- Il caso della famiglia del bosco ha portato molti commentatori a ribadire che la prole non appartiene ai genitori. Peccato che quando si tratta di farne compravendita o di ucciderli nel grembo se ne dimentichino sempre.
- La famiglia Trevallion ha spiazzato gli analisti perché trasversale a categorie tradizionali come ricchi contro poveri o colti contro ignoranti. E la gente li ama più delle istituzioni.
Lo speciale contiene due articoli.
Va molto di moda ribadire che i figli non appartengono ai genitori. Lo ha detto Fabio Fazio chiacchierando amabilmente con Michele Serra nel suo salotto: entrambi concordavano sul fatto che i bambini non sono oggetti e devono essere liberi, semmai indirizzati da famiglie, scuola, istituzioni. Lo ha ripetuto ieri sulla Stampa pure lo scrittore Maurizio Maggiani, in prima pagina, prendendosela con la famiglia del bosco e con quello che a suo dire è il delirio dei due genitori. «Non ho nessuna ragione per discutere delle scelte personali», ha spiegato, «non finché diventino un carico per la comunità, nel qual caso la comunità ha buoni motivi per discuterle. Mi interessa invece proprio perché non si tratta di scelta personale, visto che coinvolge i figli, e i figli non sono sé, non sono indistinguibili da chi li ha generati, ma sono per l’appunto altri da sé, individualità aventi diritti che non discendono da un’elargizione dell’autorità paterna o materna, così come sancito dalla Costituzione e dalla convenzione Onu sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza».
Aggiunge poi Maggiani, sempre più focoso: «Se invece Matteo Salvini minaccia di andare a presidiare il bosco incantato non è perché vuole togliersi lo sfizio di cacare in un buco, ma perché strenuamente difende il diritto di proprietà sulla prole per cui una famiglia tira su i suoi figli come meglio crede, i figli sono roba sua, e lo Stato, che si tratti di servizi sociali, di carabinieri, di giudici, di psicologi, di insegnanti, non deve metterci becco; fatta eccezione s’intende che non li cresca nell’arte del borseggio delle vecchiette. Io invece penso che l’idea proprietaria della prole sia un abominio, il frutto tra i più squisiti del patriarcato».
E meno male che siamo riusciti a tirare in mezzo il patriarcato anche in questa storia, ne sentivamo in effetti la mancanza. Va detto, in ogni caso, che sono senz’altro nobili e condivisibili le posizioni di cui ribadisce che i bimbi appartengono al mondo, non sono proprietà e non sono burattini. Ed è più che condivisibile ciò che scrive Maggiani quando spiega che «la proprietà trasforma l’uomo in cosa, le cose sono merce, il valore delle merci è il loro prezzo» e che la «potestà genitoriale non stabilisce una proprietà ma una responsabilità».
Viene tuttavia da domandarsi come mai tutta questa enfasi sui piccini esploda soltanto nelle occasioni in cui fa comodo a un certo tipo di discorso progressista. Guarda caso, si dice che i bambini non appartengono ai genitori se Salvini osa dire mezza parola in difesa di questi medesimi genitori. Si parla dell’autonomia del fanciullo quando questi - contrariamente al parere dei genitori - insiste per vaccinarsi contro il Covid, magari perché (come accadeva qualche anno fa) vuole andare a mangiarsi la pizza con gli amici. Si offre ogni considerazione al bambino o all’adolescente se afferma di appartenere a un genere diverso dal sesso biologico, tanto che da varie parti nel mondo si procede ad avviare i minori verso la transizione senza informare padri e madri, così che non si oppongano al processo.
In altre circostanze, però, che i bambini siano davvero trattati come merce non importa all’intellettuale progressista. Il quale, per esempio, non è affatto mortalmente indignato dall’utero in affitto, che pure è letteralmente compravendita di bambini, per altro su ordinazione e con tanto di contratto. Ancora peggio va con l’aborto: guai a negare che sia un diritto, guai a ricordare che si tratta di sopprimere una vita. In quel caso, il bambino non conta, e un grumo di cellule di cui la madre deve poter fare ciò che vuole, perché appunto lo possiede, e ne dispone a piacimento.
Ma sì, è verissimo, i bambini non appartengono ai genitori. Il fatto è però che non appartengono nemmeno alla comunità (che per altro rivendica con forza il diritto di non metterli al mondo). Non appartengono ai giudici o ai servizi sociali, e nemmeno agli ideologi del cambio di sesso o ai propagandisti politici. Tipo quelli che, da anni, se li portano alle manifestazioni e li fanno salire sui palchi: accadeva ai tempi di Berlusconi, accade oggi in certe sfilate pro Palestina.
I bambini, soprattutto, non appartengono allo Stato, anche se in tanti a sinistra - più o meno consapevolmente - continuano a pensare che invece sia esattamente così. E infatti tutti gli illustri pensatori che da giorni inveiscono contro i Trevallion e la loro vita boschiva se ne fregano bellamente dei danni che il suddetto Stato e la comunità hanno inflitto ai tre bambini, prelevati dalle forze dell’ordine e trasferiti in una struttura senza genitori (potendo vedere la madre ore pasti e il padre qualche minuto al mattino). Di questo trauma chi si fa carico? Le istituzioni amorevoli? Se ne fregano anche, gli accorati editorialisti, dei numerosi altri allontanamenti di bambini che avvengono con inusitata violenza, con irruzioni degli agenti che ricordano le operazioni antimafia o gli assalti ai fortini dei narcotrafficanti. Che fine fanno la libertà e la dignità dei minorenni in questi casi?
I bambini non sono merci, non sono pacchi, è verissimo. Ma allora perché si consente che vengano giudicati un tanto al chilo dai servizi sociali e prelevati come fossero armi di contrabbando o panetti di droga? Viene da pensare, guardando scene come quelle mostrate da Fuori dal coro, che la libertà che i piccoli hanno sia - come sempre - solo quella di aderire allo standard fissato dai sedicenti buoni.
I Trevallion adesso sono un simbolo
Qualcosa finalmente si muove nel rapporto degli italiani con la famiglia e con lo Stato: incominciano a dire cosa ne pensano davvero. Più che la politica-politicata lo dimostrano le reazioni delle persone e dei media alle vicende della famiglia Trevallion, che ha guadagnato un interesse e una popolarità al momento inaccessibili per partiti e istituzioni ufficialmente celebrate. D’altra parte questa famiglia, i genitori, Nathan e Catherine, e i bambini, è invece irresistibilmente sorprendente e quindi simpatica e incomprensibile per interlocutori mediatici e/o burocratici, abituati a ragionare per categorie ormai disseccate, un po’ arcaiche: ricchi/poveri, colti/analfabeti, buoni/cattivi, sani/malati, etc. I Trevallion invece, plurilingui e con ideali affettivi ma anche pratici, non sembrano rifugiati da un altro pianeta, ma rappresentano oggi l’equivalente dei figli dei fiori degli anni ’70, dunque gente che ha visto il mondo, ed è qui perché per ora sta bene qui, gli piace, si è comprata appezzamento e casetta e vuole goderseli, mettendoli a posto poco per volta. In un Paese turistico e con necessità di mano d’opera come l’Italia cittadini simili dovrebbero piuttosto essere accolti con gioia. Si tratta - tra l’altro - della tipologia che la filosofa Hanna Arendt nel suo fondamentale Vita Activa (Bompiani) chiama appunto «artisti»: i quali, possedendo un’arte (ars-artis) si mantengono liberi dalla necessità di lavorare sempre. Quando però - spiega la Arendt - «si presenta la possibilità di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione viene subito colta, perché ci ricorda che gli uomini - anche se devono morire - non sono nati per morire ma per incominciare». Facendo così, impegnandosi in iniziative, le società non rinsecchiscono, morendo. Ed è proprio allora che l’uomo, motivato e commosso, compiendo una nuova azione salva e nutre la vita, propria e degli altri. Ecco perché l’intervento giudiziario con espulsioni e conseguente polverizzazione della famiglia Trevallion era in patetico ritardo di almeno 100 anni sugli avvenimenti in corso nel mondo, e ha suscitato irritazione e anche sgomento: corrisponde a una visione del mondo burocratica, secca, già morta e incollata al suolo, il contrario dei bambini, testimoni della nascita, la crescita, il rinnovamento. Anch’esso niente affatto casuale perché garantito dall’esistenza e continuazione del bosco annesso, che non è una moda snobistica ma un’esigenza vitale del mondo e dell’uomo. Questi aspetti della realtà attuale della società occidentale, non solo italiana, afflitta da un processo di progressiva imbalsamazione tecno-meccanica, con graduale uscita dell’umano dalla scena del mondo, vengono anche presentati in questi giorni per l’Italia in un libro-rapporto sulla famiglia dell’anno 2025 dell’accurato Centro internazionale studi famiglia: Il fragile domani. La famiglia alla prova della contemporaneità (San Paolo, 2015). Il dato ormai noto, confermato nelle ricerche qui raccolte, forse il più significativo del processo in atto, è la graduale scomparsa dei fratelli, aspetto centrale nella funzione formativa della famiglia e nel contributo da essa fornito alla società. Nel campione esaminato le famiglie con figlio unico sono ormai la maggioranza (58%) in Italia: i fratelli diminuiscono andando da Ovest a Est e da Nord a Sud. È un bel guaio, perché nella struttura e funzione della famiglia, formazione dinamica e molteplice, l’altro, il coniuge tra i genitori e il fratello tra i figli è centrale. Come dimostrano gli altri dati forniti dal sondaggio e dalle altre ricerche presentate nel volume la scomparsa dell’altro, coniuge, figlio o fratello, nell’una o l’altra posizione rende problematica la vita degli altri facendo sparire la fondamentale esperienza della comunione. L’altro, e soprattutto gli altri bambini, rappresentano la manifestazione della vita della famiglia e della società, come ha dimostrato Nathan Trevallion quando hanno provato a prendergli i figli. La famiglia è sì un’istituzione, però non formale ma dinamica, che producendo azioni nutrite dall’affetto e dalla spinta al domani genera la storia umana.
Sembra un film di sadismo con poliziotti cattivi di paesi che rischiano di diventare molto lugubri, e vogliono far soffrire i bambini delle residue famiglie ancora felici, trasformando comunità ancora semplici e relativamente sane in gruppi di disperati, dove tra una droga e l’altra ci si accoltella per le strade prima di accodarsi al prossimo sciopero. Come già del resto accade nelle grandi e ormai violentissime città, con sindaci che comunicano con i calzini la loro visione del mondo capovolta. Viene anche da pensare a un complotto per sputtanare l’Italia e tutti gli italiani davanti al mondo intero e dimostrare che non sanno nulla di ciò che nei Paesi anglosassoni si chiama già da almeno 30 anni Ndd, cioè Nature deficit disorder, il cui studio alimenta lavori, iniziative, ricerche, leggi che risalgono ancora all’ultimo decennio del Novecento e hanno messo in moto movimenti e dibattiti che a quanto pare cominciano a dare frutti e fastidio. Il Nature deficit disorder è il disturbo indotto nella personalità e nel comportamento dall’insufficiente presenza di contatto delle persone con la natura incontaminata nella vita del mondo moderno, dominato da costruzioni artificiali e ha un’importanza centrale nel malessere di oggi.
In realtà la prima edizione del mio Maschio Selvatico. Ritrovare la forza dell’istinto rimosso dalle buone maniere (Red edizioni) è del 1993 e le ristampe hanno continuato fino a pochi anni fa, quando è nato il Maschio Selvatico 2 (San Paolo edizioni). Ma il ritrovare un sano e vitale rapporto con la natura e l’istinto non era un’invenzione solo mia, ma un aspetto centrale della ricerca psicologica e sociale della fine del Novecento e dell’inizio del nuovo millennio. Il mondo occidentale si accorgeva gradualmente di quanto la società industriale dei consumi, rimpinzando il mondo maschile con programmi e visioni prevalentemente economiche ed esibizionistiche, lontanissime dalla natura incontaminata e dall’istinto, creasse una vita quotidiana artificiale e debole, affettivamente fredda. In essa il maschio, come anche la donna madre, (risucchiata anch’essa dall’industria, grazie alla promozione dei divorzi con annessa dissoluzione della casa familiare) e i bambini, vedevano gradualmente indebolirsi affetti, gioie, visioni, per seguire un’esistenza in gran parte innaturale, dettata da aspirazioni esclusivamente economiche ed esibizionistiche, fatalmente frustranti, tipo gemelle Kessler. Trionfarono così comportamenti standardizzati, recitativi, molto lontani sia dagli istinti che dalle naturali spinte transpersonali, sociali e affettive.
Tutto ciò produsse una grande quantità di fenomeni di disagio, malattie, crisi, che ispirarono innanzitutto, già nel 1963, l’acutissimo libro dello psichiatra tedesco Alexander Mitscherlich. Sulla via di una società senza padre e poi, nel 1990, il bestseller del poeta e psicoanalista americano Robert Bly: Iron John. A book about men (Addison Wesley Publishing), poi tradotto in tutto il mondo. Da allora a oggi il tema della crisi della famiglia e del padre, e la necessità per tutti di ritrovare un rapporto con la natura più incontaminata possibile come ambiente indispensabile a una ripartenza sana della società occidentale sono diventati evidenze che soltanto forze disumanizzanti possono negare e contrastare. Che le élite politiche ed economiche ritardassero il più possibile di riconoscere i problemi nati da questa situazione, continuando imperterrite sulle recite consumistiche e intellettualistiche del «finirà tutto bene» non ha naturalmente risolto nulla. E il determinato Nathan Trevaillon ripropone oggi l’inestirpabile fenomeno del padre che vuole i suoi bambini, e la sua donna.
C’è poi un altro aspetto, decisivo nella vicenda. L’uomo e la donna non sono soli, abbandonati all’assurda freddezza delle burocrazie dei poteri. C’è il bosco dove il padre scova e ripristina la casa. È anche interessante e rivelatrice, da tutti i punti di vista, la profonda miseria affettiva e cognitiva che ispira il disprezzo per il bosco delle burocrazie del potere, che viene amato dalla (invece) felice coppia Nathan-Catherine con i loro bambini. Dopo più di due secoli di industrializzazione pagata con il sacrificio di alberi, acque naturali, boschi, e umani ridotti a produttori/consumatori, ormai anche i più attenti al decoro, pulizia, igiene riscoprono la forza formativa ed educativa della natura il più possibile incontaminata.
Non capita solo a Chieti: la natura si difende e a volte addirittura avanza. In uno dei due luoghi dove vivo e lavoro, nella provincia di Bolzano, la più ricca d’Italia, sede anche di industrie molto avanzate e affermate nel mondo, ci sono diverse scuole nate nei boschi degli ultimi anni, in parte seguite dalle scuole pubbliche, in parte dai privati, ma tutte riconosciute e attive; finora rispettate dalle Autorità. Sull’altipiano di Renon, sopra Bolzano, c’è asilo e scuola nel bosco, in val Venosta c’è una scuola del bosco, altre piccole sono in zona, con l’aiuto di molti; nell’insieme circa 120 bambini imparano nel bosco e dal bosco, con la consapevolezza e la gioiosa emozione del valore della natura.
È probabilmente un segno che la vita continuerà, malgrado le raggelanti spinte distruttive delle burocrazie del potere.
Ahi, ahi, ahi, c’è un nuovo rischio in Italia. Gli editorialisti più rinomati spiegano che per ragioni complesse, a noi retrogradi, l’ascensore sociale, mito sociologico di passato successo, ormai si è bloccato e la gente per pregiudizi conservatori non crede più che il futuro possa essere meglio. Le persone faticano a migliorare la propria posizione economica e sociale. Anche i più coraggiosi che osano fare figli, comunque credono che ai figli andrà peggio che a loro. L’attenzione e preoccupazione per l’ascensore sociale è interessante perché ripropone una delle immagini più fragili e usurate della società tardomoderna, nella quale certamente ci troviamo, ma dalla quale - altrettanto certamente - moltissima gente vorrebbe anche uscire, e non soltanto i giovanissimi.
Chi l’ha detto infatti che il successo economico e quello simbolico, ma soprattutto il sentirsi bene, venga da quel trovarsi sopra la testa degli altri che ci viene assicurato nell’ormai oltre un secolo di società industriale e di consumo, soprattutto occidentale con i suoi luccicanti ascensori? Perché il cittadino della tarda modernità deve rimanere a tutti costi uno scalatore sociale, come è diventato dopo essersi ripreso dai due massacri delle guerre mondiali?
È vero che nelle aziende la carriera si accompagna al numero del piano dell’ufficio, ma forse è vero che l’essere umano non può restare inchiodato lì. La dea Azienda non fa più miracoli e l’arma Denaro se vuole combinare qualcosa di significativo per gli esseri umani dovrà studiare un po’ di antropologia, come dimostra la condizione umanamente penosa della maggior parte dei miliardari.
Il fatto è che star bene dipende anche dal tuo fare stare bene gli altri, come ogni visione religiosa richiede, e quella cristiana più di tutte le altre. È naturale che la torre, il simbolo più eclatante della società industriale dei consumi, abbia gli ascensori in panne. Non puoi diventare felice rendendo gli altri dipendenti dai tuoi prodotti. Il tuo è un potere malsano, come quello dei mercanti di droga. Ma sopra tutto, a un livello un po’ più profondo, è solo alla Pentecoste, dopo la discesa dello Spirito Santo fra gli uomini, che si comprendono le lingue degli altri in una dimensione di pace e collaborazione. Se non c’è lo Spirito, tutte le torri di Babele con la loro verticalità non hanno comunque mai guadagnato l’indiscutibile primato cui aspiravano. È lo stesso Signore a distruggerle. Per essere felici sulla terra è indispensabile rimanerci sopra, senza fantasie di grandezze artificiali che sono solo salti da circo, abitarla senza ansiogene manie di grandezza e superiorità, ancora oggi molto spinte dalla cultura dominante, ossessivamente materialistica ma poco realista. E da questo punto di vista il rifiuto dell’ascensore sociale di molti giovani oggi va sicuramente capito: le forme, i modi e i contenuti dell’affermazione umana nella società industriale dei consumi sono poverissime, non solo dal punto di vista economico e formale, ma contenutistico, culturale, fisico. E purtroppo sono gli stessi giovani ad ammalarsi per le molteplici droghe artificiali in circolazione, e a morirne.
Come dimostra anche l’esperienza del lavoro psicologico con le persone, l’ossessione vanesia del venire promossi nella vita dai formalismi meccanici dell’attuale ascensore sociale non è più produttiva. Mentre invece lo è l’entrare in contatto e aprirsi ai fenomeni ed esperienze dove «entra in gioco l’energia libera, ossia quella frazione di energia che può essere trasformata in lavoro utile e che quindi alimenta tanto i processi vitali quanto i fenomeni naturali e le nostre tecnologie». (Roberto Battiston Energia Una storia di creazione e distruzione. Raffaello Cortina Editore).
È una fase difficile ed emozionante, in cui si ha a che fare con le parti di energia non ancora «disperse in forme di calore uniforme» per farne forze costruttive: di società, personalità, città, boschi, culture. Sono in molti, ora, che si trovano ad averci a che fare: fisici, psicoanalisti, neuroscienziati, filosofi, insegnanti. Politici per ora pochini. L’importante è partire da energie libere e non da scenari costosi, ingombranti e inutilizzabili.





