Sequestrata in una macelleria da un gruppo di musulmani. Minacciata, irrisa, costretta a chiedere scusa senza una colpa. È durato più di un’ora l’incubo di Costanza Tosi, giornalista e inviata per la trasmissione Fuori dal coro, a Roubaix, in Francia, una città dove il credo islamico ha ormai sostituito la cultura occidentale.
Mercoledì scorso Costanza era impegnata a fare il suo lavoro: telecamera addosso, telefono in mano e operatore al seguito, da giornalista esperta quale è, faceva interviste alla gente per strada e nei negozi. Domande semplici sulle abitudini di vita del quartiere, sulla possibilità di vivere all’occidentale, domande lecite, che vogliono mettere in luce una realtà poco lontana da noi e che potrebbe diventare presto anche la nostra.
Ma a Roubaix le domande non le puoi fare.
Costanza è entrata in una macelleria halal, dietro al bancone il proprietario del negozio. Poche parole tra i due, prima cortesi, poi lui, all’improvviso, cambia atteggiamento: «Quando mi ha detto di appoggiare il telefono ho pensato, semplicemente, che non volesse essere ripreso. Ho fatto come mi ha chiesto, ma non mi aspettavo certo quello che poi è successo». L’uomo si impossessa del cellulare, dal retrobottega arriva un giovane, forse il figlio, poi un terzo uomo entra nel negozio. Si passano il telefono di mano in mano, cercando forsennatamente di accendere lo schermo. «Il telefono era bloccato e, per questo, si sono innervositi», racconta Costanza Tosi. «Mi hanno intimato di dare loro il codice di accesso, ho proposto di cancellare di mano mia il video appena fatto, se era quello che volevano... ma loro no. Insistevano per avere il codice del telefono, tanto che il primo uomo ha minacciato di buttarlo nel tritacarne se non gli avessi risposto. Ho capito di essere in pericolo quando era troppo tardi. Nella stanza sono entrate anche alcune donne che hanno bloccato la porta, in modo da non farmi uscire».
Costanza prova a convincere i suoi sequestratori, dice che chiamerà la polizia, chiede rispetto per il suo lavoro, ripete che quello che stanno facendo è illegale, che non possono tenerla prigioniera, che devono farla uscire. Ma il gruppo non sente ragioni. «Se continui ancora ti tiro un destro in testa», la minaccia uno degli energumeni, mentre gli altri ridono. La porta è sempre bloccata dall’interno, la giornalista chiede aiuto attraverso il vetro, gesticolando disperata, ma nessuno le va in soccorso. Le persone passano davanti alla vetrina, probabilmente la vedono ma, per loro, lei - bionda, occhi azzurri e senza velo - non è una vittima, ma una che «certamente merita quella punizione».
Dopo oltre un’ora Costanza è distrutta. Seduta a terra in quel negozio che odora di carne, schiacciata dall’indifferenza e dalla violenza delle persone che le stanno intorno e che le ripetono: «È inutile che speri, sei sola qui, non ti aiuterà nessuno». Piange, si sente mancare il respiro. Poi cede e rivela il codice. «Da quel momento con il mio telefono hanno fatto di tutto: hanno cancellato i video, sono entrati nei profili social, hanno fotografato i dati personali in modo da sapere chi sono e dove abito. Ridevano di me per umiliarmi e continuare a farmi paura», racconta ancora, «e poi mi hanno obbligata a chiedere scusa, per tre volte». Lei chiede scusa per salvarsi da quella situazione assurda, figlia di una mentalità che non rispetta le leggi, che non ha rispetto o pietà per una donna sola in balia di un gruppo di uomini e che non ha nessun timore delle forze dell’ordine. «Chiama pure la polizia, mi dicevano, tanto arresterà te che filmavi senza chiedere», racconta ancora la giornalista. E se non è stato così, poco ci è mancato. «Quando sono andata in caserma gli agenti mi hanno accolta sottolineando che non avrei dovuto registrare quei video senza permesso», spiega l’inviata di Fuori dal coro, «e, come fosse una cosa normale, mi hanno informata che di solito, per entrare nel quartiere in cui mi ero addentrata, bisogna chiedere prima all’imam...».
- Crescono le aree di sepoltura «esclusive». E la Chiesa di Milano invita gli oratori ad accettare animatori di fede maomettana.
- E adesso in università arriva la prima moschea per studenti. L’iniziativa nell’ateneo pubblico di Catanzaro. La Lega: «Precedente pericoloso».
Lo speciale contiene due articoli.
Se serviva una prova ulteriore di quanto sia molle il ventre molle del nostro Paese, quando si parla di islam, è bene sapere che nei cimiteri pubblici di tutta Italia, dove la sepoltura è diventata un lusso e anche i prezzi dei loculi sono proibitivi, stanno nascendo, sempre più numerose, le aree riservate alla sepoltura esclusiva dei musulmani. Una sorta di «aree Vip», dove sono garantite metrature adeguate, accesso riservato e, soprattutto, una separazione netta da chi musulmano non è. Non importa se dal Piemonte alla Sicilia lo spazio per inumare i nostri morti sta diventando un problema. Se i fedeli dell’islam ritengono che seppellire i parenti lontano dagli infedeli sia un «sacrosanto diritto», chi dice di no «è un razzista». Perciò, mentre quasi il 40% degli italiani - per risparmiare centimetri - sceglie la cremazione dei propri cari, il numero delle zone esclusive continua a salire, nelle città come nei paesini.
Foggia, Albenga, Acqui Terme, Terni, Belluno, sono alcuni dei Comuni che, solo negli ultimi mesi si sono dedicati alla questione. L’Ucoii pubblica un elenco ufficiale di 760 cimiteri islamici, ma il censimento è fermo al 2013 e, considerato che l’impennata di questo trend risale all’epoca Covid, ad oggi il numero è, certamente, più alto.
In ogni caso l’impegno è gravoso e non si tratta di trovare qualche metro qua e là. Gli spazi esclusivi devono essere «completamente dedicati», «chiaramente segnalati», abbastanza grandi da permettere la sepoltura delle salme con il capo rivolto verso La Mecca e, comunque, tali da garantire ai numerosi visitatori di raccogliersi in preghiera quando occorre. Accettata, invece, l’idea di utilizzare le bare a protezione dei resti. Fatto per nulla scontato, considerato che il rito musulmano, se applicato alla lettera, prevederebbe la sepoltura del corpo a contatto con la terra, avvolto in un telo bianco.
Il caso più recente è quello di Bovolone, 16.000 abitanti in provincia di Verona. Il sindaco, Orfeo Pozzani, ha deciso di dedicare un’intera nuova ala del cimitero cittadino alla sepoltura delle persone di «fede non cattolica». Nei fatti «uno spazio che sarà appannaggio degli islamici», ha protestato Matteo Pressi, candidato consigliere regionale per la Lega in Veneto, sottolineando come «le risorse pubbliche dovrebbero essere destinate a priorità più importanti». Tuttavia, a chiederlo è stata la comunità musulmana e secondo il sindaco «l’amministrazione non può rifiutarsi poiché c’è una norma nazionale al riguardo».
Ma davvero esiste un obbligo per i Comuni? Il riferimento è il decreto 285 del 1990, che all’articolo 100 spiega: «I piani regolatori cimiteriali possono prevedere reparti speciali e separati per la sepoltura di cadaveri di persone professanti un culto diverso da quello cattolico» e «alle comunità straniere può essere data dal sindaco in concessione un’area adeguata nel cimitero». «Possono» e «può», recita il testo e, dunque, non esiste alcun obbligo.
La facoltà di scelta è lasciata in capo ai sindaci, ma siccome l’islam non ha sottoscritto intese con lo Stato italiano né esiste una norma che definisca gli estremi della questione, molti primi cittadini - senza distinzione di colore politico - finiscono per adeguarsi alle richieste delle comunità islamiche locali.
A Lecco, per esempio, di queste aree riservate ne sta nascendo una piuttosto importante: alcune centinaia di metri quadrati nel cimitero del quartiere Castello «per garantire l’inumazione individuale dei defunti» e «il corretto orientamento della salma», caratteristiche «non conciliabili con l’organizzazione ordinaria dei cimiteri cittadini», dove prevale la razionalizzazione degli spazi. L’area riservata, in questo caso, sarà costruita e finanziata interamente dall’associazione Eden - gestita da un referente della comunità islamica locale - che pare aver stabilito con l’amministrazione anche un protocollo operativo per la gestione.
Su questa falsa riga Bergamo, nel 2019, aveva stipulato una convenzione con il Centro Culturale Islamico locale che, oltre a beneficiare dell’area esclusiva, aveva preteso (e ottenuto) di essere riconosciuto ufficialmente dal Comune come «ente certificatore» degli aspiranti seppellendi, in modo da poter ammettere o vietare, a piacimento, l’accesso in quell’area a seconda del grado di islamizzazione dei defunti. A seguito del ricorso di alcune famiglie musulmane, la clausola è poi stata dichiarata illegittima dal Tar di Brescia.
Ma se la legge italiana non prevede obblighi, cosa dice il Corano a proposito delle sepolture?
La cremazione è certamente proibita ma, come riportato in un articolo di Carlo De Angelo, ricercatore dell’Università di Napoli, mentre le interpretazioni più stringenti della Fatāwā vietano «il seppellimento dei musulmani nei cimiteri non islamici», il Consiglio Europeo per le Fatāwā e le Ricerche (Ecfr), che dal 1997 si occupa di calare nella realtà i dettami dell’Islam, sostiene che possono «essere seppelliti ovunque, anche in uno spazio comune in un cimitero non islamico». Quindi anche le comunità musulmane possono scegliere cosa pretendere. A proposito di scelte: pochi giorni fa la Chiesa di Milano ha pubblicato un vademecum dal titolo «L’oratorio come luogo di incontro interreligioso». Il documento prende atto che «numerose famiglie islamiche lasciano i loro figli in oratorio» e, rivolgendosi alle parrocchie, aggiunge un fondamentale precetto: «Accettare i musulmani nel ruolo di animatori» evitando di «obbligarli a partecipare a momenti propri della tradizione cristiana».
E adesso in università arriva la prima moschea per studenti
A Catanzaro, tra microscopi e camici bianchi, è arrivato il tappeto da preghiera. All’interno del Policlinico dell’Università Magna Graecia è stato inaugurato il primo spazio per il culto islamico in un ateneo pubblico italiano. Un luogo, spiegano dal rettorato, «di raccoglimento e dialogo», ma che ha subito scatenato una polemica destinata ad andare ben oltre i confini calabresi.
L’area, realizzata all’interno dell’Edificio delle Bioscienze, sarà gestita dall’associazione Dar Assalam ODV e destinata agli studenti, al personale e ai pazienti di fede musulmana. Potrà ospitare le cinque preghiere quotidiane, il sermone del venerdì e le principali festività islamiche, l’Eid al-Fitr e l’Eid al-Adha. Un gesto che, secondo il rettore Giovanni Cuda, «nasce da un bisogno reale e profondamente sentito all’interno dell’università» e risponde «al principio costituzionale della libertà religiosa». Alla cerimonia di inaugurazione erano presenti rappresentanti dell’associazione islamica, dell’Arcidiocesi di Catanzaro-Squillace, dell’Amministrazione comunale e della Polizia di Stato. Tutto, almeno in apparenza, nel segno del dialogo interreligioso.
Ma il segnale ha diviso. E non poco. Il deputato leghista Rossano Sasso, capogruppo in Commissione Cultura alla Camera, ha annunciato un’interrogazione parlamentare al ministro dell’Università Anna Maria Bernini, definendo l’iniziativa «un pericoloso passo verso l’islamizzazione della società». «L’università», ha dichiarato, «destina metri quadrati al sermone del venerdì dell’imam e alle sue cinque preghiere quotidiane anziché migliorare l’offerta formativa e offrire maggiori servizi agli studenti italiani».
Il punto, per Sasso, non è solo logistico ma culturale. «Davvero siamo disposti», ha aggiunto, «a cedere la nostra identità, in un ambiente simbolo di libertà, sviluppo e ricerca, per dare spazio a una religione che in molti suoi aspetti contrasta con i nostri principi?». Una domanda che pesa, e che risuona in un’Italia dove la parola «integrazione» rischia spesso di tradursi in «rinuncia».
Il rettore Cuda respinge le accuse. In una nota ha ribadito che lo spazio «non è utilizzato per attività didattiche, è di piccole dimensioni e non comporta alcuna spesa aggiuntiva per l’ateneo». Al contrario, sostiene, «rappresenta un gesto di inclusione, di pace e di rispetto reciproco». L’obiettivo, ha spiegato, è quello di «offrire un punto di raccoglimento per chi ne sente il bisogno, in coerenza con la vocazione culturale e pluralista dell’università».
La decisione arriva in un momento delicato, in cui la convivenza tra culture e religioni diverse si misura ogni giorno con tensioni e contraddizioni. In nome dell’inclusione, il rischio è di trasformare la neutralità dello Stato in un terreno di conquista identitaria. E se da un lato c’è chi parla di «dialogo», dall’altro cresce il timore che si stia scivolando verso una progressiva normalizzazione di simboli e rituali religiosi all’interno di spazi pubblici. La domanda, a questo punto, è politica ma anche culturale: dove finisce il diritto alla libertà religiosa e dove inizia la necessità di difendere l’identità di un Paese fondato su radici, valori e tradizioni che non possono essere cancellati in nome del relativismo?
Catanzaro diventa così un laboratorio del nuovo equilibrio tra fede e istituzioni, tra diritti individuali e tenuta collettiva. Un piccolo spazio di preghiera, certo. Ma anche un grande interrogativo per l’Italia di oggi: quella che, mentre invoca il dialogo, sembra dimenticare che il rispetto non può mai tradursi in sottomissione.
Che il settore dell’accoglienza, nel nostro Paese, sia un business gestito da imprese in forma cooperativa è un dato di fatto. E, certamente, non fa eccezione l’accoglienza dei minori allontanati dalle famiglie di origine per gravi motivi e collocati dai Tribunali, in emergenza, nelle «comunità educative» o «case famiglia» che dir si voglia.
Al netto dei minori stranieri non accompagnati (che sono un ramo di attività a parte), il giro d’affari del settore è stimato in oltre 1 miliardo all’anno: più di 23.000 minori da spartirsi, con rette (pagate dallo stato) che variano dai 100 ai 120 euro al giorno e con una «permanenza minima garantita» di circa un triennio. E, il tutto, senza nemmeno un registro che tenga le fila di questi numeri enormi o qualcuno che conosca precisamente quantità e qualità dei servizi offerti.
È a questo assurdo vulnus (perché di bambini rimasti senza famiglia stiamo parlando) che il disegno di legge 1694, presentato dal ministro per la Famiglia, Eugenia Roccella, e dal ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sta provando a rimediare. Con passi piccoli va detto - leggendo il testo si capisce bene quanto una riforma del sistema affido familiare sia ancora lontana - ma, comunque costruendo un punto fermo da cui partire.
L’idea di base della proposta, passata lo scorso 21 ottobre al vaglio della Camera, è «monitorare il ricorso agli affidamenti dei minori temporaneamente privi di un ambiente familiare idoneo» e soprattutto «prevenire e ridurre situazioni di collocamento improprio presso istituti» attraverso la creazione di un «registro e di un osservatorio nazionale di tutte le strutture attive sul territorio».
Il minimo sindacale in un tale mare magnum, penserete, e invece no. Anche su una proposta tanto semplice, in aula alla Camera, il Pd (storicamente il partito più rappresentativo in termini di cooperative di accoglienza) ha deciso, prudentemente, di astenersi: meglio non accollarsi responsabilità su un passaggio legislativo che, nella sua applicazione, potrebbe finire per destabilizzare una situazione così ben consolidata.
Il disegno di legge, infatti, vuole tenere monitorato l’andamento delle permanenze dei piccoli ospiti nelle varie strutture perché, ormai da decenni, i tempi medi vanno ben oltre quelli previsti dalla legge 184 del 1983, che indicava la struttura residenziale come una «extrema ratio» assolutamente «temporanea» da usare al massimo «per alcuni mesi».
Anche se, appunto, di dati precisi non ce ne sono si stima che, in media, i bambini allontanati dalla famiglia d’origine spesso con decreto d’urgenza, restino poi nelle comunità almeno tre anni prima di tornare a casa o trovare un’altra (vera) famiglia. Ci sono casi in cui gli anni diventano ben di più e molti ragazzi raggiungono addirittura la maggiore età senza mai uscirne.
Fatiche burocratiche, lungaggini giudiziarie, poco personale, difficoltà a individuare famiglie affidatarie: queste sono le motivazioni ufficiali dei tribunali e dei servizi che si occupano dei minori per giustificare la situazione. «Un business sulla pelle dei bambini», l’aveva invece definita il ministro Matteo Salvini, quando l’uragano Bibbiano prometteva di scavare a fondo in un sistema nazionale, ancora oggi, pieno di ombre. Vedremo se l’osservatorio voluto dal ddl Roccella ci riuscirà.
Tornando ai numeri: i rapporti ministeriali del 2023 parlano di 33.200 minorenni in situazione di «affidamento», senza distinguere tra quelli collocati in strutture residenziali o nelle famiglie affidatarie, mentre l’autorità garante dell’Infanzia di questi ne conta 23.000 collocati in comunità. Le strutture di accoglienza sarebbero - ma il dato è ipotetico perché appunto non esiste un registro - circa 3.600 sul territorio nazionale e le regioni più fornite risultano essere: Piemonte, Lazio, Puglia, Campania e, nemmeno a dirlo, Lomardia ed Emilia Romagna.
Il comprensorio di Bologna, che ha raccolto un report locale, conta 43 strutture attive dedicate ai più piccoli, tra pronta accoglienza, comunità familiari e case famiglia, mentre a Roma le strutture sono 55. I contributi, erogati dai Comuni con apposite delibere, si aggirano tra i 100 euro e i 120 euro al giorno per ospite, a cui vanno aggiunte erogazioni diverse per servizi particolari per un totale che supera il miliardo all’anno.
«Se hai pensato di aprire una casa famiglia non solo sei una persona lodevole dal punto di vista umano, ma hai avuto anche una buona idea di business: è un’attività che può risultare economicamente gratificante», recitano i claim che si incrociano in rete scorrendo le pagine dedicate al tema. O, ancor meglio, c’è chi propone «il kit start up», per una «casa famiglia in franchising» con «costi di ingresso trasparenti e fee mensili». Nel frattempo, mentre c’è chi prepara il business plan, in Italia sono circa 8.000 le coppie che hanno dato la loro disponibilità ad adottare un bambino e che, senza che più nessuno si stupisca, aspettano anni in «vigile attesa».





