Quando in una città anche le cassiere del supermercato decidono che è arrivato il momento di «armarsi», significa che la situazione sta davvero precipitando. Succede a Treviso, già prima in classifica nazionale per per atti violenti compiuti da minori e teatro - proprio un anno fa - dell’omicidio del ventiduenne Francesco Favaretto, sgozzato in pieno centro da un gruppo di giovani strafatti di ketamina.
Il titolare del supermercato Conad City, che si trova a ridosso del centro storico della città, dopo l’ennesimo episodio di violenza avvenuto all’interno del suo negozio, ha deciso di dotare le dipendenti, e in particolare le cassiere, di spray al peperoncino da tenere a portata di mano durante il turno di lavoro.
Pochi giorni fa, infatti, a metà mattinata, due ubriachi sono entrati con cattive intenzioni e mentre uno si dirigeva verso il reparto alcolici, l’altro si è avvicinato ai banchi dell’ortofrutta e, afferrato un grappolo d’uva, si è messo a mangiare con gusto, cerando di farsi consegnare denaro dai presenti. Invitati ad allontanarsi, i due, hanno reagito con violenza minacciando il titolare del negozio e spaventando il resto del personale, costretto a rifugiarsi nel box informazioni per la paura di essere assalito. Decisivo l’intervento della figlia del proprietario che, vista la situazione di pericolo, con un impeto di coraggio ha sfoderato lo spray al peperoncino e messo in fuga i due. Da lì l’idea di dotare tutte le cassiere del presidio deterrente: «Le cassiere sono giovani e hanno paura» ha dichiarato il titolare alla tv locale, ricordando altri tre episodi simili avvenuti nel giro di un solo mese, uno dei quali costato la frattura di una mano ad un dipendente che cercava di difendere una collega.
Recentemente Il Sole 24 Ore ha posizionato la Provincia di Treviso al primo posto in Italia per numero di minori coinvolti in rapine e aggressioni perché, in città e nel suo comprensorio, il 9,5% delle persone denunciate o arrestate per atti violenti è risultato essere un under 18 (il dato nazionale si ferma al 5%). E insieme ai dati anche le cronache recenti confermano il trend.
A meno di un chilometro di distanza dal supermercato con le cassiere costrette ad «armarsi», dalla parte opposta del centro cittadino, una settimana fa, in una serata di movida, dieci maranza hanno accerchiato e brutalmente pestato quattro giovani i trevigiani, colpevoli solo di aver risposto per le rime alle offese pronunciate dalla gang, con l’intento di provocare. In risposta allo scambio colorito di epiteti uno degli stranieri ha colpito uno dei rivali e, per tentare di far rientrare la situazione, un amico è corso a difenderlo. A quel punto, però, il gruppo di maranza si è accanito su di lui colpendolo al volto, rompendogli mandibola e orbita, e ferendo gli altri con calci e colpi sferrati con il tirapugni. In risposta all’episodio, il comitato Prima i Trevigiani, in sinergia con Azione Studentesca, si è recato nei luoghi dell’aggressione, affiggendo uno striscione con su scritto «Baby gang e maranza, è finita la tolleranza». «Siamo stanchi di associare la nostra generazione a questi atti di teppismo e criminalità. Treviso ha dato prova di una lunga pazienza, ma ora siamo al limite. Chiediamo fermezza immediata, più controlli e l'applicazione di sanzioni esemplari per ripristinare il diritto alla sicurezza e alla serenità di tutti i trevigiani. La tolleranza verso chi semina il panico è ufficialmente finita», ha dichiarato Federico Piasentin, referente giovani del Comitato. A fargli eco il presidente, Leonardo Capion, che ha spiegato: «La violenza nella nostra città, messa in atto da parte di queste bande, va avanti da tempo, anche se in questo periodo è diventata ancora più frequente e comincia ad essere sotto i riflettori. Come Comitato raccogliamo un numero sempre più alto di segnalazioni e di adesioni dai cittadini stanchi della paura di subire assalti e di non poter vivere liberamente le strade e i luoghi pubblici e proseguiremo con le passeggiate che già da tempo organizziamo per la città come forma di deterrenza».
Per Capion «il problema principale è che la giustizia è troppo lenta nel fare il suo corso e che i violenti sono molto spesso minorenni verso cui le pene sono tutt’altro che severe».
In effetti proprio a distanza di un anno dalla morte di Favaretto, il giovane sgozzato con un vetro il 12 dicembre 2024 durante una rissa, è arrivata, per quattro dei sei ragazzi che lo aggredirono, un maxi sconto di pena. Due ragazzi e due ragazze che presero parte al pestaggio, rinviati a giudizio per omicidio volontario aggravato dall’intenzione di effettuare una rapina e di rapina in concorso, hanno chiesto il rito abbreviato e ottenuto la messa alla prova. Non finiranno in carcere ma se la caveranno dedicandosi ai lavori sociali. E nemmeno lavoreranno gratis: per le loro mansioni saranno retribuiti, in modo da poter - secondo i giudici - risarcire la mamma di Francesco nell’ottica di una «giustizia riparativa».
Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Mercoledì scorso Costanza era impegnata a fare il suo lavoro: telecamera addosso, telefono in mano e operatore al seguito, da giornalista esperta quale è, faceva interviste alla gente per strada e nei negozi. Domande semplici sulle abitudini di vita del quartiere, sulla possibilità di vivere all’occidentale, domande lecite, che vogliono mettere in luce una realtà poco lontana da noi e che potrebbe diventare presto anche la nostra.
Ma a Roubaix le domande non le puoi fare.
Costanza è entrata in una macelleria halal, dietro al bancone il proprietario del negozio. Poche parole tra i due, prima cortesi, poi lui, all’improvviso, cambia atteggiamento: «Quando mi ha detto di appoggiare il telefono ho pensato, semplicemente, che non volesse essere ripreso. Ho fatto come mi ha chiesto, ma non mi aspettavo certo quello che poi è successo». L’uomo si impossessa del cellulare, dal retrobottega arriva un giovane, forse il figlio, poi un terzo uomo entra nel negozio. Si passano il telefono di mano in mano, cercando forsennatamente di accendere lo schermo. «Il telefono era bloccato e, per questo, si sono innervositi», racconta Costanza Tosi. «Mi hanno intimato di dare loro il codice di accesso, ho proposto di cancellare di mano mia il video appena fatto, se era quello che volevano... ma loro no. Insistevano per avere il codice del telefono, tanto che il primo uomo ha minacciato di buttarlo nel tritacarne se non gli avessi risposto. Ho capito di essere in pericolo quando era troppo tardi. Nella stanza sono entrate anche alcune donne che hanno bloccato la porta, in modo da non farmi uscire».
Costanza prova a convincere i suoi sequestratori, dice che chiamerà la polizia, chiede rispetto per il suo lavoro, ripete che quello che stanno facendo è illegale, che non possono tenerla prigioniera, che devono farla uscire. Ma il gruppo non sente ragioni. «Se continui ancora ti tiro un destro in testa», la minaccia uno degli energumeni, mentre gli altri ridono. La porta è sempre bloccata dall’interno, la giornalista chiede aiuto attraverso il vetro, gesticolando disperata, ma nessuno le va in soccorso. Le persone passano davanti alla vetrina, probabilmente la vedono ma, per loro, lei - bionda, occhi azzurri e senza velo - non è una vittima, ma una che «certamente merita quella punizione».
Dopo oltre un’ora Costanza è distrutta. Seduta a terra in quel negozio che odora di carne, schiacciata dall’indifferenza e dalla violenza delle persone che le stanno intorno e che le ripetono: «È inutile che speri, sei sola qui, non ti aiuterà nessuno». Piange, si sente mancare il respiro. Poi cede e rivela il codice. «Da quel momento con il mio telefono hanno fatto di tutto: hanno cancellato i video, sono entrati nei profili social, hanno fotografato i dati personali in modo da sapere chi sono e dove abito. Ridevano di me per umiliarmi e continuare a farmi paura», racconta ancora, «e poi mi hanno obbligata a chiedere scusa, per tre volte». Lei chiede scusa per salvarsi da quella situazione assurda, figlia di una mentalità che non rispetta le leggi, che non ha rispetto o pietà per una donna sola in balia di un gruppo di uomini e che non ha nessun timore delle forze dell’ordine. «Chiama pure la polizia, mi dicevano, tanto arresterà te che filmavi senza chiedere», racconta ancora la giornalista. E se non è stato così, poco ci è mancato. «Quando sono andata in caserma gli agenti mi hanno accolta sottolineando che non avrei dovuto registrare quei video senza permesso», spiega l’inviata di Fuori dal coro, «e, come fosse una cosa normale, mi hanno informata che di solito, per entrare nel quartiere in cui mi ero addentrata, bisogna chiedere prima all’imam...».
- Crescono le aree di sepoltura «esclusive». E la Chiesa di Milano invita gli oratori ad accettare animatori di fede maomettana.
- E adesso in università arriva la prima moschea per studenti. L’iniziativa nell’ateneo pubblico di Catanzaro. La Lega: «Precedente pericoloso».
Lo speciale contiene due articoli.
Se serviva una prova ulteriore di quanto sia molle il ventre molle del nostro Paese, quando si parla di islam, è bene sapere che nei cimiteri pubblici di tutta Italia, dove la sepoltura è diventata un lusso e anche i prezzi dei loculi sono proibitivi, stanno nascendo, sempre più numerose, le aree riservate alla sepoltura esclusiva dei musulmani. Una sorta di «aree Vip», dove sono garantite metrature adeguate, accesso riservato e, soprattutto, una separazione netta da chi musulmano non è. Non importa se dal Piemonte alla Sicilia lo spazio per inumare i nostri morti sta diventando un problema. Se i fedeli dell’islam ritengono che seppellire i parenti lontano dagli infedeli sia un «sacrosanto diritto», chi dice di no «è un razzista». Perciò, mentre quasi il 40% degli italiani - per risparmiare centimetri - sceglie la cremazione dei propri cari, il numero delle zone esclusive continua a salire, nelle città come nei paesini.
Foggia, Albenga, Acqui Terme, Terni, Belluno, sono alcuni dei Comuni che, solo negli ultimi mesi si sono dedicati alla questione. L’Ucoii pubblica un elenco ufficiale di 760 cimiteri islamici, ma il censimento è fermo al 2013 e, considerato che l’impennata di questo trend risale all’epoca Covid, ad oggi il numero è, certamente, più alto.
In ogni caso l’impegno è gravoso e non si tratta di trovare qualche metro qua e là. Gli spazi esclusivi devono essere «completamente dedicati», «chiaramente segnalati», abbastanza grandi da permettere la sepoltura delle salme con il capo rivolto verso La Mecca e, comunque, tali da garantire ai numerosi visitatori di raccogliersi in preghiera quando occorre. Accettata, invece, l’idea di utilizzare le bare a protezione dei resti. Fatto per nulla scontato, considerato che il rito musulmano, se applicato alla lettera, prevederebbe la sepoltura del corpo a contatto con la terra, avvolto in un telo bianco.
Il caso più recente è quello di Bovolone, 16.000 abitanti in provincia di Verona. Il sindaco, Orfeo Pozzani, ha deciso di dedicare un’intera nuova ala del cimitero cittadino alla sepoltura delle persone di «fede non cattolica». Nei fatti «uno spazio che sarà appannaggio degli islamici», ha protestato Matteo Pressi, candidato consigliere regionale per la Lega in Veneto, sottolineando come «le risorse pubbliche dovrebbero essere destinate a priorità più importanti». Tuttavia, a chiederlo è stata la comunità musulmana e secondo il sindaco «l’amministrazione non può rifiutarsi poiché c’è una norma nazionale al riguardo».
Ma davvero esiste un obbligo per i Comuni? Il riferimento è il decreto 285 del 1990, che all’articolo 100 spiega: «I piani regolatori cimiteriali possono prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri di persone professanti un culto diverso da quello cattolico» e «alle comunità straniere può essere data dal sindaco in concessione un’area adeguata nel cimitero». «Possono» e «può», recita il testo e, dunque, non esiste alcun obbligo.
La facoltà di scelta è lasciata in capo ai sindaci, ma siccome l’islam non ha sottoscritto intese con lo Stato italiano né esiste una norma che definisca gli estremi della questione, molti primi cittadini - senza distinzione di colore politico - finiscono per adeguarsi alle richieste delle comunità islamiche locali.
A Lecco, per esempio, di queste aree riservate ne sta nascendo una piuttosto importante: alcune centinaia di metri quadrati nel cimitero del quartiere Castello «per garantire l’inumazione individuale dei defunti» e «il corretto orientamento della salma», caratteristiche «non conciliabili con l’organizzazione ordinaria dei cimiteri cittadini», dove prevale la razionalizzazione degli spazi. L’area riservata, in questo caso, sarà costruita e finanziata interamente dall’associazione Eden - gestita da un referente della comunità islamica locale - che pare aver stabilito con l’amministrazione anche un protocollo operativo per la gestione.
Su questa falsa riga Bergamo, nel 2019, aveva stipulato una convenzione con il Centro Culturale Islamico locale che, oltre a beneficiare dell’area esclusiva, aveva preteso (e ottenuto) di essere riconosciuto ufficialmente dal Comune come «ente certificatore» degli aspiranti seppellendi, in modo da poter ammettere o vietare, a piacimento, l’accesso in quell’area a seconda del grado di islamizzazione dei defunti. A seguito del ricorso di alcune famiglie musulmane, la clausola è poi stata dichiarata illegittima dal Tar di Brescia.
Ma se la legge italiana non prevede obblighi, cosa dice il Corano a proposito delle sepolture?
La cremazione è certamente proibita ma, come riportato in un articolo di Carlo De Angelo, ricercatore dell’Università di Napoli, mentre le interpretazioni più stringenti della Fatāwā vietano «il seppellimento dei musulmani nei cimiteri non islamici», il Consiglio Europeo per le Fatāwā e le Ricerche (Ecfr), che dal 1997 si occupa di calare nella realtà i dettami dell’Islam, sostiene che possono «essere seppelliti ovunque, anche in uno spazio comune in un cimitero non islamico». Quindi anche le comunità musulmane possono scegliere cosa pretendere. A proposito di scelte: pochi giorni fa la Chiesa di Milano ha pubblicato un vademecum dal titolo «L’oratorio come luogo di incontro interreligioso». Il documento prende atto che «numerose famiglie islamiche lasciano i loro figli in oratorio» e, rivolgendosi alle parrocchie, aggiunge un fondamentale precetto: «Accettare i musulmani nel ruolo di animatori» evitando di «obbligarli a partecipare a momenti propri della tradizione cristiana».
E adesso in università arriva la prima moschea per studenti
A Catanzaro, tra microscopi e camici bianchi, è arrivato il tappeto da preghiera. All’interno del Policlinico dell’Università Magna Graecia è stato inaugurato il primo spazio per il culto islamico in un ateneo pubblico italiano. Un luogo, spiegano dal rettorato, «di raccoglimento e dialogo», ma che ha subito scatenato una polemica destinata ad andare ben oltre i confini calabresi.
L’area, realizzata all’interno dell’Edificio delle Bioscienze, sarà gestita dall’associazione Dar Assalam ODV e destinata agli studenti, al personale e ai pazienti di fede musulmana. Potrà ospitare le cinque preghiere quotidiane, il sermone del venerdì e le principali festività islamiche, l’Eid al-Fitr e l’Eid al-Adha. Un gesto che, secondo il rettore Giovanni Cuda, «nasce da un bisogno reale e profondamente sentito all’interno dell’università» e risponde «al principio costituzionale della libertà religiosa». Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti rappresentanti dell’associazione islamica, dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, dell’Amministrazione comunale e della Polizia di Stato. Tutto, almeno in apparenza, nel segno del dialogo interreligioso.
Ma il segnale ha diviso. E non poco. Il deputato leghista Rossano Sasso, capogruppo in Commissione Cultura alla Camera, ha annunciato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Università Anna Maria Bernini, definendo l’iniziativa «un pericoloso passo verso l’islamizzazione della società». «L’università», ha dichiarato, «destina metri quadrati al sermone del venerdì dell’imam e alle sue cinque preghiere quotidiane anziché migliorare l’offerta formativa e offrire maggiori servizi agli studenti italiani».
Il punto, per Sasso, non è solo logistico ma culturale. «Davvero siamo disposti», ha aggiunto, «a cedere la nostra identità, in un ambiente simbolo di libertà, sviluppo e ricerca, per dare spazio a una religione che in molti suoi aspetti contrasta con i nostri principi?». Una domanda che pesa, e che risuona in un’Italia dove la parola «integrazione» rischia spesso di tradursi in «rinuncia».
Il rettore Cuda respinge le accuse. In una nota ha ribadito che lo spazio «non è utilizzato per attività didattiche, è di piccole dimensioni e non comporta alcuna spesa aggiuntiva per l’ateneo». Al contrario, sostiene, «rappresenta un gesto di inclusione, di pace e di rispetto reciproco». L’obiettivo, ha spiegato, è quello di «offrire un punto di raccoglimento per chi ne sente il bisogno, in coerenza con la vocazione culturale e pluralista dell’università».
La decisione arriva in un momento delicato, in cui la convivenza tra culture e religioni diverse si misura ogni giorno con tensioni e contraddizioni. In nome dell’inclusione, il rischio è di trasformare la neutralità dello Stato in un terreno di conquista identitaria. E se da un lato c’è chi parla di «dialogo», dall’altro cresce il timore che si stia scivolando verso una progressiva normalizzazione di simboli e rituali religiosi all’interno di spazi pubblici. La domanda, a questo punto, è politica ma anche culturale: dove finisce il diritto alla libertà religiosa e dove inizia la necessità di difendere l’identità di un Paese fondato su radici, valori e tradizioni che non possono essere cancellati in nome del relativismo?
Catanzaro diventa così un laboratorio del nuovo equilibrio tra fede e istituzioni, tra diritti individuali e tenuta collettiva. Un piccolo spazio di preghiera, certo. Ma anche un grande interrogativo per l’Italia di oggi: quella che, mentre invoca il dialogo, sembra dimenticare che il rispetto non può mai tradursi in sottomissione.





