«Gli Stati Uniti innovano. La Cina imita. L’Europa regolamenta». Recita il vecchio adagio. Che si parli di impresa o di tecnologia. E pure sui dazi, la storiella vale. Le tariffe di Trump hanno fatto parlare tutti di tutto. Dibattiti stucchevoli sui giornali e nei talk show televisivi. Ma alla fine, Trump i suoi dazi li ha imposti. E l’Ue li ha subiti. Del resto, si sa. Il cliente (gli Usa) ha sempre ragione. Neppure smaltita la depressione da parte degli europeisti, che ora pure la Cina mette i suoi di dazi. L’Unione europea si prende un’altra batosta. E gli europeisti muti.
Al momento i dazi sono provvisori ma si fanno sentire eccome. Si va dal 4,9% al 19,8% per le importazioni cinesi della nostra carne di maiale. Misura annunciata lo scorso 16 dicembre. Preceduta da quelli sul brandy pari al 34,9% in vigore dallo scorso 5 luglio. Si arriva ai dazi sulle nostre esportazioni di prodotti a base di latte e formaggio dal 22 dicembre. Si spazia dal 21,95 al 42,7%. È il frutto di un’indagine iniziata da Pechino nell’agosto 2023. Più di un anno prima che arrivasse Trump. Laddove i dazi non sono stati imposti, vedi i prodotti a base di gomma, è perché rimangono sui livelli precedenti con una ciclopica forchetta che spazia dal 12,5% al 222%. Sulle plastiche l’Ue subisce tariffe del 34,9% contro il 74,9% di ciò che importa dagli Usa.
Teoricamente dovrebbe essere Bruxelles ad avere la meglio in un braccio di ferro commerciale con Pechino. Così come Washington l’ha avuta con noi. Noi siamo infatti un grosso cliente per la Cina. Nel 2024 abbiamo importato dal Celeste Impero merci e servizi in misura pari a 562,5 miliardi di euro contro un export di 280,5 miliardi. Abbiamo cioè registrato, stando ai dati Eurostat, un deficit commerciale complessivo di 282 miliardi. Negli ultimi dodici mesi, al settembre 2025, lo sbilancio commerciale per quanto riguarda i soli beni ha toccato la cifra di 356 miliardi. Considerando che tradizionalmente il nostro surplus commerciale riguardo ai servizi non supera i 20 miliardi di euro, vi rendete conto da soli che a fine 2025 il nostro deficit commerciale con la Cina aumenterà considerevolmente. Ma se noi siamo un cliente e la Cina è un fornitore perché ne usciamo pure qui con le ossa rotte? Dovremmo essere noi ad avere la meglio coi cinesi così come Trump l’ha avuta con noi. E perché questo non succede?
Leggendo ciò che scrivono illustri esponenti del «partito cinese» in Europa e in Italia si intuisce perché non si parla di dazi cinesi e perché pure qui ne usciremo becchi e bastonati. L’armata del Dragone conta in Europa supporter di eccezione. Il più illustre è Romano Prodi. Il Professore non ha occhi (a mandorla?) che per Pechino. Appena 20 giorni fa in una delle sue consuete trasferte a Pechino intonava questa lode con sottofondo di violoncelli: «Lo sviluppo e la trasformazione della Cina mi colpiscono in ogni aspetto. I cambiamenti sono davvero straordinari. Prendiamo la tecnologia ad esempio: come economista non avrei mai immaginato che la Cina potesse realizzare un cambiamento simile. La sua capacità manifatturiera e l’efficienza produttiva sono ben note, ma è ancora più sorprendente il balzo nella catena del valore nel campo high-tech. Osservando la società cinese ho notato che il pubblico cinese accetta le nuove tecnologie più rapidamente di quello europeo». Prodi non contiene il suo entusiasmo. «Oggi i cinesi assorbono nuove idee e tecnologie molto velocemente. Il sistema industriale cinese è molto ampio, dall’abbigliamento alla manifattura più avanzata, ed è in grado di integrare queste diverse catene, formando un nuovo paradigma. La catena cinese del valore attraversa attualmente diversi campi produttivi, e questo modello è davvero unico». Ecco spiegato il benevolo atteggiamento dei media mainstream. Che tutto perdonano a Pechino e nulla invece a Trump.
Ma per comprendere la parte iniziale della nostra domanda, vale a dire perché la Cina detta legge nonostante il cliente sia l’Ue, occorre invece ascoltare un’altra illustre economista italiana: Lucrezia Reichlin. Ripetutamente presa di mira dal deputato leghista Alberto Bagnai perché sistematicamente sostiene che la Germania avrebbe un surplus commerciale con la Cina anziché un deficit. Per dirla alla Troisi: pensava fosse amore e invece era un calesse. E lo scorso 9 giugno dalle colonne del Corriere scriveva: «Il disaccoppiamento dalla Cina renderebbe il Green geal europeo irrealizzabile (magari, ndr). Gli analisti di Bloomberg avvertono che i pannelli solari e le componenti per i veicoli elettrici potrebbero aumentare i costi dal 30 al 50% se i Paesi occidentali la escludessero dalle loro filiere» e più avanti esortava a rafforzare il rapporto con la Cina visto che l’Europa considera «la transizione verde un obiettivo strategico e un mezzo per esercitare la sua leadership globale».
Di quale leadership parli l’economista non è dato sapere. Vogliamo dettare legge in qualcosa che non è un business senza neppure averne le tecnologie. E mentre il Pentagono in Usa investe in partecipazioni di minoranza strategica in società del settore minerario garantendo alle stesse commesse con prezzo superiore alla media, pur di sganciarsi dallo strapotere cinese nella fornitura dei minerali necessari, l’Ue invoca l’abbraccio con il Dragone per inseguire la transizione. Cioè per distruggere la nostra industria. In pratica paghiamo il killer perché ci uccida. Facendoci pure soffrire.
Eniko Gyori, ambasciatore in Italia per l’Ungheria. Per quanto tempo?
«Dal 1999 fino all’inizio del 2003»
Il che spiega il suo perfetto italiano. Da quanto tempo è a Bruxelles come europarlamentare di Fidesz? Il partito guidato dal primo ministro Viktor Orbán?
«Terza legislatura. La prima l’ho iniziata nel 2009. Ma non l’ho conclusa. Ho infatti ricoperto la carica di ministro di Stato per gli Affari europei. Rieletta nel 2019 e quindi nel 2024».
L’Ungheria ha definito grave la scelta del Consiglio europeo di procedere con il finanziamento all’Ucraina.
«Siamo preoccupati. L’Europa si sente in guerra. Lo ha ribadito Ursula von der Leyen nel suo discorso sullo Stato dell’Unione europea a settembre. E lo ha confermato il segretario generale della Nato, pochi giorni fa. Non è così. L’Europa non è in guerra. Addolorati che la nostra vicina Ucraina lo sia perché aggredita dalla Russia. Ma sono passati già tre anni e mezzo e non siamo arrivati a nessun risultato. Questo ci preoccupa. E facciamo un Consiglio europeo per finanziare il proseguimento della guerra? Dovremmo concentrare tutte le nostre energie ed anche i mezzi finanziari per arrivare alla pace. Come ci arriviamo?».
Appunto…
«Gli americani ci provano. Non ci si arriva in 24 ore come promesso da Trump. Giusto. Ma dovremmo supportare gli Stati Uniti. Pure Macron ha ammesso che dovremmo tornare a dialogare con Putin. Come si può arrivare alla pace senza dialogare con la controparte? All’ordine del giorno del Consiglio europeo c’era l’ipotesi di confiscare gli asset russi in Europa. Avessimo scelto questa strada ci saremmo trovati in guerra contro la Russia. Questo pericolo - anche grazie all’Ungheria - è stato evitato. Che la Russia sia l’aggressore non c’è alcun dubbio. Così come sul fatto che l’Ucraina non potrà mai vincere questa guerra. Se questi sono i presupposti dobbiamo cercare un’altra strada».
Sta dicendo che l’Unione europea cerca di sabotare il processo di pace portato avanti da Trump?
«Fatico a vedere la situazione in un altro modo. Non sono convinta che l’Europa abbia fatto del suo meglio per convincere le parti in guerra a negoziare. Finanziare l’Ucraina senza condizioni invece che convincerli a negoziare non è una buona strategia. Tutti vediamo gli scandali di corruzione. La toilette d’oro ha avuto un impatto qua».
Pure da noi… mi creda.
«In Ungheria abbiamo accolto più di un milione di profughi ucraini. Ma dopo quasi quattro anni dobbiamo ammettere che la strategia europea non ha funzionato. Il primo ministro belga si è opposto nell’interesse del suo Paese alla confisca dei beni russi a Bruxelles. Lei sa che il patrimonio privato europeo in Russia vale molto di più di quello russo in Europa?».
La confisca dei beni russi era un’illusione. Molti governi vi si cullavano. Ora che molti Paesi europei hanno scoperto la realtà, cioè si sono indebitati per far proseguire la guerra, ecco che Emmanuel Macron scopre che dobbiamo dialogare con Vladimit Putin. Un bagno di realismo?
«Purtroppo, non sono ottimista. Adesso dicono che l'Unione europea ha raggiunto un successo. Di nuovo debito comune. Come con il recovery fund. Ecco perché l’Ungheria ha dato il suo placet. A patto che non partecipasse finanziariamente».
Come la Cechia e la Slovacchia. Sa che vi invidio?
«Non ne ha motivo, mi creda. Giorgia Meloni è molto brava. E questo mi fa essere ottimista. Tre Paesi di Visegrad sono uniti. Manca la Polonia. Ma la comprendo e la rispetto. Hanno una sensibilità diversa rispetto a noi. Come i nostri partner baltici. Un primo ministro deve però comportarsi in maniera razionale. E pensare all’interesse del suo Paese. Come appunto ha fatto il primo ministro belga e anche la premier italiana».
Qual è la posizione dell’Ungheria sull’accordo di libero scambio fra Unione europea e Mercosur?
«Noi pensiamo che adesso non sia il momento. E sa perché? Perché abbiamo approvato la liberalizzazione del commercio con l’Ucraina attraverso il Deep and Comprehensive Free Trade Agreement (accordo che prevede un’area di libero scambio simile che è stato concluso anche con Moldova e Georgia, ndr). Da lì arrivano prodotti agricoli come il grano. Non creda che questo non sia un problema per gli agricoltori europei. Ma sul punto se ti azzardi a dire qualcosa ti dicono che siamo cuccioli di Putin. Poi abbiamo il Green deal. Anche questo danneggia i nostri agricoltori. Se ci mettiamo anche il Mercosur finiamo per uccidere definitivamente la nostra agricoltura. L’Ucraina domani sarà una potenza agricola le cui terre sono in mano agli americani. Per questo diciamo che non è il momento di firmare l’accordo con il Mercosur. Non lo sosteniamo».
È una buona idea una volta ottenuta la pace - come speriamo - ammettere l’Ucraina dentro l’Unione europea?
«No, noi pensiamo che sicuramente non sia una buona idea. Quello che stupisce, ma davvero, è che sia stata iniziata questa procedura dell’allargamento mentre abbiamo i Paesi balcanici che aspettano da più di vent’anni. Questi Paesi hanno iniziato un loro percorso. Hanno fatto delle riforme importanti e non lo riconosciamo. Sempre ci inventiamo nuovi ostacoli per loro. Mentre la maggior parte degli Stati membri adesso vogliono aprire la porta all’Ucraina. Ma scusate, di cosa stiamo parlando? Conosciamo il territorio? Quanto è grande l’Ucraina? Dove sono i confini? Lo sappiamo? Sappiamo quanta gente ci abita? E la corruzione? Prima di tutto dobbiamo fare la pace. Dobbiamo aiutarli ad avere una partnership strategica con l’Unione europea. Questo va bene».
Con un governo filorusso in Ucraina domani, questa scelts potrebbe essere una porta di ingresso per la Russia.
«Sa quello che mi ha detto un importante politico della Macedonia qualche anno fa? “Ah, vedo che funziona così. Ti invade la Russia e allora puoi entrare nell’Unione europea. Forse diciamo ai russi che vengano a invaderci anche noi e così possiamo entrare più velocemente”. Le sembra logico?».
Da ex ambasciatore che effetto le ha fatto il documento National Security Strategy pubblicato dal presidente americano Donald Trump sul sito della Casa Bianca? Gli europeisti l’hanno preso molto male!
«Molto male. Giustamente perché il tono non era cortese. Questi americani dicono però la verità. Quello che nessuno ha detto prima perché infuriava una battaglia ideologica e culturale. Penso alla cultura woke. Una volta con una delegazione del Parlamento europeo sono stata alla Casa Bianca. C’era ancora Biden e praticamente ho toccato con mano. Dividevano il mondo tra i cattivi e i buoni. Invece dobbiamo rispettare gli altri Paesi. Anche se non sono necessariamente democrazie perfette. E vedevamo affiorare l’antisemitismo nelle università americane e adesso anche in Europa. E inoltre l’Europa che ha perso competitività. Io mi occupo di temi economici. Ci spaventa come l’Europa abbia scelto la strada sbagliata con il Green deal. Cresce il divario di competitività con Asia e con l’America. Ci spiegano perché siamo in pieno declino economico. Può piacere o non piacere quel documento. Ma è la pura verità. Per non parlare del tema immigrazione».
L’Ungheria viene multata per un milione di euro al giorno dall’Unione europea?
«Esatto. Al margine del Consiglio europeo si è tenuta una riunione di 8-9 primi ministri per parlare di immigrazione. Il tema è che molti immigrati sono già entrati. Noi da 2015 non li lasciamo entrare. E non vogliamo quote obbligatorie. Non vogliamo queste soluzioni».
Vi preoccupano i sondaggi alle prossime elezioni? Fidesz è data in calo di consensi.
«La risposta è semplice. Si devono vincere le elezioni e non i sondaggi. Ma non possiamo starcene seduti e tranquilli. Abbiamo un nuovo avversario (Peter Magyar, leader di Tisza, iscritto nel Partito popolare europeo, ndr). Animato da sentimenti di rivalsa e vendetta anche per questioni sue personali e familiari. Il Partito popolare europeo lo ha scelto. Ed ha tutto il sostegno europeo. È una strada sbagliata questa dell’interferenza dell’Unione europea, perché va contro i principi sui quali si è fondata l’Ue stessa. Io sono comunque ottimista. Bisogna lavorare molto e triplicare lo sforzo in rete. Il nostro avversario è forte ma gli ungheresi capiranno che lui non ha un progetto politico. Ma solo rivalsa e vendetta. Non è così che si conquista il voto degli ungheresi».
A Bruxelles c’è nervosismo: l’Italia ha smesso di dire sempre sì. Su Ucraina, fondi russi e accordo Mercosur, Roma alza la voce e rimette al centro interessi nazionali, imprese e agricoltori. Mentre l’UE spinge, l’Italia frena e negozia. Risultato? L’Italia è tornata a contare. E in Europa se ne sono accorti.





