Perché Garlasco non è importante tanto per i suoi intrecci narrativi, ma per il fatto che è la presunta corruzione stessa ad aver riscritto più volte la storia con copioni diversi. Per questo ho trovato inappropriato il lungo articolo di Cesare Giuzzi pubblicato domenica 12 ottobre sul Corriere della Sera. L’omicidio di Garlasco viene presentato ironicamente come una soap opera che cambia continuamente trama, come se l’autore non si rendesse conto che il significato del caso giudiziario non è tanto e solo nella soap opera in sé, ma nella sospetta corruzione che ne avrebbe volutamente alterato la trama a scopi di interesse privato.
La stampa mainstream descrive il dito e non vede la luna che quel dito indica: Garlasco si avvia a diventare una nuova Mani pulite, pronta a deflagrare non più nella politica ma, questa volta, nella magistratura. E se con Tangentopoli fu la televisione a coagulare l’attenzione del pubblico, oggi è Internet lo spazio mediatico che fa da teatro al nuovo evento. Internet ha messo Garlasco al centro della scena. Nello stesso tempo però Garlasco ha compiuto su Internet un’operazione fondamentale, dando vita a una vera e propria rivoluzione mediatica.
la nuova audience
Da tempo frequento Internet perché, come sa chi si occupa di tv, la rilevazione dell’audience condotta da strutture qualificate come Auditel è passata a integrare anche i consumi su piattaforme come smartphone, tablet e Pc. Ma si tratta sempre di audience tv fruita su altri device. Consultando YouTube invece, a un curioso dei media non poteva sfuggire la rivoluzione in atto con la riapertura delle indagini sul delitto di Garlasco. La pandemia e la necessità di contrapporre alla verità ufficiale una verità scientifica incontrovertibile ha fatto sì che nascessero nuove testate Internet spesso più serie della stampa mainstream, che davano voce ad eccellenze scientifiche certificate, in alternativa a voci prive di credibilità, ma rese credibili dal semplice motivo di avere accesso agli unici media dotati di credibilità sociale: la tv e la stampa. Queste testate hanno creato un’alternativa non di rado più credibile della versione ufficiale per analizzare la realtà. Le stesse testate alternative presentano tratti comuni riconoscibili. A differenza dei talk show tv, in cui la verità appare come una ricerca conquistata a colpi di opinioni opposte ed in cui l’attenzione è sostenuta dal conflitto delle parti, i format classici di informazione su Internet sono costruiti sul rispetto delle singole opinioni. Gli oratori non si combattono, ma si alternano come all’interno di una semplice conferenza avversta o confermata da una conferenza parallela.
tribuna politica
Il risultato assomiglia più alla «Tribuna politica» della tv pedagogica del servizio pubblico che al talk show odierno, nato negli anni in cui la tv è diventata la grande piazza pubblica in cui era possibile dibattere secondo le regole della democrazia diretta delle origini. La storia della tv è complessa perché prevede un messaggio educativo da veicolare al pubblico. Solo in seguito, con l’ampliarsi della platea diventa «neotelevisione», costruita dall’integrazione col pubblico che diventa parte attiva nei contenuti. Ma solo in seguito, dopo Mani Pulite e con il passaggio dalla tv intrattenimento alla ricerca della Tv-verità sui talk, la televisione assume una nuova funzione di spazio condiviso in cui si dibatte la verità politica.
Oggi la verità politica di Mani Pulite appare discutibile ma, a livello mediatico, il senso della televisione come spazio pubblico resta significativo. Qualcosa di analogo sta succedendo su Internet. Le testate più note perseguono la loro ricerca di una verità «politica» che però è sempre unilaterale, o meglio, è basata su una autorevolezza in cui il pubblico non può che fungere da spettatore. In questo contesto l’evento Garlasco apre nuove prospettive e sembra replicare il fenomeno della prima agorà mediatica televisiva. Da tempo la televisione ha perso la capacità di coinvolgere il suo pubblico nella ricerca di una verità che trascenda il gossip. Viceversa, la riapertura dell’indagine Garlasco sembra stia riuscendovi, ricreando una comunità mediatica, un’agorà che non riguarda la tv, ma appunto Internet.
Si tratta di un fenomeno contraddittorio perché se la televisione generalista come medium contiene nella parola «generalista» l’idea di una platea ampia e articolata, il computer e i device presuppongono un consumo individuale o almeno di «coda lunga», cioè spalmata nel tempo e nello spazio. La tv generalista deve massimizzare la sua audience nell’immediato. Internet garantisce il raggiungimento di sconti considerevoli nel corso del tempo e nello spazio attraverso l’utilizzo di device diversi. Data la natura di Internet, sembra impossibile creare un’interazione, una collaborazione, uno spazio collettivo di ricerca, eppure Garlasco sembra aver realizzato il miracolo di una ricerca collettiva quotidiana in direzione di una verità non più politica, ma giudiziaria. È un fenomeno che non può sfuggire perché sono gli stessi youtuber a sottolinearlo quotidianamente.
oltre il «testimonial»
Prima di tutto si è creato un interesse non legato al singolo testimonial, ma all’argomento. Tucker Carlson ha dimostrato che un testimonial forte può coagulare milioni di contatti, indipendentemente da una rete televisiva di supporto. Garlasco sta a testimoniare che Youtube può raggiungere complessivamente un’audience superiore all’audience televisiva, sommando, sulla base del semplice contenuto, un’audience più nota con un’audience anonima generata dal fenomeno stesso, come una «Garlasco channel». Il fenomeno nuovo è la ricerca corale della verità. I commenti online non sono più marginali, ma parte integrante dell’inchiesta. Un’indagine portata avanti dalle procure di Pavia e di Brescia nel massimo riserbo, ma, contemporaneamente amplificata, moltiplicata, analizzata da un pubblico sempre crescente che rivendica verità e principio di non contraddizione. La tv generalista ne esce con le ossa rotte. La maggioranza delle testate hanno replicato il copione pandemico di assoluta obbedienza al potere: «Andrà tutto bene», «I pronunciamenti dell’autorità americana giudiziaria non sono discutibili». Non ha funzionato. La fiducia cieca nell’infallibilità del potere è morta.
Oggi i programmi tv, se vogliono raccogliere audience, devono accordarsi all’inchiesta degli youtuber, farla propria, accettare una verità dal basso. Questo è un evento. Assistiamo a una partecipazione collettiva che non ha più al centro la politica, ma la giustizia. Penso che lo spirito del tempo abbia cancellato la dimensione per cui, secondo la definizione aristotelica, «l’uomo è un animale politico». Oggi «politico» è sinonimo di malaffare e la verità sembra non riguardare la tutela della società, ma dell’individuo. La dimensione psicologica individuale sostituisce la politica come bene comune.
gente come noi
Di fronte all’omicidio di Garlasco due elementi occupano l’immaginazione collettiva. Da un lato la fine orribile di una giovane che, come Chiara Poggi, impersona la ragazza della porta accanto. Dall’altro la condanna senza prove del povero Alberto Stasi: anch’egli uno di noi. La ricerca della giustizia viene recepita a livello sociale come un movente più forte di quello politico. La politica sembra un valore astratto, ma a ciascuno di noi poteva toccare la sorte di Chiara e Alberto. In un’epoca di astensionismo la maggioranza si rifiuta di votare ma rivendica il suo diritto al controllo sull’operato delle Procure. I cittadini pagano le tasse per ottenere servizi concreti. Anche allo Stato minimo si richiede almeno la sicurezza dei cittadini. E nel momento in cui i giudici sembrano farsi comprare possiamo essere vittime come Chiara Poggi. Tutti possono essere vittime, in modo diverso, come Alberto Stasi. Abbiamo diritto a vigilare sui giudici.
il fattore corruzione
Ma perché proprio Garlasco anziché Yara Gambirasio, Cogne o il mostro di Firenze? La risposta sta nella procura di Pavia e nelle indagini di Fabio Napoleone, percepito su Internet come il nuovo eroe in grado di ripulire la magistratura. La riapertura dell’indagine su Garlasco avviene, cronologicamente, dopo le due inchieste definite Clean 1 e Clean 2 che hanno già accertato, sul piano civile, la corruzione a Pavia. Garlasco non è che la derivazione di un malaffare che coinvolgeva la magistratura penale e civile e prevedeva una corruzione capillare con tariffe accessibili. Quando è emersa l’indagine sull’ex procuratore Venditti, l’avvocato Lovati ha commentato che per corrompere un magistrato, che guadagna secondo il suo giudizio 25.000 euro al mese, 20.000 o 30.000 euro sarebbero una cifra incongrua. Dieci volte tanto, invece, sarebbe comprensibile. La verità è squallida: 20-30.000 euro, che rappresentano comunque oggi per una famiglia una cifra più che considerevole, sono una tariffa media accessibile a una corruzione pianificata che, proprio perché sistemica, non poteva prevedere esborsi inaccessibili se voleva farsi normalità e sistema. Clean 1 e Clean 2, coinvolgendo in parte gli stessi protagonisti dell’indagine di Garlasco, sono il quadro di una corruzione quotidiana e generalizzata senza la cui evidenza Garlasco risulterebbe incomprensibile. Quindi le due indagini civili hanno reso comprensibile l’indagine penale. Ma senza indagine penale, Clean 1 e 2 non avrebbero ricevuto nessuna attenzione.
Il «crime» in sé stesso è un potente motore per coagulare l’attenzione dell’opinione pubblica. Il crime è in sé un sinonimo di storia: rottura dell’equilibrio, eventi eccezionali, infrazione della legge e della normalità. Ma Garlasco è più di un crime: non c’è solo un delitto. Ci sono vari piani di lettura: dalle ipotesi di amori di provincia proibiti, alla pedofilia, fino alle congetture su massoneria e satanismo. Tutto il repertorio della narrativa più «borderline» è presente, coniugato con la banalità del male, le mazzette, la solita corruzione delle istituzioni. Un soggetto così forte da promuovere una rivoluzione mediatica e fare di Youtube la nuova agorà degli italiani.
La morte, anche se prevedibile ed annunziata, lascia sempre una forma di stupore e di incredulità. L’impronta di Silvio Berlusconi sugli anni Ottanta e Novanta del Novecento è stata così forte e così totale che la sua fine appare oggi, anche per i suoi detrattori di allora, avvolta in una sorta di incredulità e insieme di nostalgia. Perché in quegli anni Berlusconi era il centro intorno a cui gli altri, i «loro» messi in scena dal film di Sorrentino, nuotavano cercando visibilità ed attenzione.
Comunque li si voglia giudicare quegli anni sono per l’Italia non solo gli anni del benessere materiale, della Milano da bere e dei consumi, ma anche e soprattutto gli anni di una sorta di vitalità e di egemonia culturale: dettava la linea in ambiti di tendenza e creatività come la moda, la pubblicità, il design, il marketing. Da un lato l’Italia si allinea ai diktat del pensiero consumistico americano, che sostituisce il fare al pensiero critico, il capitale economico al capitale culturale europeo. Dall’altro però lo fa con uno stile ed una creatività propria, imponendo il gusto italiano nel mondo. E si realizza un piccolo miracolo. L’Italia esce dai suoi confini, insegna agli altri a fare televisione, moda, stili di vita. Sono stato testimone di questo miracolo quando, come direttore della Cinq, ho dovuto esportare la televisione commerciale in Francia. Io stesso ero in parte critico verso il gusto prevalente nelle televisione berlusconiana. In realtà tutta la mia formazione è stata francese perché sulla filosofia francese, dall’esistenzialismo a Foucault, ho costruito il mio percorso universitario.
All’esordio La Cinq è stata travolta dalle critiche. Ma dopo gli aggiustamenti iniziali, anche la cultura tradizionale francese ha cominciato ad aprirsi all’idea che la televisione commerciale rappresentava comunque un nuovo medium, una nuova possibilità di espressione con cui era necessario confrontarsi. Ricordo l’emozione con cui vissi la visita improvvisata di Godard nel mio ufficio. Era il mio mito cinematografico e voleva discutere con me di televisione. Cosa voglio dire? Che la televisione commerciale sradicò un modello culturale europeo che non possiamo che rimpiangere. Musica, filosofia, cinema d’autore non funzionano nella televisione commerciale. Ma questa televisione era comunque una nuova forma di espressione e aveva una sua vitalità e i suoi codici. Rappresentava il futuro e come tale non era assimilabile al nichilismo di oggi.
Tutti sanno che il mio rapporto con Berlusconi è stato un rapporto contrastato, ma non posso dimenticare la bellissima opportunità che mi offrì scegliendomi per trasformare Tele Milano in una televisione commerciale. Ho partecipato alla costruzione di quel mondo, alla creazione di Canale 5, Italia 1 e Rete 4. Poi La 5 in Francia e Tele Cinco in Spagna. Ho vissuto fisicamente ad Arcore nel periodo in cui tutto veniva pensato e ideato e non c’erano orari di lavoro o di ufficio, ma la televisione prendeva forma da una sorta di total immersion che si protraeva sino a notte fonda. A Berlusconi mi univa e mi unisce il ricordo della partecipazione a qualcosa di significativo. Mi divideva e mi divide una diversa visione del mondo.
Berlusconi aveva una naturale propensione per lo spettacolo popolare. Varietà, commedia all’italiana, serie americane di successo. Io come cinéphile cercavo di inquadrare ogni prodotto in un genere e metterlo tra virgolette, facendo ricorso alla sua memoria storica. Non a caso Berlusconi mi assunse dopo che avevo catalogato per generi cinematografici il Catalogo Titanus da lui acquistato in blocco. Questo duplice piano di lettura; spettacolo popolare e inquadramento culturale del prodotto funzionò benissimo perché ci permise di lavorare in Francia in un contesto più sofisticato.
Mi è stato chiesto di ricordare un aneddoto e racconterò quello che spiega, nel bene e nel male i nostri rapporti. Quando iniziai a lavorare a Tele Milano, provenivo dalla contestazione del 1968. Berlusconi era invece un imprenditore edile affermato. Non aspiravo, come altri, a emularlo. Ma la nascita della televisione commerciale mi riempiva di entusiasmo e di stupore. E lo percepivo come un compagno in un’avventura importante. Quando mi convocò personalmente, Berlusconi mi disse: «Mentre voi inseguivate la rivoluzione, io mi davo da fare per diventare come Paperon de’ Paperoni». Io volevo fare cultura, Berlusconi voleva fare soldi. Ma eravamo entrambi dei visionari.
C’era un secondo elemento che ci separava e che avrebbe continuato a perseguitarmi anche quando ero ormai in Rai e Berlusconi intervenne col famoso editto bulgaro. Io ho nei confronti della censura una sorta di allergia naturale. Non la tolleravo e non la tollero. Penso che un mezzo di comunicazione abbia come obiettivo, come vocazione, la divulgazione della verità. Ma oggi, con la saggezza dei miei anni, capisco che si tratta di un’utopia. Le televisioni costano. Finanziamenti e censura sono sinonimi. L’imprenditore finisce per piegarsi sempre alla censura per salvare l’azienda. E sulla censura il nostro rapporto si interruppe. Il mio allontanamento della Fininvest avvenne all’epoca di Mani pulite. Io volevo fare tv verità, il Caf (Craxi, Andreotti e Forlani), la politica dell’epoca, pretendeva appoggio dalle televisioni berlusconiane.
Il secondo grande scontro avvenne con l’editto bulgaro che mi sollevò per anni da ogni mansione in Rai e si concretizzò anche in una serie di cause di risarcimento milionarie da cui poi fui integralmente assolto. Subii un ostracismo totale perché rimasi per anni demansionato. Molti compagni di sventura di allora si sono bloccati emotivamente a quel momento e portano rancore. Ma io ho dimenticato tutto quando ho potuto accedere alla nuova avventura delle televisioni digitali. Mi sono idealmente riavvicinato a Berlusconi anche se tra noi non c’è più stato nessun contatto, dopo il colpo di Stato del 2011.
Dopo il governo Monti l’Italia è precipitata in una voragine da cui difficilmente sarà in grado di risollevarsi, perché il suo futuro è già tracciato. Mi sono ricordato allora che il Berlusconi delle origini si proclamava vittima di poteri forti che non riuscivo in quel momento a concepire. Lui era l’uomo più ricco e più potente del Paese, cosa voleva di più? In realtà il conflitto di interessi di Berlusconi che noi critici combattevamo come ingerenza scandalosa nella politica, non era niente rispetto al totalitarismo mondiale di oggi in cui tutta l’informazione è in mano a cinque grandi gruppi mediatici a loro volta proprietà delle grandi corporation del World economic forum. Di fronte a questo mondo inumano, a questa propaganda totale, gli anni di Berlusconi ci appaiono oggi in una nuvola vintage, come la Rosabella di Citizen Kane, lo slittino della sua infanzia rinchiuso in una palla di vetro. E prima di morire Berlusconi stesso ha compiuto un gesto di nostalgia verso quel passato. Prima del ricovero al San Raffaele ha chiesto di essere portato a Milano 2 la città ideale da cui partì la sua fortuna imprenditoriale.
Ho letto con piacere ed attenzione la bella intervista rilasciata a Maurizio Caverzan da Giordano Bruno Guerri. È un insieme di affermazioni di buon senso con cui non si può non essere d’accordo. Ma c’è un punto che mi ha stupito. Guerri si dice affascinato, tra gli autori moderni, dai libri di Yuval Noah Harari. Identifica Harari con autore letterario, mentre per me è molto di più. È l’autore del copione che da tre anni va in onda nella vita reale ad opera del World Economic Forum. È il teorico del futuro che ci aspetta a breve. È un utopista con una differenza fondamentale rispetto a tutti gli altri utopisti della storia. Le loro fantasie erano ambientate in un «non luogo» (utopia) a testimonianza del fatto che il loro stesso autore le riteneva irrealizzabili. L’utopia di Harari si chiama Grande Reset, ed è in corso di attuazione, a tappe forzate, a partire dalla famosa pandemia che Klaus Schwab ha definito un’occasione irripetibile di cambiamento del mondo. Klaus Schwab esprime questo concetto nel suo libro più famoso Covid-19 The Great reset, scritto a quattro mani con Thierry Mallaret. E descrive invece nel dettaglio la natura di questo cambiamento in un’opera precedente (La quarta rivoluzione industriale, con prefazione, nell’edizione italiana, di John Elkann) e successiva (Governare la quarta rivoluzione industriale) in cui si parla apertamente di fusione della natura umana con l’intelligenza artificiale emergente. Ciò sarebbe possibile con un’agenda dì digitalizzazione che i governi di tutto il mondo hanno recepito e fatto propria. Due temi, l’agenda digitale e l’agenda verde, sono al centro del cambiamento epocale in atto sul pianeta. L’uomo deve cambiare la sua stessa natura diventando dipendente dall’agenda digitale. Contestualmente deve ridimensionare i suoi consumi alimentari ed energetici per limitare un riscaldamento globale che le élite ritengono incontestabile, ma che molti esimi scienziati ritengono invece pretestuoso.
Ma cosa c’entra Yuval Noah Harari con Klaus Schwab? Schwab non è abbastanza rassicurante. C’è in Schwab, nel suo accento tedesco, nella sua postura rigida e quasi militare, qualcosa di inquietante. Ed ecco che, nel tempo, l’immaginifico Harari ha sempre più conquistato il centro della scena ed è diventata la voce ufficiale dei forum di Davos. D’altronde Harari non è uno scrittore come gli altri. Il suo successo è il risultato della sua identificazione col sistema. I suoi libri sono best sellers assoluti ed hanno stampato milioni di copie in tutti i paesi del mondo. Il suo libro Sapiens. Breve storia dell’umanità è stato tradotto in trenta lingue. Il successivo, Homo deus, ha avuto una visibilità ed un rilievo anche maggiore. Ma non si tratta di un caso: il sistema lo impone. Harari ha tenuto lezioni obbligatorie in tutte le grandi aziende di Silicon Valley, con lo scopo di procedere alla formazione della nuova classe dirigente. I suoi libri sono la bibbia del mondo che sta per nascere. E non uso il termine a caso perché Harari vuole sostituire il nuovo Homo deus agli dei del passato che erano, secondo lui, compreso Gesù Cristo, fake news. Nel passato l’evoluzione si è svolta naturalmente. Oggi una élite di filantropi è in grado di prendere in mano il progetto evolutivo dell’uomo e del pianeta, per costruire forme di vita inorganica e ibrida. Harari viene definito transumanista e questa visione del transumanesimo ha fatto sì che la parola transumanesimo significhi oramai qualcosa di agghiacciante.
Qualche anno fa ero interessato al transumanesimo come prosecuzione e completamento ideale dell’umanesimo rinascimentale. L’umanesimo ha prodotto filosofia, sapere, bellezza. La frase che meglio definisce l’umanesimo è la famosa definizione di Pico della Mirandola che afferma che l’uomo può scegliere cosa diventare: degenerare nell’animalità o ascendere alla natura divina, con una semplice decisione della sua anima. È un appello a migliorarsi, crescere, elevarsi. Per Harari e per le élite di cui è espressione, i due ruoli, animale e divino, devono separarsi e non saranno più oggetto della scelta di ciascuno di noi. Le élite saranno i nuovi dei, gli uomini normali saranno respinti nel regno animale e come animali saranno allevati e controllati per non alterare l’equilibrio del pianeta. Sopravviveranno a scopi utilitaristici per integrarsi nell’agenda digitale e nella vita inorganica. E dice queste cose apertamente, senza procurare nessuna relazione, ma solo ammirazione nei suoi ascoltatori, diretti interessati e vittime designate dai suoi progetti.
Capisco il fascino che un autore come Harari può suscitare, soprattutto per la presunta modernità di certe sue argomentazioni. Tuttavia bisogna vigilare sulle trappole e i falsi miraggi che il suo pensiero ci prospetta.





