Il 2025 si sta delineando come l’anno della consacrazione per i metalli, sia preziosi che industriali. Oro, argento, platino e rame hanno infranto quest’anno una serie di record storici, spinti da una convergenza di fattori macroeconomici, domanda industriale, restrizioni dell’offerta, tensioni geopolitiche e una crescente sfiducia nelle valute fiat.
L’oro ha superato per la prima volta nella storia la soglia dei 4.400 dollari l’oncia, segnando un incremento del 67% dall’inizio dell’anno, la migliore performance annuale dal 1979. L’oro gestito dalla Banca d’Italia ha visto il suo valore aumentare di 96 miliardi di euro in un solo anno.
Non è da meno l’argento, che ha registrato un rally vertiginoso del 128%, sostenuto da forte domanda industriale e limitazioni strutturali dell’offerta. Il rame si sta dirigendo verso i 12.000 dollari a tonnellata, trainato dalla corsa ai data center e dai possibili dazi americani in arrivo. Il platino fa segnare un +110% nell’anno, anch’esso sostenuto da domanda reale.
Il decollo dei prezzi non è un fenomeno isolato, ma il risultato di un mondo che è cambiato profondamente rispetto a solo un anno fa.
Mentre su argento, rame e platino a guidare il rialzo dei prezzi è un equilibrio precario tra offerta e domanda reale, in un momento in cui il ciclo delle commodity può innescare una rampa di rialzi vertiginosi, per poi cadere a fine ciclo. L’incognita, qui, è la durata del ciclo.
Sull’oro, invece, influisce soprattutto l’incertezza legata all’economia mondiale. Vi è il tema delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, ad esempio, oltre che l’incertezza sull’economia negli Usa, tra inflazione, tassi di interesse e occupazione. Infine, la guerra in Ucraina e i timori di una sua prosecuzione o, peggio, allargamento.
A monte di tutto questo, però, c’è forse un aspetto più rilevante. Un fattore cruciale che alimenta la corsa all’oro è la percezione del rischio legata alle valute. Molti investitori sono preoccupati per l’erosione del valore dei titoli di Stato e delle valute fiat e si rivolgono quindi a valori tangibili. È un fenomeno noto come debasement trade. In questo contesto, l’aumento del debito, non solo di quello pubblico, ma anche di quello privato, spinge i capitali verso beni che preservano il valore nel tempo. Non è importante che ciò accada realmente, si tratta sempre di aspettative.
Ma sono soprattutto il congelamento delle riserve valutarie russe dal 2022 e le discussioni su un loro eventuale esproprio ad aver accelerato e rafforzato questa tendenza in maniera macroscopica, poiché il ruolo dell’oro come attivo di riserva, che può resistere alle sanzioni, ha acquisito importanza. Questo fattore, che possiamo ascrivere alla politica, si somma alle crescenti preoccupazioni sulla svalutazione della moneta e ha rafforzato l’incentivo anche per le banche centrali a mantenere una certa domanda di oro. Tutto ciò ha provocato un aumento delle riserve in oro delle banche centrali, infatti. Complessivamente, nel solo 2025 le banche centrali dei diversi paesi hanno comprato 850 tonnellate di oro da destinare a riserva.
Vi è poi in ballo il futuro della Federal Reserve. Regna una profonda incertezza sulla direzione futura della banca centrale americana. Non si tratta solo di capire chi sarà il prossimo presidente dell’istituto, ma di valutare quanto la FED sarà conciliante rispetto alle richieste del governo americano.
Il rally dei metalli nel 2025, insomma, non è una bolla speculativa, ma il riflesso di un riassetto globale. La combinazione di una domanda tecnologica forte e di una offerta limitata, delle tensioni belliche e di un debito in crescita ha creato un terreno fertile per i metalli. Per l’oro, mentre le banche centrali competono con gli investitori privati per l’offerta fisica limitata, lo sguardo rimane fisso sulla FED. Goldman Sachs recentemente ha ipotizzato che l’oro possa arrivare a 4.900 dollari nel 2026. Certo, ora siamo in quel territorio di confine in cui le profezie si autoavverano, ma i metalli oggi stanno agendo come un barometro della instabilità globale.