Giudice della Corte Suprema americana, Amy Coney Barrett (Getty)
La storica sentenza della Amy Coney Barrett segna un riequilibrio dei poteri a favore della rappresentanza. Ma la sinistra se ne rammarica...
Malgrado le previsioni di sfracelli, Wall Street torna a livelli record. Il disegno sul Medio Oriente, tra sparate e contraddizioni, prosegue. E il braccio di ferro con l’Ue su tasse e tariffe lo vede vincente: è il caso di capirlo.
Alla fine, come il giorno dopo le elezioni, quando i leader sono chiamati a commentare i risultati, hanno vinto tutti. O almeno così dicono, per poter salvare la faccia. Cominciamo dalla guerra tra Iran e Israele. L’ayatollah Khamenei si è fatto vivo dal bunker in cui si era nascosto per farci sapere che ha vinto contro il grande e il piccolo Satana. Già che c’era il regime ha aggiunto che gli Stati Uniti dovranno riparare i danni di guerra, ricostruendo le centrali nucleari che hanno bombardato. Se non ci fossero di mezzo decine di morti ci sarebbe da ridere. Ha vinto, o per lo meno così dice, anche Israele, perché ha eliminato gran parte dei vertici militari della Repubblica islamica e distrutto postazioni e caserme delle forze nemiche. A Netanyahu non è riuscito di rovesciare il regime e neppure di far secca la guida suprema, come avrebbe voluto, ma forse in cuor suo spera che la partita sia solo rinviata. Può gioire anche Donald Trump, che con poco sforzo (18 ore di volo dei super bombardieri, 14 mega ordigni sganciati e 14 missili evitati) è riuscito a mettere la parola fine al conflitto mediorientale che spaventava il mondo e adesso potrà insistere a dire di meritarsi il Nobel per la pace.
Ma se i protagonisti del triangolo Teheran, Gerusalemme e Washington, sono contenti e cantano tutti vittoria, anche altri festeggiano per l’accordo sulle spese militari a sostegno della Nato. Come è noto, l’America vuole che a pagare per la difesa europea siano i Paesi che compongono la Ue. Per anni gli Stati Uniti si sono fatti carico dei costi delle basi disseminate nel Vecchio continente, mantenendo truppe e armamenti. Ma adesso che la Guerra fredda non c’è più e la Russia minaccia i Paesi vicini ma non gli Usa, la Casa Bianca non ha intenzione di sobbarcarsi le spese Nato. L’argomento era stato anticipato da Biden, ma Trump, con la sua nota capacità diplomatica, ci ha messo il carico, minacciando di voltare le spalle agli alleati. In questi mesi si è discusso a lungo, con alcuni Paesi disposti a investire di più, ma non oltre il 2 per cento del Pil. Però l’America insisteva per il 5 per cento e se una parte della Ue sembrava disposta ad acconsentire (anche perché ha bisogno di riconvertire la propria industria, usando le catene di montaggio delle auto per costruire carrarmati), un’altra - venata di pacifismo e ideali green - si opponeva. Alla fine, riuniti all’Aia, i leader hanno trovato l’intesa che salva capra e cavoli, ovvero la faccia di chi pretende maggiori investimenti in armi e di chi invece mira a dimostrare che non spenderà in cannoni e bombardieri un euro più del previsto.
In pratica, il vertice dei 32 Paesi aderenti alla Nato si è concluso con una mandrakata che consente a tutti di dichiararsi vincitori. Trump, confortato dagli sms ricevuti da Mark Rutte, segretario della Nato, può dire di aver raggiunto un risultato «monumentale» per gli Stati Uniti, in quanto è passata la linea del 5 per cento del Pil. Pedro Sánchez, che in casa deve fare i conti con la sinistra della sua maggioranza, ha la possibilità di sostenere che manterrà gli investimenti nella Difesa al 2,1 per cento, senza togliere un soldo a sanità e welfare, perché la spesa sarà sufficiente a mantenere gli impegni. Emmanuel Macron festeggia perché l’America rimarrà a fianco dell’Europa e Keir Starmer fa spallucce perché la Gran Bretagna già investe il 4,1 per cento. Meloni si dice contenta perché l’aumento delle spese militari andrà a beneficio delle aziende italiane e sarà un circolo virtuoso per l’economia. Quanto a Friedrich Merz, dice che con il 5 per cento non si sta facendo un favore a nessuno, ma in realtà a essere favorita è la Germania, che deve riconvertire le proprie aziende.
Insomma, tutti contenti. Soprattutto perché l’impegno al momento resta sulla carta, senza nessun riscontro immediato. L’obiettivo è rimandato al 2035, con una prima verifica nel 2029. Fatti un po’ di conti, se ne deduce che fra quattro anni pochi di quelli che hanno sottoscritto l’impegno saranno ancora in carica. Di sicuro tra di loro, ovvero tra quelli al proprio posto, non ci saranno Macron e nemmeno Trump. Dubito che riusciranno a sopravvivere, politicamente, Sánchez e alcuni altri primi ministri europei. Se devo fare una previsione, molto probabilmente ci sarà Meloni e forse Merz, ma di certo saranno spariti o quasi i socialisti. E a questo punto, il problema del 5 per cento non sarà più di stringente attualità e tale da mettere in crisi le maggioranze di sinistra.