2025-11-25
Per superare la dipendenza cinese adesso Bruxelles si ispira a Trump
Stéphane Séjourné (Getty)
La Commissione vuole vincolare i fondi di Pechino all’uso di fornitori e lavoratori europei: «È la stessa agenda di Donald Trump». Obiettivo: evitare che il Dragone investa nascondendo il suo know how, come accade in Spagna.Mai più un caso Saragozza. Sembra che quanto successo nella città spagnola, capoluogo dell’Aragona, rappresenti una sorta di spartiacque nella strategia masochistica europea verso la Cina. Il suicidio chiamato Green deal che sta sottomettendo Bruxelles a Pechino sia nella filiera di prodotto sia nella catena delle conoscenze tecnologiche si è concretizzato a pieno con il progetto per la realizzazione della nuova fabbrica di batterie per auto elettriche, che Stellantis in collaborazione con la cinese Catl costruirà in Spagna.Progetto che ha spiazzato l’Italia, perché, anche se non ci sono conferme ufficiali, Saragozza va a sostituire il piano originario che puntava sul Belpaese e su Termoli (che infatti ora è in grande difficoltà). Ma è il meno. Il paradosso è che quel sito verrà finanziato con circa 300 milioni di fondi europei. E che a quanto pare una parte consistente degli operai (circa 2.000) arriverà direttamente dalla Cina. Insomma, l’Ue che paga un colosso di Pechino legato mani e piedi con il governo asiatico per costruire batterie nel Vecchio Continente e nasconderle il know how tecnologico. Cornuti e mazziati.C’è qualcuno a Bruxelles che deve aver pensato che si stava superando il limite. O ci piace pensare che sia andata così. Sta di fatto che nelle scorse ore il commissario europeo all’Industria, il francese Stéphane Séjourné, ha annunciato in un colloquio con il Financial Times che l’Ue è pronta a inasprire le norme sugli investimenti esteri per evitare che le aziende cinesi traggano vantaggio dal mercato aperto dell’Unione. Appunto per evitare altri casi Saragozza. Sul piatto (il prossimo mese) saranno messe una serie di proposte che vanno proprio in quella direzione: in primis, il vicepresidente della Commissione ha parlato di «garanzie affinché gli investimenti contribuiscano al funzionamento dell’intera catena del valore europea». In altre parole, restando sul settore automotive: assembli vetture elettriche nel Vecchio continente? I tuoi fornitori dovranno essere per la maggior parte made in Europe. Ma non solo. C’è da garantire il lavoro. E anche sull’occupazione, vista la moria di posizioni nell’industria, vanno messi dei paletti. Pure gli operai dunque saranno made in Europe. Così come verrà imposto che per alcune tipologie di investimenti (le batterie per i veicoli elettrici?) le conoscenze tecnologiche saranno trasferite in loco.Sembra che a Bruxelles abbiano preso l’esempio di Saragozza e poi si siano detti: così mai più. Anche perché lo stesso commissario all’Industria transalpino ha citato direttamente la strategia di Donald Trump. Mutuare in toto i dazi di The Donald non sarebbe stato possibile, ma se dovessero davvero essere approvati, i nuovi paletti di Bruxelles rappresenterebbero una condivisione ex post della politica industriale del tanto inviso inquilino della Casa Bianca. «Abbiamo», ha ammesso Séjourné, «la stessa agenda di Trump sulla reindustrializzazione», aggiungendo che «l’unica differenza è che useremo strumenti diversi dai dazi per la politica industriale. Stiamo proteggendo il nostro mercato...». Meglio tardi che mai, verrebbe da dire, anche se probabilmente la svolta arriverà in ritardo. Il problema è che i dazi americani, come ampiamente prevedibile, hanno spostato gli interessi commerciali e industriali di Pechino verso l’Europa al punto da rendere la situazione insostenibile. Il giochino di tenere per il collo l’Ue con la dipendenza dalle materie prime e dalle catene di forniture cinesi in alcuni settori (solita automotive) è complicato da rompere, ma in altri è ancora in una fase non avanzata e quindi si può spezzare. Emblematico il caso Nexperia. La società di chip cinese con sede in Olanda che il governo orange ha cercato di espropriare. Tentativo fallito malamente, visto che il blocco delle forniture di semiconduttori imposto per vendetta dalla Cina aveva paralizzato il mercato Ue dell’auto. E così l’Olanda è stata costretta a fare retromarcia. Ne è consapevole Giorgia Meloni che non vuol fare la stessa fine di Amsterdam e infatti ieri al termine del G20 sudafricano ha sottolineato: «Abbiamo parlato con il primo ministro cinese (Li Qiang, ndr), abbiamo aggiornato lo stato delle nostre relazioni dopo la mia visita e c’è ancora da lavorare, dal nostro punto di vista, per riequilibrare i nostri rapporti commerciali e gli investimenti diretti tra le nostre due nazioni». Il colloquio, si legge in una nota di Palazzo Chigi, ha consentito di fare il punto sull’attuazione del Piano d’Azione Triennale 2024-2027. E al di là dei formalismi di una dichiarazione ufficiale fa capire come la situazione sia fluida e abbastanza «complessa». Sui rapporti commerciali ma non solo. Perché gli interessi di aziende cinesi in Italia sono molteplici (al di là di Sinochem in Pirelli ci sono circa 700 imprese con investitori del Dragone) e non a caso già ad agosto circolavano voci sulla possibilità che Palazzo Chigi stesse valutando misure per ridurre le partecipazioni di Pechino in gruppi considerati strategici. Si parlò di uso ad hoc del Golden power proprio per spingere le realtà asiatiche più scomode a fare un passo indietro. Poi non se n’è fatto più nulla. È possibile che quel piano, almeno in parte, sia diventato europeo.