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2019-04-13
A 91 anni Benedetto scuote la Chiesa. In Vaticano tutti devono farci i conti
Ansa
Apocrifo. Inopportuno. Ideologico. I detrattori dello scritto di Benedetto XVI sul fenomeno degli abusi, e più in generale sulla crisi della Chiesa, non nascondono il loro disappunto. Quel testo non si doveva scrivere, né divulgare, perché rinfocola una parte di Chiesa che si vorrebbe defunta, incapace di comprendere la «conversione pastorale» di Francesco. Ma tutti sanno che quella parte di Chiesa, che per brevità potremmo dire ratzingeriana, sebbene sia un termine riduttivo, è tutt'altro che minoritaria.
Lo scritto di Benedetto XVI rimette sul tavolo alcuni temi che sono come il fumo negli occhi per molti (dalla morale alla liturgia, tanto per citarne due), ma sono questioni non nuove. Joseph Ratzinger queste cose le dice e le scrive dagli anni Settanta in un crescendo e in una continuità senza ombre. Potremmo citare anche il suo approccio al dialogo interreligioso, ricordando, tra l'altro, la dichiarazione Dominus Iesus circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata sotto una selva di polemiche nel 2000. Oppure la sua insistita predicazione sull'interpretazione del Vaticano II, un Concilio, ha detto più volte Ratzinger, da leggersi come rinnovamento nella continuità e non come un evento con cui fare una «nuova» Chiesa.
Benedetto XVI ha ricordato nel suo memoriale divulgato giovedì la Dichiarazione di Colonia del 1989, in quanto espressione di quel dissenso contro il magistero che, scrive, «assunse forme drammatiche» in quegli anni. In Italia a quella Dichiarazione ne seguì una, la Lettera dei 63 teologi del maggio 1989, in cui si diceva, tra l'altro, che era «certamente necessario approfondire il delicato problema della estensione del magistero nel campo etico». Firmavano anche Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni, alfieri della cosiddetta scuola di Bologna, Enzo Bianchi, già priore della Comunità di Bose, Severino Dianich, Giovanni Cereti, Franco Giulio Brambilla, oggi vescovo di Novara. Una dissonanza che oggi potrebbe considerarsi parresia, anche se la stessa pare non essere concessa proprio a Benedetto XVI.
Massimo Faggioli, professore di storia del cristianesimo cresciuto nell'officina bolognese sotto l'ala di Melloni, mostra chiaramente la spaccatura all'interno della chiesa che lo scritto di Benedetto XVI rileva. «La tesi Ratzinger sugli abusi sessuali nella chiesa», scrive sull'Huffington Post, «costituisce una contro-narrazione che va ad alimentare direttamente l'opposizione a papa Francesco». Per questo, continua, andrebbe regolamentato l'ufficio di papa emerito e «al momento delle dimissioni, dovrebbe dimettersi assieme al papa anche la sua segreteria, che viene riassegnata» (ogni riferimento a monsignor Georg Ganswein non è puramente casuale). In altri termini, sarebbe meglio che si togliessero dai piedi.
Ma Faggioli sa molto bene, e con lui tutti coloro che in queste ore si stracciano le vesti per lo scritto di Benedetto XVI, che in accordo con le tesi riportate da Benedetto XVI nel suo scritto (comprese altre non citate, ma che fanno parte del suo magistero) ci sono cardinali, vescovi, teologi e studiosi cattolici in giro per tutto il mondo. Ed è troppo facile considerarla semplicemente una opposizione di stampo politico, anzi è proprio quello che lo stesso Ratzinger stigmatizza.
I più in vista, si sa, sono alcuni porporati come l'ex prefetto della Dottrina della fede Gerhard Müller, l'attuale prefetto al Culto divino, il cardinale africano Robert Sarah, i cardinali Raymond Burke e Walter Brandmüller, diversi vescovi statunitensi, tra cui si potrebbe ricordare quello di Philadelpia, Charles Chaput. In merito alla questione della dottrina morale qualcuno ricorderà la famosa lettera che 13 cardinali scrissero a Francesco durante il secondo sinodo sulla famiglia, quello del 2015, preoccupati delle procedure con cui si conduceva lo stesso sinodo per arrivare, a loro giudizio, a una soluzione predeterminata. Firmavano quella lettera anche il cardinale di Utrecht, Willem Eijk, quello di New York, Timothy Dolan, l'arcivescovo di Durban, Wilfrid Fox Napier.
«Dobbiamo ringraziare il Papa emerito Benedetto XVI per aver avuto il coraggio di parlare», ha twittato ieri il cardinale Robert Sarah. «La sua ultima analisi della crisi della Chiesa mi sembra di fondamentale importanza. La cancellazione di Dio in Occidente è terribile. La forza del male deriva dal rifiuto dell'amore di Dio». Peraltro, in questi giorni, il porporato africano sta presentando il suo ultimo libro in Francia, e le interviste che ha concesso mostrano che il pensiero di Benedetto XVI è il suo. «La crisi della Chiesa è soprattutto una crisi di fede», ha dichiarato al mensile francese La Nef. «Si vuol fare della Chiesa una società umana e orizzontale. Si vuol farle parlare un linguaggio mediatico. Si vuole renderla popolare. Una Chiesa del genere non interessa a nessuno. La Chiesa ha interesse solo perché ci permette di incontrare Gesù».
Così l’Emerito salva fede e ragione
Lo scritto di Benedetto XVI, come giustamente evidenziato sulla Verità, ha come obiettivo numero 1 non il Sessantotto, già rigorosamente criticato da tanti, anche non cattolici, quale causa, o almeno concausa, dei mille sbandamenti odierni, fino al nichilismo della droga, del sesso come diversivo e della violenza gratuita per sentirsi vivi. No, l'obiettivo di Ratzinger è tutto interno e coincide con il post Concilio, cioè quel periodo davvero drammatico, per non dire apocalittico, che la Chiesa visse dalla convocazione dell'assise ecumenica sotto Giovanni XXIII (1962) sino alla fine del pontificato di Paolo VI (1978).
Il dato temporale e storico è essenziale, e si ricollega a due crisi epocali che Benedetto XVI affrontò in modo continuo durante gli anni del suo pontificato. La crisi della fede successiva al Concilio e all'ermeneutica prevalente del fatto conciliare, anzitutto. E poi sullo sfondo di questa crisi religiosa, la crisi della ragione, sottostimata ovvero rinnegata, in nome di un fideismo alla luterana, in cui l'uomo nella sua capacità conoscitiva e volitiva sembra assolutamente distrutto dal peccato originale di Adamo ed Eva.
Le due fonti prossime del discorso di ieri sulla decadenza della teologia morale cattolica e le sue conseguenze drammatiche nel clero e nei seminari, sono dunque la celeberrima allocuzione sull'ermeneutica del Vaticano II, tenuta il 22 dicembre del 2005 e la lectio magistralis letta a Ratisbona il 12 settembre del 2006.
Il primo dei due discorsi, quello sul Concilio, fu il più eversivo e rivoluzionario del pontificato da poco iniziato, ed è rimasto storico nella cattolicità. Non a caso fu pubblicato a parte dalla Libreria editrice vaticana con il titolo, inesistente nella versione originale, di Il Concilio Vaticano II quarant'anni dopo.
In quel discorso Benedetto XVI mette sul banco degli imputati «una parte della teologia moderna», facendo però intendere che si tratta della parte maggioritaria e preponderante, la quale «si è potuta avvalere sella simpatia dei massmedia». Esattamente come nel discorso di ieri in cui pone l'accento sulla crisi della «teologia morale», interna alla Chiesa.
In entrambi i casi, con la scusa di tornare alla Bibbia e alla purezza della Parola divina originaria e senza incrostazioni storiche, si mise in forse tutta la dottrina sviluppata dalla Chiesa e dal suo Magistero in secoli e secoli di storia. Può parere eccessivamente teologico il ragionamento ma in realtà è banale e oggi l'uomo comune, cristiano e non, deve essere in grado di riflettere anche su queste cose.
Secondo Benedetto XVI dopo il Concilio e in nome di esso, molti teologi e presuli deragliarono dalla fede e dalla morale, perché vollero abbracciare una Bibbia senza mediazione ecclesiastica e un mondo contemporaneo iperlaicizzato, senza riserve e senza quei filtri posti dalla tradizione e dal buon senso. Infatti, diceva Ratzinger, «non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo».
Esattamente come oggi. La Chiesa infatti, aperta a tutti gli uomini di buona volontà, atei e gay inclusi, non può e non deve cedere all'ateismo, al secolarismo o allo snaturamento della famiglia e del matrimonio.
La seconda radice del messaggio che ieri il Papa emerito ha offerto al mondo si ha nella lectio magistralis di Ratisbona del 2006. Tale lezione fece notizia e scalpore per un passaggio critico su Maometto e l'islamismo, ma l'essenza del discorso è altrove.
Benedetto XVI in quell'occasione rivaluta la ragione che, come affermato da Giovanni Paolo II, è una delle ali, assieme alla fede, che ci porta alla contemplazione della verità (Fides et ratio, n. 1). E ancora una volta, in nome di cosa il fideismo antirazionalista cattolico era esploso nei turbolentissimi anni Sessanta del Novecento? In nome della Bibbia. E infatti, anche ieri Ratzinger critica chi vuole fondare una morale unicamente sulla Scrittura, finendo nel biblicismo e del fideismo meno razionale, e più prossimo del protestantesimo che del cattolicesimo romano.
«Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente»: così presentava in Baviera il Pontefice la vera apertura della Chiesa al mondo. Un'apertura che coincida con l'acquisizione dei valori del mondo, del contesto storico presente, è la fine del dialogo per assorbimento della Chiesa nella società, della fede nel relativismo etico della contemporaneità.
I due Ratzinger, il Pontefice-teologo del 2005-2006 e il Papa-monaco del 2019, dicono in fondo la stessa cosa agli uomini complessati e sradicati di oggi: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». E quindi resta contrario anche alla natura dell'uomo.
Ma già il grande Agostino soleva dire che non esiste eresia che non pretenda di fondarsi sulla Bibbia…
Ora se la prendono con padre Georg
Se non è del maggiordomo, la colpa è del segretario, neanche si trattasse di un giallo da edicola ferroviaria. Per le guardie svizzere mediatiche di papa Francesco, lo scritto al vetriolo di Joseph Ratzinger avrebbe un ispiratore (anzi un cospiratore) neppure troppo occulto: padre Georg Gaenswein. Mai citato per ignavia ma dall'identikit chirurgico, il prefetto pontificio che accompagna Benedetto XVI nel suo incedere intellettualmente fermo (nonostante i 91 anni) viene individuato dagli alabardieri vaticani come l'anima nera della vicenda, colui che avrebbe organizzato il blitz giornalistico, primo responsabile della diffusione mondiale delle parole del pontefice emerito.
Parole peraltro alte e tonanti, pronunciate per iscritto dal sommo intellettuale della Chiesa, definito superficialmente conservatore e invece capace di gesti di una potenza eversiva assoluta come quello di alzarsi dal soglio pontificio. Ma anche di discorsi che somigliano a pietre angolari, come quello di Ratisbona sull'islam, la lettera inviata alla Chiesa d'Irlanda sulla pedofilia e le critiche al Concilio Vaticano II. Sbranare Ratzinger è impossibile, trattarlo come accadde con monsignor Carlo Maria Viganò è impensabile per coloro che fino a qualche minuto fa lo definivano l'angelo custode del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. E allora è più facile farlo passare per un uomo stanco, smarrito, al termine del suo viaggio terreno, quindi vulnerabile e malleabile da abili mani mosse da un secondo fine: guardacaso, quello di delegittimare il Papa in carica all'interno di una guerra sotterranea fra reazionari e progressisti. Con un'insinuazione sottintesa, quella che lo scritto possa essere apocrifo.
In prima linea nel sostenere la difesa d'ufficio, quindi nel buttarla in politica senza entrare nel merito delle distorsioni della lobby gay in tonaca, è il teologo e storico Massimo Faggioli, docente di Storia del cristianesimo alla Villanova University di Philadelphia, che in un intervento su Huffington Post nega l'autenticità del j'accuse e sottolinea: «La scelta di privilegiare certi organi di stampa dà l'impressione che Benedetto XVI sia organico a quegli ambienti e che il Papa emerito sia manipolato e manipolabile». L'organo di stampa sarebbe un periodico del clero bavarese (Klerusblatt) al quale Ratzinger ha inviato l'articolo dopo aver chiesto e ottenuto il permesso dallo stesso Santo Padre e dal Segretario di Stato, Pietro Parolin. L'organo malefico sarebbe anche il Corriere della Sera (mai sospettato di simili devianze) che per primo lo ha rilanciato in italiano. E che nell'articolo di Gian Guido Vecchi adombra «il fastidio per l'uscita pubblica dell'emerito».
Tutto si spiega, anche le disordinate reazioni. Faggioli è il gemello culturale italoamericano di Antonio Spadaro, l'intellettuale di curia più vicino a Francesco, e assume volentieri il ruolo di investigatore per smascherare lo pseudo complotto del male. Il Guglielmo da Baskerville degli alabardieri va oltre e addita padre Georg: «Una manovra architettata non da Benedetto ma da chi gli sta intorno», scrive. E mentre lo fa si eleva al livello dell'indimenticabile Aldo Biscardi quando davanti al moviolone gridava «gombloddo». Poi evoca una tentazione allo scisma per metterla sul tragico e infine sbrocca chiedendo di cambiare il diritto canonico: «Quella del Papa emerito è un'istituzione che necessita di una regolamentazione che oggi non ha. Al momento delle dimissioni dovrebbe dimettersi assieme al papa anche la sua segreteria, che viene riassegnata; il ruolo di prefetto della casa pontificia va abolito, il Papa emerito deve cessare di vestire di bianco, i suoi rapporti con i media non vanno lasciati alla discrezione dei segretari».
Secondo Faggioli e secondo i pretoriani di papa Francesco, Benedetto dovrebbe camminare al buio e i suoi adepti pagare l'affronto con la defenestrazione. Tutti in silenzio e in nero, tutti censurati per volontà divina. Quanto è grande, luminoso, ingombrante il pensiero di Ratzinger, che oltre a illuminare i problemi illumina i sacrestani.
Continua a leggereRiduci
Spaccatura tra chi considera il documento di Joseph Ratzinger sugli abusi un attacco alla «conversione pastorale» di Jorge Bergoglio e i tanti che invece ne appoggiano le tesi e ritengono finalmente squarciato il muro del silenzio.Sia nell'allocuzione del 2005 sul Concilio, sia a Ratisbona, sia nello scritto più recente il Papa tedesco ha sempre biasimato chi fonda una morale unicamente sulla Scrittura.Non potendo attaccare direttamente quello che fino a poco tempo fa era l'angelo custode del pontificato di Francesco, i pretoriani del Pontefice argentino accusano Georg Gaenswein, l'assistente di Benedetto.Lo speciale contiene tre articoli.Apocrifo. Inopportuno. Ideologico. I detrattori dello scritto di Benedetto XVI sul fenomeno degli abusi, e più in generale sulla crisi della Chiesa, non nascondono il loro disappunto. Quel testo non si doveva scrivere, né divulgare, perché rinfocola una parte di Chiesa che si vorrebbe defunta, incapace di comprendere la «conversione pastorale» di Francesco. Ma tutti sanno che quella parte di Chiesa, che per brevità potremmo dire ratzingeriana, sebbene sia un termine riduttivo, è tutt'altro che minoritaria.Lo scritto di Benedetto XVI rimette sul tavolo alcuni temi che sono come il fumo negli occhi per molti (dalla morale alla liturgia, tanto per citarne due), ma sono questioni non nuove. Joseph Ratzinger queste cose le dice e le scrive dagli anni Settanta in un crescendo e in una continuità senza ombre. Potremmo citare anche il suo approccio al dialogo interreligioso, ricordando, tra l'altro, la dichiarazione Dominus Iesus circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata sotto una selva di polemiche nel 2000. Oppure la sua insistita predicazione sull'interpretazione del Vaticano II, un Concilio, ha detto più volte Ratzinger, da leggersi come rinnovamento nella continuità e non come un evento con cui fare una «nuova» Chiesa.Benedetto XVI ha ricordato nel suo memoriale divulgato giovedì la Dichiarazione di Colonia del 1989, in quanto espressione di quel dissenso contro il magistero che, scrive, «assunse forme drammatiche» in quegli anni. In Italia a quella Dichiarazione ne seguì una, la Lettera dei 63 teologi del maggio 1989, in cui si diceva, tra l'altro, che era «certamente necessario approfondire il delicato problema della estensione del magistero nel campo etico». Firmavano anche Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni, alfieri della cosiddetta scuola di Bologna, Enzo Bianchi, già priore della Comunità di Bose, Severino Dianich, Giovanni Cereti, Franco Giulio Brambilla, oggi vescovo di Novara. Una dissonanza che oggi potrebbe considerarsi parresia, anche se la stessa pare non essere concessa proprio a Benedetto XVI.Massimo Faggioli, professore di storia del cristianesimo cresciuto nell'officina bolognese sotto l'ala di Melloni, mostra chiaramente la spaccatura all'interno della chiesa che lo scritto di Benedetto XVI rileva. «La tesi Ratzinger sugli abusi sessuali nella chiesa», scrive sull'Huffington Post, «costituisce una contro-narrazione che va ad alimentare direttamente l'opposizione a papa Francesco». Per questo, continua, andrebbe regolamentato l'ufficio di papa emerito e «al momento delle dimissioni, dovrebbe dimettersi assieme al papa anche la sua segreteria, che viene riassegnata» (ogni riferimento a monsignor Georg Ganswein non è puramente casuale). In altri termini, sarebbe meglio che si togliessero dai piedi.Ma Faggioli sa molto bene, e con lui tutti coloro che in queste ore si stracciano le vesti per lo scritto di Benedetto XVI, che in accordo con le tesi riportate da Benedetto XVI nel suo scritto (comprese altre non citate, ma che fanno parte del suo magistero) ci sono cardinali, vescovi, teologi e studiosi cattolici in giro per tutto il mondo. Ed è troppo facile considerarla semplicemente una opposizione di stampo politico, anzi è proprio quello che lo stesso Ratzinger stigmatizza. I più in vista, si sa, sono alcuni porporati come l'ex prefetto della Dottrina della fede Gerhard Müller, l'attuale prefetto al Culto divino, il cardinale africano Robert Sarah, i cardinali Raymond Burke e Walter Brandmüller, diversi vescovi statunitensi, tra cui si potrebbe ricordare quello di Philadelpia, Charles Chaput. In merito alla questione della dottrina morale qualcuno ricorderà la famosa lettera che 13 cardinali scrissero a Francesco durante il secondo sinodo sulla famiglia, quello del 2015, preoccupati delle procedure con cui si conduceva lo stesso sinodo per arrivare, a loro giudizio, a una soluzione predeterminata. Firmavano quella lettera anche il cardinale di Utrecht, Willem Eijk, quello di New York, Timothy Dolan, l'arcivescovo di Durban, Wilfrid Fox Napier.«Dobbiamo ringraziare il Papa emerito Benedetto XVI per aver avuto il coraggio di parlare», ha twittato ieri il cardinale Robert Sarah. «La sua ultima analisi della crisi della Chiesa mi sembra di fondamentale importanza. La cancellazione di Dio in Occidente è terribile. La forza del male deriva dal rifiuto dell'amore di Dio». Peraltro, in questi giorni, il porporato africano sta presentando il suo ultimo libro in Francia, e le interviste che ha concesso mostrano che il pensiero di Benedetto XVI è il suo. «La crisi della Chiesa è soprattutto una crisi di fede», ha dichiarato al mensile francese La Nef. «Si vuol fare della Chiesa una società umana e orizzontale. Si vuol farle parlare un linguaggio mediatico. Si vuole renderla popolare. Una Chiesa del genere non interessa a nessuno. La Chiesa ha interesse solo perché ci permette di incontrare Gesù».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/a-91-anni-benedetto-scuote-la-chiesa-in-vaticano-tutti-devono-farci-i-conti-2634467156.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="cosi-lemerito-salva-fede-e-ragione" data-post-id="2634467156" data-published-at="1765407056" data-use-pagination="False"> Così l’Emerito salva fede e ragione Lo scritto di Benedetto XVI, come giustamente evidenziato sulla Verità, ha come obiettivo numero 1 non il Sessantotto, già rigorosamente criticato da tanti, anche non cattolici, quale causa, o almeno concausa, dei mille sbandamenti odierni, fino al nichilismo della droga, del sesso come diversivo e della violenza gratuita per sentirsi vivi. No, l'obiettivo di Ratzinger è tutto interno e coincide con il post Concilio, cioè quel periodo davvero drammatico, per non dire apocalittico, che la Chiesa visse dalla convocazione dell'assise ecumenica sotto Giovanni XXIII (1962) sino alla fine del pontificato di Paolo VI (1978). Il dato temporale e storico è essenziale, e si ricollega a due crisi epocali che Benedetto XVI affrontò in modo continuo durante gli anni del suo pontificato. La crisi della fede successiva al Concilio e all'ermeneutica prevalente del fatto conciliare, anzitutto. E poi sullo sfondo di questa crisi religiosa, la crisi della ragione, sottostimata ovvero rinnegata, in nome di un fideismo alla luterana, in cui l'uomo nella sua capacità conoscitiva e volitiva sembra assolutamente distrutto dal peccato originale di Adamo ed Eva. Le due fonti prossime del discorso di ieri sulla decadenza della teologia morale cattolica e le sue conseguenze drammatiche nel clero e nei seminari, sono dunque la celeberrima allocuzione sull'ermeneutica del Vaticano II, tenuta il 22 dicembre del 2005 e la lectio magistralis letta a Ratisbona il 12 settembre del 2006. Il primo dei due discorsi, quello sul Concilio, fu il più eversivo e rivoluzionario del pontificato da poco iniziato, ed è rimasto storico nella cattolicità. Non a caso fu pubblicato a parte dalla Libreria editrice vaticana con il titolo, inesistente nella versione originale, di Il Concilio Vaticano II quarant'anni dopo. In quel discorso Benedetto XVI mette sul banco degli imputati «una parte della teologia moderna», facendo però intendere che si tratta della parte maggioritaria e preponderante, la quale «si è potuta avvalere sella simpatia dei massmedia». Esattamente come nel discorso di ieri in cui pone l'accento sulla crisi della «teologia morale», interna alla Chiesa. In entrambi i casi, con la scusa di tornare alla Bibbia e alla purezza della Parola divina originaria e senza incrostazioni storiche, si mise in forse tutta la dottrina sviluppata dalla Chiesa e dal suo Magistero in secoli e secoli di storia. Può parere eccessivamente teologico il ragionamento ma in realtà è banale e oggi l'uomo comune, cristiano e non, deve essere in grado di riflettere anche su queste cose. Secondo Benedetto XVI dopo il Concilio e in nome di esso, molti teologi e presuli deragliarono dalla fede e dalla morale, perché vollero abbracciare una Bibbia senza mediazione ecclesiastica e un mondo contemporaneo iperlaicizzato, senza riserve e senza quei filtri posti dalla tradizione e dal buon senso. Infatti, diceva Ratzinger, «non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo». Esattamente come oggi. La Chiesa infatti, aperta a tutti gli uomini di buona volontà, atei e gay inclusi, non può e non deve cedere all'ateismo, al secolarismo o allo snaturamento della famiglia e del matrimonio. La seconda radice del messaggio che ieri il Papa emerito ha offerto al mondo si ha nella lectio magistralis di Ratisbona del 2006. Tale lezione fece notizia e scalpore per un passaggio critico su Maometto e l'islamismo, ma l'essenza del discorso è altrove. Benedetto XVI in quell'occasione rivaluta la ragione che, come affermato da Giovanni Paolo II, è una delle ali, assieme alla fede, che ci porta alla contemplazione della verità (Fides et ratio, n. 1). E ancora una volta, in nome di cosa il fideismo antirazionalista cattolico era esploso nei turbolentissimi anni Sessanta del Novecento? In nome della Bibbia. E infatti, anche ieri Ratzinger critica chi vuole fondare una morale unicamente sulla Scrittura, finendo nel biblicismo e del fideismo meno razionale, e più prossimo del protestantesimo che del cattolicesimo romano. «Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della ragione, non il rifiuto della sua grandezza, è questo il programma con cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra nella disputa del tempo presente»: così presentava in Baviera il Pontefice la vera apertura della Chiesa al mondo. Un'apertura che coincida con l'acquisizione dei valori del mondo, del contesto storico presente, è la fine del dialogo per assorbimento della Chiesa nella società, della fede nel relativismo etico della contemporaneità. I due Ratzinger, il Pontefice-teologo del 2005-2006 e il Papa-monaco del 2019, dicono in fondo la stessa cosa agli uomini complessati e sradicati di oggi: «Non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio». E quindi resta contrario anche alla natura dell'uomo. Ma già il grande Agostino soleva dire che non esiste eresia che non pretenda di fondarsi sulla Bibbia… <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/a-91-anni-benedetto-scuote-la-chiesa-in-vaticano-tutti-devono-farci-i-conti-2634467156.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ora-se-la-prendono-con-padre-georg" data-post-id="2634467156" data-published-at="1765407056" data-use-pagination="False"> Ora se la prendono con padre Georg Se non è del maggiordomo, la colpa è del segretario, neanche si trattasse di un giallo da edicola ferroviaria. Per le guardie svizzere mediatiche di papa Francesco, lo scritto al vetriolo di Joseph Ratzinger avrebbe un ispiratore (anzi un cospiratore) neppure troppo occulto: padre Georg Gaenswein. Mai citato per ignavia ma dall'identikit chirurgico, il prefetto pontificio che accompagna Benedetto XVI nel suo incedere intellettualmente fermo (nonostante i 91 anni) viene individuato dagli alabardieri vaticani come l'anima nera della vicenda, colui che avrebbe organizzato il blitz giornalistico, primo responsabile della diffusione mondiale delle parole del pontefice emerito. Parole peraltro alte e tonanti, pronunciate per iscritto dal sommo intellettuale della Chiesa, definito superficialmente conservatore e invece capace di gesti di una potenza eversiva assoluta come quello di alzarsi dal soglio pontificio. Ma anche di discorsi che somigliano a pietre angolari, come quello di Ratisbona sull'islam, la lettera inviata alla Chiesa d'Irlanda sulla pedofilia e le critiche al Concilio Vaticano II. Sbranare Ratzinger è impossibile, trattarlo come accadde con monsignor Carlo Maria Viganò è impensabile per coloro che fino a qualche minuto fa lo definivano l'angelo custode del pontificato di Jorge Mario Bergoglio. E allora è più facile farlo passare per un uomo stanco, smarrito, al termine del suo viaggio terreno, quindi vulnerabile e malleabile da abili mani mosse da un secondo fine: guardacaso, quello di delegittimare il Papa in carica all'interno di una guerra sotterranea fra reazionari e progressisti. Con un'insinuazione sottintesa, quella che lo scritto possa essere apocrifo. In prima linea nel sostenere la difesa d'ufficio, quindi nel buttarla in politica senza entrare nel merito delle distorsioni della lobby gay in tonaca, è il teologo e storico Massimo Faggioli, docente di Storia del cristianesimo alla Villanova University di Philadelphia, che in un intervento su Huffington Post nega l'autenticità del j'accuse e sottolinea: «La scelta di privilegiare certi organi di stampa dà l'impressione che Benedetto XVI sia organico a quegli ambienti e che il Papa emerito sia manipolato e manipolabile». L'organo di stampa sarebbe un periodico del clero bavarese (Klerusblatt) al quale Ratzinger ha inviato l'articolo dopo aver chiesto e ottenuto il permesso dallo stesso Santo Padre e dal Segretario di Stato, Pietro Parolin. L'organo malefico sarebbe anche il Corriere della Sera (mai sospettato di simili devianze) che per primo lo ha rilanciato in italiano. E che nell'articolo di Gian Guido Vecchi adombra «il fastidio per l'uscita pubblica dell'emerito». Tutto si spiega, anche le disordinate reazioni. Faggioli è il gemello culturale italoamericano di Antonio Spadaro, l'intellettuale di curia più vicino a Francesco, e assume volentieri il ruolo di investigatore per smascherare lo pseudo complotto del male. Il Guglielmo da Baskerville degli alabardieri va oltre e addita padre Georg: «Una manovra architettata non da Benedetto ma da chi gli sta intorno», scrive. E mentre lo fa si eleva al livello dell'indimenticabile Aldo Biscardi quando davanti al moviolone gridava «gombloddo». Poi evoca una tentazione allo scisma per metterla sul tragico e infine sbrocca chiedendo di cambiare il diritto canonico: «Quella del Papa emerito è un'istituzione che necessita di una regolamentazione che oggi non ha. Al momento delle dimissioni dovrebbe dimettersi assieme al papa anche la sua segreteria, che viene riassegnata; il ruolo di prefetto della casa pontificia va abolito, il Papa emerito deve cessare di vestire di bianco, i suoi rapporti con i media non vanno lasciati alla discrezione dei segretari». Secondo Faggioli e secondo i pretoriani di papa Francesco, Benedetto dovrebbe camminare al buio e i suoi adepti pagare l'affronto con la defenestrazione. Tutti in silenzio e in nero, tutti censurati per volontà divina. Quanto è grande, luminoso, ingombrante il pensiero di Ratzinger, che oltre a illuminare i problemi illumina i sacrestani.
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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