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«Amadeus» (Sky Original)
Confrontarsi con il capolavoro di Miloš Forman era una sfida quasi impossibile. La serie Amadeus di Sky, pur priva della stessa potenza narrativa, si distingue per cura visiva, cast convincente e fedeltà al mito della rivalità tra Mozart e Salieri.
Reggere il confronto con un film come quello di Miloš Forman, vincitore di ben otto premi Oscar, è pressoché impossibile. Amadeus, l'Amadeus del 1984, adattamento a sua volta dell'opera teatrale di Peter Shaffer, è stato un capolavoro, fuori dal suo tempo e dalle logiche che lo governavano. Era eclettico, rock nell'accezione più pura del termine. Era avanguardia. E stare al passo, quarant'anni più tardi, sarebbe stato difficile. Non c'è da sorprendersi, dunque, se la serie omonima, l'Amadeus di Sky, al debutto nella prima serata di martedì 23 dicembre, non sia dotato di una stessa potenza narrativa. E non c'è da sorprendersi nemmeno nel constatare la mancanza di una colpa e di un colpevole. Amadeus, quello di Sky, è bello, un prodotto ben fatto e ben pensato, fedelissimo - per giunta - agli originali che lo hanno preceduto.
La storia è quella del film, la stessa della pièce teatrale: cronaca di una rivalità solo presunta. Wolfgang Amadeus Mozart e Antonio Salieri, che Shaffer e Forman hanno raccontato con clamore ed enfasi, non sono mai stati rivali. Eppure, ci si è abituati ad assorbirli come tali: due compositori tanto celebri quanto fumantini, animatori entrambi della Vienna di metà Settecento. Era in fermento, quando Mozart vi ha fatto la propria comparsa. Era giovane, bello: una rockstar ante litteram, maledetto quel tanto che basta da portare scompenso all'interno della corte viennese, fra parrucconi imbalsamati e ragazze suscettibili. La sua musica non aveva niente a che vedere con quel che finora era stato composto. Spazzava via ogni tradizione, ogni abitudine, ivi compresa quella di applaudire il genio di Salieri, allora compositore di corte. Perciò, l'opera di Shaffer e gli adattamenti successivi. Perciò, la leggenda di una rivalità che, agli atti storici, non è mai finita.Shaffer, a suo tempo, ha ricamato sulla propria fantasia, immaginando come Salieri possa aver vissuto l'ingresso di Mozart alla corte di Vienna. Quanto deve aver sofferto, quanta rabbia deve aver provato di fronte a quel ragazzo senza fede e senza Dio, geniale e talentuoso.
La serie televisiva, cinque episodi creati dal Joe Barton di Black Doves, ripercorre questa biografia stralunata, addentrandosi, lei pure, fra se e ma cui nessuno mai potrà dare risposta. Bravo il cast, bella la resa visiva, la potenza musicale. Peccato solo per il confronto, a perdere per chiunque ambisca, di qui a per sempre, a ricreare la rivalità fittizia tra i due compositori.
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Ansa
Aliquota sui formaggi al 43%, sulla plastica al 35%, sulla carne al 20%... La Ue potrebbe reagire, però vuol salvare il Green deal.
«Gli Stati Uniti innovano. La Cina imita. L’Europa regolamenta». Recita il vecchio adagio. Che si parli di impresa o di tecnologia. E pure sui dazi, la storiella vale. Le tariffe di Trump hanno fatto parlare tutti di tutto. Dibattiti stucchevoli sui giornali e nei talk show televisivi. Ma alla fine, Trump i suoi dazi li ha imposti. E l’Ue li ha subiti. Del resto, si sa. Il cliente (gli Usa) ha sempre ragione. Neppure smaltita la depressione da parte degli europeisti, che ora pure la Cina mette i suoi di dazi. L’Unione europea si prende un’altra batosta. E gli europeisti muti.
Al momento i dazi sono provvisori ma si fanno sentire eccome. Si va dal 4,9% al 19,8% per le importazioni cinesi della nostra carne di maiale. Misura annunciata lo scorso 16 dicembre. Preceduta da quelli sul brandy pari al 34,9% in vigore dallo scorso 5 luglio. Si arriva ai dazi sulle nostre esportazioni di prodotti a base di latte e formaggio dal 22 dicembre. Si spazia dal 21,95 al 42,7%. È il frutto di un’indagine iniziata da Pechino nell’agosto 2023. Più di un anno prima che arrivasse Trump. Laddove i dazi non sono stati imposti, vedi i prodotti a base di gomma, è perché rimangono sui livelli precedenti con una ciclopica forchetta che spazia dal 12,5% al 222%. Sulle plastiche l’Ue subisce tariffe del 34,9% contro il 74,9% di ciò che importa dagli Usa.
Teoricamente dovrebbe essere Bruxelles ad avere la meglio in un braccio di ferro commerciale con Pechino. Così come Washington l’ha avuta con noi. Noi siamo infatti un grosso cliente per la Cina. Nel 2024 abbiamo importato dal Celeste Impero merci e servizi in misura pari a 562,5 miliardi di euro contro un export di 280,5 miliardi. Abbiamo cioè registrato, stando ai dati Eurostat, un deficit commerciale complessivo di 282 miliardi. Negli ultimi dodici mesi, al settembre 2025, lo sbilancio commerciale per quanto riguarda i soli beni ha toccato la cifra di 356 miliardi. Considerando che tradizionalmente il nostro surplus commerciale riguardo ai servizi non supera i 20 miliardi di euro, vi rendete conto da soli che a fine 2025 il nostro deficit commerciale con la Cina aumenterà considerevolmente. Ma se noi siamo un cliente e la Cina è un fornitore perché ne usciamo pure qui con le ossa rotte? Dovremmo essere noi ad avere la meglio coi cinesi così come Trump l’ha avuta con noi. E perché questo non succede?
Leggendo ciò che scrivono illustri esponenti del «partito cinese» in Europa e in Italia si intuisce perché non si parla di dazi cinesi e perché pure qui ne usciremo becchi e bastonati. L’armata del Dragone conta in Europa supporter di eccezione. Il più illustre è Romano Prodi. Il Professore non ha occhi (a mandorla?) che per Pechino. Appena 20 giorni fa in una delle sue consuete trasferte a Pechino intonava questa lode con sottofondo di violoncelli: «Lo sviluppo e la trasformazione della Cina mi colpiscono in ogni aspetto. I cambiamenti sono davvero straordinari. Prendiamo la tecnologia ad esempio: come economista non avrei mai immaginato che la Cina potesse realizzare un cambiamento simile. La sua capacità manifatturiera e l’efficienza produttiva sono ben note, ma è ancora più sorprendente il balzo nella catena del valore nel campo high-tech. Osservando la società cinese ho notato che il pubblico cinese accetta le nuove tecnologie più rapidamente di quello europeo». Prodi non contiene il suo entusiasmo. «Oggi i cinesi assorbono nuove idee e tecnologie molto velocemente. Il sistema industriale cinese è molto ampio, dall’abbigliamento alla manifattura più avanzata, ed è in grado di integrare queste diverse catene, formando un nuovo paradigma. La catena cinese del valore attraversa attualmente diversi campi produttivi, e questo modello è davvero unico». Ecco spiegato il benevolo atteggiamento dei media mainstream. Che tutto perdonano a Pechino e nulla invece a Trump.
Ma per comprendere la parte iniziale della nostra domanda, vale a dire perché la Cina detta legge nonostante il cliente sia l’Ue, occorre invece ascoltare un’altra illustre economista italiana: Lucrezia Reichlin. Ripetutamente presa di mira dal deputato leghista Alberto Bagnai perché sistematicamente sostiene che la Germania avrebbe un surplus commerciale con la Cina anziché un deficit. Per dirla alla Troisi: pensava fosse amore e invece era un calesse. E lo scorso 9 giugno dalle colonne del Corriere scriveva: «Il disaccoppiamento dalla Cina renderebbe il Green geal europeo irrealizzabile (magari, ndr). Gli analisti di Bloomberg avvertono che i pannelli solari e le componenti per i veicoli elettrici potrebbero aumentare i costi dal 30 al 50% se i Paesi occidentali la escludessero dalle loro filiere» e più avanti esortava a rafforzare il rapporto con la Cina visto che l’Europa considera «la transizione verde un obiettivo strategico e un mezzo per esercitare la sua leadership globale».
Di quale leadership parli l’economista non è dato sapere. Vogliamo dettare legge in qualcosa che non è un business senza neppure averne le tecnologie. E mentre il Pentagono in Usa investe in partecipazioni di minoranza strategica in società del settore minerario garantendo alle stesse commesse con prezzo superiore alla media, pur di sganciarsi dallo strapotere cinese nella fornitura dei minerali necessari, l’Ue invoca l’abbraccio con il Dragone per inseguire la transizione. Cioè per distruggere la nostra industria. In pratica paghiamo il killer perché ci uccida. Facendoci pure soffrire.
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