Panorama condannato per aver definito “pirati” gli attivisti delle ONG, anche se sono proprio loro a rivendicare violazioni e forzature delle leggi. È un attacco alla libertà di stampa, ma le anime belle non si scandalizzano. E mentre si difende la presunta libertà di violare i confini, si infierisce su chi fa scelte davvero controcorrente come la famiglia del bosco.
(IStock)
- La psicologa Laura Pigozzi: «Il bambino per crescere non ha bisogno di una presenza troppo assidua. Oggi la donna tende a prendere su di sé anche il ruolo del padre. E pure in politica si “allattano” i cittadini come fossero infanti».
- Lo scrittore Walter Siti: «I genitori proteggono i figli dai rischi sbagliati: regalano loro un telefonino a 8 anni per sapere dove si trovano e così li espongono a ogni genere di pornografia. I cortei in piazza non invertiranno la deriva».
Lo speciale contiene due interviste.
La realtà quotidiana ci mostra giovani generazioni - anche e soprattutto maschili - afflitte da ben altri problemi che non siano il controllo della forza virile. Anzi, il guaio principale pare essere la debolezza, la fragilità della gioventù, che pure si può tradurre in atti di violenza commessi contro altri o contro sé stessi. La psicologa Laura Pigozzi e lo scrittore Walter Siti analizzano il problema intervistati dalla Verità.
«C’è un narcisismo della maternità che rende i ragazzi ansiosi e insicuri»

Laura Pigozzi
Laura Pigozzi è psicoanalista, psicologa clinica e giuridica penale e civile e filosofa. Si è formata e lavora in Italia e in Francia ed è l’ideatrice del concetto di plusmaterno. In numerosi saggi ha spiegato come nella nostra società si assista a una sorta di esondazione del materno, ci siano madri ipertrofiche o troppo presenti. Quali sono le conseguenze di tutto questo sui ragazzi e le ragazze? Come si cresce in un mondo in cui il padre evapora e il materno invece domina? Parte della risposta si trova nel nuovo libro della Pigozzi, Non solo madri, edito da Raffaello Cortina.
Dottoressa, il suo libro si intitola Non solo madri. A me pare però che oggi le donne a tutto siano spinte tranne che a diventare madri.
«Non solo madri vuole arrivare sia alle giovani donne che hanno figli, sia a quelle che stanno pensando di averne, sia a quelle che desiderano non averne, quindi dà anche una legittimità a chi desidera non avere figli, ma il problema principale è che quando si hanno figli si entra in una dimensione, in un discorso sociale che esalta moltissimo la dimensione del materno, ma la esalta in senso sacrificale, per cui io continuo a ricevere giovani ragazze con master e lauree brillanti o carriere ben avviate che alla nascita del primo bambino, o di Gesù bambino come dico io, stanno a casa, lasciano tutto e si dedicano alla crescita di questo figlio. Il problema qual è? Che il bambino per crescere non ha bisogno di una presenza così assidua e in-intermittente».
E di che cosa ha bisogno?
«Ha bisogno di una presenza intermittente della madre, cioè la madre che va e che viene, perché altrimenti non può pensare. La madre è, come dire, tutto ciò che un bambino desidera, quindi avendola sempre lì è come se non avesse mai la possibilità, come diciamo noi psicanalisti, di allucinarla, cioè di pensarla. Dunque quello che lei dice è vero: ci sono molte madri che pensano che entrare nella dimensione della maternità sia una grande fregatura, ma lo è solo se noi pensiamo alla madre “tutta madre”, non se pensiamo alla madre “non solo madre”. Il nostro discorso sociale idealizza molto chi è entrata nella maternità, e chi non lo ha ancora fatto fatica perché ha timore».
Mi perdoni, ma che male c’è se una madre vuole restare molto con suo figlio, anche solo per goderselo?
«Il fatto è che sul piano dello sviluppo psichico ogni bambino ha bisogno anche di spazio, ha bisogno, come dicevo, di pensiero, e si pensa quando non si è soddisfatti. Immaginate una persona satolla che ha fatto il pranzo di Natale: non pensa, perché è nella grandissima soddisfazione».
Bisogna che resti un po’ di fame, insomma.
«Bisogna avere un po’ fame e noi invece a questi bambini diciamo: non c’è bisogno che tu abbia fame, non c’è bisogno che tu pensi, penso io per te, ti do io da mangiare quando lo decido io, cioè sempre. Lei prima ha parlato di voglia di stare a casa a godersi il bambino».
Sì.
«Però i bambini non sono oggetti di godimento, i bambini sono persone, fin da subito persone, che hanno bisogno che noi sappiamo cosa fare per fargli del bene, cioè per farli crescere, per renderli autonomi. Bisogna metterli in condizione di essere autonomi e noi questo non lo facciamo, se pensiamo “ho voglia di stare a casa a godermi mio figlio”. Se dici così stai parlando di te, non stai parlando del bambino. C’è un narcisismo della maternità che è molto sostenuto».
Tuttavia abbiamo avuto generazioni di bambini e bambine cresciute da madri che facevano le casalinghe. E sono cresciute con una capacità di affrontare le sfide della vita spesso migliore di quella che mostrano tanti ragazzini di oggi, che alla prima difficoltà sembrano implodere.
«Ha ragione, ma era tutto un altro sistema familiare. Era un sistema in cui avevamo due genitori che contavano, una contava per certe cose, l’altro contava per certe altre. Ora abbiamo dei sistemi familiari in cui conta solo un genitore e generalmente le decisioni sui figli sono appaltate a un solo genitore cioè la madre».
Questo avviene perché, come si dice spesso, il padre è scomparso?
«Il padre è scomparso, un po’ si è assentato e un po’ viene assentificato. Siamo in un’epoca in cui i padri devono reinventarsi una paternità che non preveda solo regole e educazione dopo una certa età, ma già partire dal cambio del pannolino. Il bambino ha bisogno di sapere che ci sono mani differenti che lo toccano, che lo cambiano, modi differenti. Anche noi donne dobbiamo fidarci delle mani del nostro compagno, cosa che invece succede molto raramente. La struttura della famiglia è cambiata. La madre che ha cresciuto le generazioni passate era una madre che sicuramente aveva potere all’interno della famiglia, però riconosceva l’altro. Riconosceva il padre come altro anche nell’amore, come altro necessario ai figli».
E oggi?
«Il discorso che oggi passa è che non è necessario un padre. Io sono anche una psicologa giuridica e mi rendo conto di quanto stia esplodendo un fenomeno di cui non parlo in questo libro, ma che è molto importante. Sta crescendo il rifiuto genitoriale».
Si tende a rifiutare il padre?
«In Europa non succede così, in Francia per esempio la garde alternée, l’affidamento condiviso, è assolutamente la norma, per noi invece la norma è collocarlo dalla madre. E questo collocamento prioritario dalla madre, che non è previsto dalla legge ma che si è imposto nei tribunali, penalizza la frequentazione di uno dei due genitori. Insomma è diffuso un discorso che sostiene che la madre possa fare sia la madre sia il padre. La madre è già onnipotente abbastanza perché dà la vita, se le facciamo svolgere anche la funzione paterna abbiamo dei bambini che credono davvero all’onnipotenza materna...».
Sembra che lei sostenga che i bambini siano un po’ fagocitati dalla madri odierne...
«Sono fagocitati, ma questo non vuol dire che ci siano delle madri cattive. Ci sono delle madri che credono, come dire, che sia un bene far questo con i bambini e io cerco di indicare i punti critici di questo discorso sociale».
Punti critici che sono piuttosto evidenti se ci si guarda intorno... Lei ha scritto tanti libri interessanti sull’ipermaterno, e credo che questa presenza esorbitante del materno non esista solo nelle famiglie, ma anche ma a livello simbolico nella società. Manca il padre simbolico, cioè quello che segna i limiti e i confini e fissa le regole. In qualche modo tutta la nostra società è molto materna, se mi passa il termine, anche se in modo perverso. È una grande madre lo Stato, lo sono le istituzioni che tendono a controllarci e dicono di agire per il nostro bene, lo è l’intera società che tenta di tenerci al riparo dal male... Ciò produce persone, ragazzi soprattutto, che alla prima difficoltà cedono, si sciolgono come i proverbiali fiocchi di neve.
«Credo che sia così. Prendiamo per esempio i discorsi dei politici. Se li analizziamo notiamo che sono tutti farciti di “che cosa ti do, quanto ti do, quanto ti allatto”... È davvero tutto un discorso di allattamento anche politico... Tutto questo non fa bene neanche al cittadino, perché resta sempre bambino, questo l’ho scritto in un altro libro, La famiglia fa male. Ma vorrei tornare su questo discorso riguardante i fiocchi di neve, su questi bambini e questi ragazzini che si sciolgono».
Prego.
«C’è uno studio dell’università di Torino di cui parlo in questo libro che mostra come l’ipercontrollo materno - solo materno - e l’iperaffettività materna agiscano a livello cerebrale. L’elettroencefalogramma mostra che certe aree della connettività neurale rimangono permanentemente accese generando un’ansia continua, un’allerta continua, come se i nostri figli avessero l’amigdala sempre pronta. Quindi questi ragazzi hanno un’allerta continua rispetto al vivere: significa che questo tentativo di proteggerli e di controllarli fa male».
«Il virtuale si confonde con la realtà e dà una falsa idea di onnipotenza»

Walter Siti
La fuga immobile (Silvio Berlusconi editore), il nuovo libro di Walter Siti, coglie da subito e alla perfezione le ambiguità della generazione Z. «Ma i teenager della Generazione Z desiderano essere salvati?», scrive Siti. «Alcuni, i più esposti, quelli che con le proprie ali fendono l’aria per tutto lo stormo, forse ce lo chiedono con due posture apparentemente contrapposte: gli uni si mostrano abulici, depressi, si tagliuzzano le braccia e le gambe, trasformano la propria stanza in un bunker; gli altri, nati perlopiù in quartieri meno comodi, si riuniscono in bande, aggrediscono e vandalizzano, non si sottomettono e costituiscono la disperazione dei professori di periferia. Invece quelli che nello stormo si tengono al centro, al riparo, adottano una strategia meno appariscente: si defilano, si appiattiscono, vanno bene a scuola, dissimulano perfino di stare volando. Mimetizzano la propria fragilità sotto una innegabile fragilità generale».
Ed è esattamente questa fragilità che sta al centro dell’indagine di Siti, il quale ne esamina le manifestazioni e le cause traendone varie conclusioni, non tutte esaltanti. Come spiega in questa intervista, forse alcuni processi sono irreversibili, e alcuni cambiamenti sono qui per restare. La sensazione è di vivere all’interno di una grande utopia transumana che propone il superamento della fatica e ci illude di poter eliminare il male a tavolino, ma in realtà produce soltanto individui più friabili che affrontano la vita con enormi difficoltà. Forse, però, da tutto questo non si può tornare indietro.
Da dove nasce la fragilità delle giovani generazioni? Sembra essere tipica soprattutto dei maschi...
«In realtà credo che sia problematica per entrambi i sessi, per esempio per alcune cose come l’autolesionismo, le ragazze sono più coinvolte dei maschi, i maschi sembra che siano più propensi al suicidio, insomma ogni sesso ha il suo modo di esprimere le fragilità. Credo che all’inizio, una ventina, trentina di anni fa, si sia cominciato con il fenomeno degli hikikomori, cioè i ragazzi che preferivano chiudersi in casa e non uscire più, vivendo soltanto di social e di collegamenti virtuali. I primi libri che ho cominciato a leggere sulla fragilità si riferivano proprio alla diffusione della tecnologia e ai suoi effetti. Si è cominciato a parlare di una specie di condizionamento neurologico che nasceva proprio da una eccessiva frequentazione con il digitale. L’altro elemento da cui si era partiti per riflettere su questa fragilità era una abitudine che aveva preso piede nelle università americane di creare dei safe spaces, cioè degli spazi sicuri, luoghi in cui alcuni ragazzi potevano andare se temevano che qualche lezione o qualche conferenza avrebbe potuto procurare loro dei traumi. Questo fenomeno si è esteso ai cosiddetti trigger warning, cioè gli avvisi che venivano messi nei programmi di studio universitari e perfino in certi romanzi (ad esempio quelli per gli young adult) e che segnalavano il fatto che alcuni contenuti avrebbero potuto causare traumi. Quindi era nata questa idea che i ragazzi, soprattutto gli adolescenti tra i 13 e i 17/18 anni, mostrassero di avere continuamente paura di essere traumatizzati e si cominciò a colpevolizzare gli adulti, i genitori».
Genitori iperprotettivi...
«Sì, si diceva appunto che i genitori fossero stati iperprotettivi e quindi a forza di proteggerli da tutto fin quando erano piccoli, non hanno consentito ai figli di crearsi quella specie di corazza che tutti noi ci siamo creati quando le cose non andavano bene, quando succedeva qualcosa di avverso».
E non è così, non c’entra il modo in cui crescono?
«Io mi sono fatto una idea leggermente diversa, Ho proprio l’impressione che molti di questi ragazzi facciano fatica a distinguere tra il mondo virtuale e il mondo reale».
Forse i social sono un sintomo. A me pare che il tema sia quello che lei aveva già affrontato in un libro precedente, cioè la scomparsa della fatica, dell’idea che se si vuole ottenere qualcosa servono tempo, sacrificio, abitudine alle condizioni avverse...
«Questo è un elemento parziale che appartiene a un fenomeno più grande che non coinvolge soltanto i giovani. Il mondo del neoconsumismo e della pubblicità è basato sul fatto che ogni desiderio sia immediatamente realizzabile. È l’illusione pubblicitaria sulla quale si fonda la possibilità stessa di far comprare continuamente cose nuove: esprimi un desiderio e immediatamente dopo lo vedrai realizzato. È sparita quella si chiamava intermediazione: se vuoi ottenere qualcosa non lo puoi ottenere tutto e subito e non lo puoi ottenere da solo. Servono delle formazioni intermedie che ti possono aiutare a raggiungere certi obiettivi. Oggi l’idea è assolutamente individualista: ci sei tu solo, la storia e la geografia sono praticamente finite perché in un istante puoi collegarti con un tuo amico coreano e puoi rispondere a delle domande grazie all’intelligenza artificiale... Si è creato una specie di senso di onnipotenza che lentamente è andato a collidere col fatto che invece nessuno è onnipotente e da lì nascono un’infinità di frustrazioni».
Del distacco dalla realtà fa parte l’idea a cui accennavo della abolizione della fatica, ma anche la convinzione che si possa eliminare il male dal mondo cambiando le parole, purificando il linguaggio e di conseguenza la realtà.
«Questa è un’idea fondamentalmente nominalistica: se cambi etichetta alle cose, le cose in qualche misura cambieranno per forza. Io ho l’impressione che al di là di questo ci sia qualcosa di ancora più serio che riguarda questa ultima generazione. Ai ragazzi di adesso ho l’impressione che sia successo anche qualcosa in più».
E cioè?
«Mentre appunto i genitori li hanno protetti più che potevano dai rischi che loro credevano reali, non li hanno invece protetti da cose che non conoscono. Questa è la prima generazione in cui i ragazzi di 16-17 anni su molte cose ne sanno più dei genitori: se si rompe un computer non è il figlio che va dal papà dicendo “mi insegni come si ripara”, ma il papà che va dal figlio per farsi aiutare. I genitori non hanno capito che se regalano a 8 anni un telefonino al figlio per sapere sempre dove si trova, dopo un giorno questo ragazzino di 8-9 anni guarderà tutti i porno possibili e immaginabili perché basta un compagnuccio più sveglio che gli spieghi come si fa. I genitori hanno protetto i figli dalle cose sbagliate».
Mi pare che da una parte il suo messaggio sia: «Ragazzi questa è la realtà, adattatevi, accettatela». Ma da un altro punto di vista mi pare che certe derive non le piacciano affatto, anche se le affronta con una sorta di rassegnata ironia.
«Io penso semplicemente che avesse ragione la signora Thatcher quando diceva che non ci sono alternative».
Cioè non esiste possibilità di cambiamento?
«Ci sono molti ragazzi che oggi scendono in strada con delle esigenze sacrosante di tipo etico e anche di pietà umana. Dicono che sia inaccettabile che in certi posti succedano cose tremende, si uccidano bambini eccetera. E ripeto, trovo questo assolutamente giustissimo e sacrosanto, ma è come se non si avesse poi la possibilità di fare il passo successivo, cioè di dire “questa società non mi piace dunque la cambio dalle radici”. Non è più possibile quella che una volta si chiamava abolizione dello stato di cose presente, che era la definizione che dava Marx della rivoluzione. Ancora quando si scendeva in piazza per il Vietnam c’erano due modi di intendere l’economia a seconda che si stesse di qua e di là della Cortina di ferro, adesso ho l’impressione che ce ne sia uno solo, e punto. Mi sembra dunque che la direzione sia unica, assegnata. Vi ricordate i ragazzi di Occupy Wall Street che dicevano, un po’ di anni fa, noi siamo il 99% mentre loro, i finanzieri, sono soltanto l’1% e quindi vinceremo noi? Beh, ha vinto l’1%».
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L'evento sul sito e i canali social della «Verità»
Domani alle 13, sul sito e sui canali social della «Verità», intellettuali, giornalisti e artisti esprimeranno il loro sdegno per la campagna di disumanizzazione dell’altro che ha portato all’uccisione di Charlie Kirk. Un dibattito tra anime diverse, in nome del confronto.
Il 10 settembre Charlie Kirk è stato ucciso dai colpi sparati da Tyler Robinson mentre parlava con gli studenti di una università nello Utah. È stato colpito a morte mentre diffondeva le sue idee attraverso il dialogo, mentre si confrontava con persone che la pensavano diversamente da lui, talvolta in modo radicale. Subito dopo la sua morte abbiamo assistito non soltanto a una ondata mondiale di cordoglio per questo giovane uomo e attivista che ora tutti conoscono, ma anche a manifestazioni di raccapricciante disprezzo e disumanità. Sulla Rete non sono pochi gli antagonisti o presunti tali e gli attivisti sinistrorsi che hanno gioito per il suo omicidio, e non solo negli Stati Uniti. Purtroppo, anche più illustri intellettuali, giornalisti e commentatori si sono uniti al circo del disgusto, avvolgendosi nei distinguo, nelle prese di distanza e nelle sottigliezze retoriche. Hanno suggerito nemmeno troppo velatamente che Charlie se la fosse cercata, che fosse uno spargitore di odio e un violento. Hanno cercato di infangarlo quando lui non si poteva più difendere, sostenendo che volesse perseguitare e uccidere gli omosessuali, che discriminasse i neri e odiasse i transessuali. Non era vero nulla, manco a dirlo. Bugie, mistificazioni e mostrificazioni sono proseguite e proseguono anche ora. Qualcuno - ad esempio Stephen King - ha avuto il buon gusto di ritrattare alcune dichiarazioni su Kirk e di chiedere scusa. Ma altri, troppi altri hanno insistito e insistono a insultare, vilipendere, gettare fango nell’acqua per renderla torbida. Tra le poche parole di saggezza sentite nei giorni scorsi ci sono quelle di papa Leone XIV, che - come hanno riferito fonti vaticane - ha pregato per Charlie e per tutta la famiglia Kirk e soprattutto «si è detto preoccupato per la violenza politica e ha parlato della necessità di astenersi dalla retorica e dalle strumentalizzazioni che portano alla polarizzazione e non al dialogo». Difficile offrire un messaggio più serio e esaustivo. Il problema è che il Pontefice è costretto a pronunciare frasi del genere perché la polarizzazione e la violenza politica (verbale e persino fisica) sono all’ordine del giorno. Lo ha notato anche Sergio Mattarella, che in un recentessimo messaggio ha ricordato - citando Martin Luther King - come «l’odio porti molto odio e la violenza molta violenza». Secondo il presidente della Repubblica, «in ogni tempo la violenza si è manifestata in modi diversi. Dobbiamo guardare alla violenza del nostro tempo per contrastarla, per sconfiggerla. Nelle società del mondo di oggi ritorna la diffusione di un clima di avversione, di rancore, di reciproco rifiuto che spesso - come si legge nei recenti fatti di cronaca - sfocia nella violenza e giunge all’omicidio». È difficile dopo tutto negare che siano tempi duri per la libertà di pensiero, anche in Italia, e non da oggi. Abbiamo vissuto anni di politicamente corretto dilagante, abbiamo dovuto affrontare - seppure in misura decisamente minore rispetto agli Stati Uniti e alle nazioni anglosassoni - il proliferare della cultura della cancellazione e del wokismo. Soprattutto, però, dalle nostre parti domina la feroce logica binaria che divide il mondo in buoni e cattivi, in meritevoli e disprezzabili, in uomini e non umani. Con la pandemia e gli attacchi e le discriminazioni nei riguardi dei non vaccinati e in generale di tutti i critici dell’autoritarismo sanitario sono stati raggiunti livelli di brutalità mai visti prima. Poi lo scontro sociale è continuato quasi altrettanto bestialmente. Si è scatenata la caccia ai perfidi putiniani ed è stato più volte riproposto un grande classico degli anni di piombo: la ricerca spasmodica del fascista (in assenza di fascismo vero e pure immaginario). Ma potremmo continuare a lungo a elencare i pretesti sfruttati per invocare censure, oscuramenti, persecuzioni e mordacchie. Ebbene, questo clima non ci piace. Noi abbiamo idee forti, e talvolta usiamo toni battaglieri, ma non pratichiamo il disprezzo dell’avversario o la disumanizzazione di chi non concorda con noi. E non abbiamo intenzione di tollerare ancora questa degenerazione della democrazia. Non siamo gli unici: come noi, a destra e sinistra, sono in tanti ad amare il libero confronto delle opinioni e il ruvido - ma rispettoso - cozzare delle idee.
Abbiamo deciso di mettere insieme alcune di queste persone per mandare un segnale, per ribadire che la grandezza dell’Europa sta proprio nelle differenze e nella pluralità di pensieri, visioni, parole. Domani, a partire dalle 13, sulla nostra piattaforma e su tutti i nostri social andrà in onda una lunga maratona per la libertà di pensiero e contro l’odio politico, ispirata a Charlie Kirk e al suo metodo di dialogo franco e coraggioso. Ci saranno tanti ospiti (Maurizio Belpietro, Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Giuseppe Cruciani, Antonio Padellaro, Marco Rizzo, Giuseppe Culicchia, Roy De Vita, Francesco Giubilei, Boni Castellane, Simone Pillon, Enrico Ruggeri, Jacopo Coghe, Dino Giarrusso, Maria Rachele Ruiu, Fabio Dragoni). Tra loro, anche alcuni che non condividono affatto le nostre opinioni politiche ma sono tutti d’accordo su un punto: in democrazia, tutte le idee devono avere cittadinanza. E nessuno deve permettersi di metterle a tacere, né con una censura né con un colpo di arma da fuoco.
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Francesco Borgonovo (Imagoeconomica). Nel riquadro, la copertina del libro «Aretè. La decadenza e il coraggio»
In un’epoca in cui la decadenza avanza a colpi di wokismo e politicamente corretto, solo gli spiriti liberi hanno il coraggio di difendere ciò che il nemico chiama «vecchio mondo».
«Il deserto cresce», diceva Nietzsche. Un detto che è diventato un cliché, e che è inascoltabile come «Dio è morto», se vengono estrapolati dal loro contesto. Se Dio è morto, è perché «lo abbiamo ucciso tutti», aggiungeva Zarathustra. «Guai a chi protegge il deserto», ammoniva. Il deserto è, ovviamente, il disastro ecologico e migratorio, le guerre arcaiche, il terrorismo, il traffico di droga, il multiculturalismo, le ridefinizioni sessuali abusive, il revisionismo storico, l’antisemitismo, il rifiuto della nostra eredità giudaicocristiana e, per noi europei in particolare, il rifiuto di essere noi stessi. Tutto sta accadendo come se la tradizione, che è uno dei nomi del futuro, fosse ormai fuori dal campo della coscienza storica. Spengler e Heidegger dopo Nietzsche, Bernanos dopo Bloy e Péguy, Orwell dopo Chesterton, René Girard e Jean Baudrillard insieme a Hannah Arendt, George Steiner e Allan Bloom, hanno visto tutto questo molto tempo fa: la «crisi della cultura» è diventata la modalità di esistenza di una «modernità» che continua a esaurirsi nell’era postmoderna - un segno di desertificazione intellettuale e spirituale da cui forse non ci riprenderemo mai. Il mondo è diventato essenzialmente ansiogeno, nonostante gli sforzi della Tecnica per mantenerlo alla distanza degli schermi, secondo un processo di inversione generale che fa sì che il vero sia ormai, per dirla con Debord, solo un momento del falso.
Quella che Francesco Borgonovo propone in Aretè non è una semplice risposta estetica al deserto crescente; la letteratura, il cinema e la riflessione non sono il rifugio delle anime belle ferite da un mondo che ha sostituito la cultura con il «culturale», cioè con i sottoprodotti della cultura e dello spettacolo, e che ha reso impossibile l’«uomo onesto» dell’età classica, così come la gerarchia dei valori e la libertà di pensiero che essa implica.
Gli autori qui trattati hanno fatto tutti più o meno la stessa osservazione, in epoche diverse ma segnate dallo stesso stigma del declino e della decadenza. Le loro opere sono l’unica risposta possibile alla desertificazione interiore, ai simulacri, alla menzogna diffusa e a tutto ciò che è stato teorizzato con i nomi di società dei consumi (Baudrillard), società dello spettacolo (Debord), società liquida (Bauman), società della trasparenza (Byung-Chul Han, spesso citato da Borgonovo). L’aretè non è quindi un ritiro virtuoso ispirato all’antichità. Il libro di Borgonovo è sottotitolato «la decadenza e il coraggio», ovvero una constatazione e anche ciò che uno spirito libero rischia se ha il coraggio di testimoniare contro quello che un tempo era l’ordine borghese e il pensiero dominante e che oggi vede il trionfo della sinistra culturale, del politicamente corretto, del wokismo e di tutto ciò che intende regolare non solo il contenuto delle opere ma anche il pensiero e la morale confiscando le narrazioni della tradizione.
La decadenza è arrivata, soprattutto in Francia, uno dei Paesi più colpiti dal rifiuto di sé, e da molto più tempo di quanto crediamo; quanto al coraggio, Solzhenitsyn ne ha mostrato il declino molto tempo fa in un discorso tenuto ad Harvard. Ora che il peggio è arrivato, non ci resta che testimoniare, in altre parole, scrivere e leggere, ancora e ancora, forse persino a dispetto della nostra stanchezza.
Il commento è una forma di resistenza e di coraggio. Coraggio di essere un europeo e non un mondialista decerebrato da Netflix e Disneyland. Coraggio di essere un contemporaneo di Omero, Leopardi e Houellebecq. Coraggio di pensare con la propria testa e non secondo le parole d’ordine del wokismo che ha dirottato il pensiero di Foucault, Derrida e Deleuze. Quello che il nemico chiama il «vecchio mondo», o il vecchio maschio bianco eterosessuale cristiano, non è la vecchiaia del mondo, ma la giovinezza che certe opere ci donano, anche nel deserto. Siamo contemporanei del senza tempo come del futuro; sappiamo ascoltare la morte del Grande Pan come quella di Gesù Cristo sulla croce. Ci nutriamo delle grandi singolarità che Borgonovo evoca: Baudelaire, Rimbaud, Huysmans, D. H. Lawrence, Drieu La Rochelle e F. S. Fitzgerald, il suo doppio americano, Miller e Mishima, Jünger e Lampedusa, Carl Schmitt e Mario Praz, T. S. Eliot e Cristina Campo, e molti altri, tra cui Francesco d’Assisi e i registi Luchino Visconti e Lars von Trier, e anche l’autrice di Histoire d’O, che ho conosciuto come una sorridente signora anziana, segretaria della prestigiosa «Nouvelle Revue Française». L’apocalisse è quotidiana: disastro e rivelazione. Viviamo in una terra devastata, la terra guasta di Perceval, la terra desolata di Eliot, tra simulacri e parodie, rifiutando i diktat igienisti e psicologici, il servilismo della grande «positività» proclamata dagli angeli caduti e dagli ubriaconi, dagli scagnozzi di Satana e dalle figure di Lovecraft che balbettano le loro parole d’ordine in lingue danneggiate dal capitalismo globalizzato e dalle sue realtà sostitutive. Siamo in un viaggio di rifiuto del mondo così come ci viene venduto, in cui i cavalieri della fede di Kierkegaard si confrontano con i re lebbrosi e con quei grandi solitari che sono i veri scrittori. Cioran diceva che, nella nostra solitudine, l’unica cosa che ci resta da fare è diventare gli eroi della nostra santità: è una variante ironica e giusta dell’aretè, di cui è testimone il libro di Borgonovo, dove vediamo anche un libro «in buona fede», come diceva Montaigne del suo.
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