorgia Meloni (Ansa)
Francesca Albanese (Ansa)