
Il sogno dell'Europa di sbarazzarsi degli Stati nazionali è fallito. L'eguaglianza imposta a tutti ha portato malessere e depressione. Eppure i burocrati insistono nel mettere al primo posto il controllo della spesa.L'Europa l'è malada. Non sarà però tanto semplice guarirla, visto che da quando è nata non è mai stata tanto bene. Uno dei suoi più illustri protagonisti, il tedesco e inglese Ralph Dahrendorf, che fu anche Commissario europeo agli affari esteri e al commercio (si dimise dopo un anno), sosteneva nel 1997, alla vigilia dell'euro (non lo amava, chiamandolo il francomarco), che «l'Europa non può continuare a guardarsi l'ombelico, mentre i pericoli si addensano sulla sua testa». Questo sociologo tedesco (che ho avuto l'onore di avere tra i miei maestri), fatto lord da Elisabetta II per il suo liberalismo intelligente, era uno dei pochissimi politici europei a notare che la globalizzazione aveva creato inevitabilmente localismi di cui però nessun leader politico europeo osava riconoscere le cause e le profonde ragioni. Fu l'Europa a coltivare «il sogno nazionalistico di mettersi al posto degli Stati nazionali» e questo a Dahrendorf non piaceva per niente. Come anche «un'Europa in cui la pizza, la birra, il vino e naturalmente i preservativi e i rubinetti siano uguali dalla Scozia alla Sicilia». L'eguaglianza imposta fa, appunto, ammalare. A preoccuparlo erano soprattutto le future conseguenze tra i giovani della «perdita del senso di casa, dell'orizzonte familiare», provocato appunto dall'utopia del mondo globale.I commissari Ue però, in buona parte professionisti di multinazionali come più tardi Jean Claude Juncker, esecutori di interessi economici soprattutto tedeschi, avevano altri interessi. Nel frattempo, preferivano concentrarsi su «stupidi dettagli burocratici» (sempre Dahrendorf) come le dimensioni delle zucchine e le canne fumarie. L'orientamento politico era comunque un altro, quello dettato dai grandi interessi finanziari che controllavano i partiti di centrosinistra rimasti al potere fino a ora. Il suo simbolo fu appunto la moneta-camicia di forza imposta al continente dopo il trattato di Maastricht: l'euro. Come scrissero già vent'anni fa tre importanti economisti e sociologi della London school of economics, un'istituzione certo non «di destra», «a Maastricht i politici europei scelsero la deflazione e il controllo della spesa, come unico e solo progetto per l'intero continente». I tre studiosi (Mark Baimbridge, Brian Burkitt, e Marie Macey) previdero anche che questa scelta avrebbe provocato prima o poi una forte crisi politica e lo sviluppo di nuovi partiti che si sarebbero ribellati agli obblighi imposti dalla politiche restrittive di Bruxelles e alle loro conseguenze sull'occupazione e offerta di lavoro. È quanto poi è accaduto, e speriamo che adesso qualcosa cambi.Anche perché nel frattempo è l'intero continente, oltre all'idea di Europa, a essersi ammalato, come sempre accade quando un territorio (e i suoi popoli) perde la visione di sé e la capacità di autotutelarsi. Non sono solo i malati oncologici che (come questo giornale ha riferito ieri nell'articolo di Gabriele Carrer) chiedono che l'Unione europea tuteli il diritto alla salute dei suoi cittadini. «I disturbi mentali sono diventati la più grande sfida europea del ventunesimo secolo», rivela uno studio recentemente pubblicato dalla rivista scientifica Lancet. Ormai è circa il 40% della popolazione europea ad avere crisi di depressione, ansia, crisi psichiatriche con varie manifestazioni. Il fenomeno è in forte ascesa: nel 2005 ne soffriva il 27%. Certo, è un problema non solo europeo, ma di civiltà, e di modelli culturali e di sviluppo. L'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato da tempo di vedere il 2020 come un passaggio molto preoccupante dal punto di vista dei disturbi psichiatrici, con la depressione come seconda malattia più diffusa, in tutte le età. Evidentemente qualcuno si è distratto e ha lasciato diffondersi nel mondo un modo di vita profondamente malsano, che toglie addirittura il gusto e il desiderio di vivere (a meno che l'abbia fatto apposta, per interessi personali, o di casta). Anche qui, Dahrendorf aveva visto arrivare il fenomeno, e aveva spiegato con lucida spregiudicatezza perché sarebbe accaduto. È la separazione tra lavoro e sopravvivenza - spiegava nei suoi lavori il sociologo e economista, a produrre nei giovani la depressione e la noia di vivere. Il vero «lavoro buono», quello che fai volentieri e bene, e ti integra davvero al sistema sociale, è quello a cui incominci a pensare e magari a fare fin da ragazzo, aiutato dalla cultura della società, come modo di espressione delle tue capacità di fare, non come simbolo di status o di rassicurazione di personalità che proprio per questo diventano sempre più insicure. La forza dell'Italia, pensava Dahrendorf che l'aveva sinceramente ammirata, era stata quella di partire nel dopoguerra da una situazione di povertà ancora diffusa rispetto agli altri grandi Paesi europei, con una forte capacità e volontà di lavoro. Oggi chiediamo ai ragazzi di fare cose che per loro non hanno senso, non hanno uno scopo riconoscibile. Se poi si aggiunge l'assenza di un'autentica rete sociale e di famiglia, si ha una mistura che può portare a un grave malessere. La mancanza di senso di integrazione e appartenenza, in effetti, è oggi riconosciuta, assieme all'assenza di obiettivi personali, come responsabile dei tassi di suicidio non bassi degli europei, soprattutto nei Paesi nordici, che sono anzi in testa alle classifiche mondiali. Non basta diventare ricchi: il reddito, obiettivo principale dell'Ue, è un elemento importante ma non decisivo della soddisfazione della propria vita. Nei Paesi in testa alle classifiche per reddito come Finlandia e Islanda ci si suicida enormemente di più che in Namibia e in Sudan, che che sono alla coda. Sono poi soprattutto i maschi quelli che in Europa hanno meno voglia di vivere, e si suicidano da cinque a sei volte di più che le femmine. Infatti, soprattutto per i maschi, non è il reddito che fa venir voglia di vivere, ma la possibilità di inventarsi la vita. La standardizzazione del lavoro e dello stile di vita, la cancellazione di ogni diversità e passione personale, tolgono gusto all'esistenza e generano depressione. Gli inglesi, che non hanno paura di essere diversi dagli altri e tengono alla libertà personale, sono entrati nell'Ue tardi, non hanno mai aderito all'euro, e dall'Ue sono usciti per primi. Nel dibattito se entrare o no nell'unione monetaria (1995), il conservatore Lord Pearson aveva messo in guardia dall'«addentrarci come sonnambuli in quella ostinatamente arroccata economia socialistica che si chiama Europa», aggiungendo una notazione inconsciamente profetica sulla Brexit (allora di là da venire): «Se uno ha una casa sul bordo di un precipizio, non chiama un architetto di interni ma una compagnia di assicurazione, per cercare di ottenere quanti più soldi possibile quando cadrà e farsene un'altra». I popoli e gli Stati europei hanno oggi fin troppi elementi per riconoscere che Lord Pearson non aveva tutti i torti. L'Europa ha bisogno di una casa comune molto diversa da questa.
(Ansa)
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Varsavia: «Da noi già troppi ucraini, frontiere chiuse». I tedeschi per gli hub in Paesi terzi. L’Olanda: «Patto con l’Uganda». Invece è stallo sui rimpatri validi in tutta l’Ue.