Se i matrimoni ormai si fanno superare dai divorzi e le libere unioni crescono a vista d’occhio, ecco che l’ex Sant’Uffizio pubblica una nota dedicata alla monogamia. Questa volta Oltretevere vanno decisamente controcorrente, come si legge anche nel testo di Una caro (Una sola carne). Elogio della monogamia, la nota dottrinale sul valore del matrimonio come unione esclusiva e appartenenza reciproca del dicastero per la Dottrina della fede. Firmata dal prefetto cardinale Victor Manuel Fernandez, la nota, sottoscritta anche da papa Leone XIV, è stata presentata ieri in Vaticano dal prefetto stesso, da monsignor Armando Matteo, segretario per la Sezione dottrinale del medesimo dicastero, e dalla professoressa Giuseppina De Simone, docente presso la Pontificia facoltà teologica dell’Italia Meridionale.
La nota, decisamente corposa, viste le quasi 40 pagine, sembra tornare a un passo consueto dopo anni di sottolineature pastorali rivolte a modalità differenti di vita affettiva: vuole soffermarsi in particolare su una delle due proprietà che il Codice di Diritto canonico individua per il matrimonio, l’unità, che può essere «definita come l’unione unica ed esclusiva tra una sola donna e un solo uomo o, in altre parole, come l’appartenenza reciproca dei due, che non può essere condivisa con altri». Da una parte la genesi del documento si trova remotamente tra i tavoli delle discussioni del doppio sinodo sulla famiglia del 2014 e 2015 (in particolare su richiesta dei padri africani sulla poligamia), ma anche «sulla constatazione che diverse forme pubbliche di unione non monogama - a volte chiamate «poliamore» - stanno crescendo in Occidente». Il cardine è l’approfondimento sul valore della monogamia, perché, si legge, «la questione è intimamente legata al fine unitivo della sessualità, che non si riduce a garantire la procreazione, ma aiuta l’arricchimento e il rafforzamento dell’unione unica ed esclusiva e del sentimento di appartenenza reciproca».
La sottolineatura è rivolta appunto alla dimensione unitiva della sessualità che, nella dottrina cristiana, è sempre accompagnata da quella procreativa, in una connessione inscindibile, come insegnò papa Paolo VI nella celebre enciclica Humanae vitae (1968).
Citando papa Francesco, il documento sottolinea che «Dio stesso ha creato la sessualità, che è un regalo meraviglioso», qualcosa che ha a che fare con la donazione personale. E San Tommaso d’Aquino spiega tutto questo molto bene «quando ricorda che «la natura ha legato il piacere alle funzioni necessarie per la vita dell’uomo» e che colui che lo rifiutasse, «al punto di trascurare ciò che è necessario per la conservazione della natura, commetterebbe peccato, violando così l’ordine naturale». A orecchie poco attente sembra quasi strano, ma la Chiesa invita a far sesso. Non qualunque e comunque; «la sessualità come azione di tutto l’essere umano, nella sua corporeità e interiorità, grazie anche al potere trasfigurante della carità, significa che essa non è vissuta passivamente, come un semplice lasciarsi trasportare dagli impulsi, ma come l’azione della persona che sceglie di unirsi pienamente all’altro».
Alla base dell’unità del matrimonio c’è il rispetto della prima dimensione della sessualità umana che richiede che alla persona propria e dell’altro sia dato ciò che è dovuto: il riconoscimento della sua preziosità. Si tratta dell’unicità dell’altro e quindi insostituibilità: «tuo/tua per sempre», poiché nessun altro può prendere il tuo posto. Che è la definizione stessa del matrimonio monogamico e indissolubile nella sua intima essenza etica.
La Nota Una caro, che sul tema fa un excursus biblico, di teologi cristiani, del magistero dei Papi e persino dei poeti, riporta anche il pensiero di Alice von Hildebrand, nata Jourdain, moglie di Dietrich, che «sostiene che la realizzazione piena dell’umanità si può raggiungere solo nell’unione tra uomo e donna, la «divina invenzione»: «non solo Lui [Dio] ha fatto l’uomo composto di anima e corpo - una realtà spirituale e una materiale - ma, oltre a ciò, per coronare questa complessità, «maschio e femmina li ha creati». Chiaramente, la pienezza della natura umana si trova nell’unione perfetta tra uomo e donna».
L’unione tra i coniugi, si legge nella Nota, «poiché è un’unione tra due persone che hanno esattamente la stessa dignità e gli stessi diritti, […] esige quell’esclusività che impedisce all’altro di essere relativizzato nel suo valore unico e di essere usato solo come mezzo tra gli altri per soddisfare dei bisogni. Questa è la verità della monogamia che la Chiesa legge nella Scrittura, quando afferma che da due diventano “una sola carne”».
In tempi di Onlyfans, sesso poliamoroso, gender fluid e denatalità diffusa, ma anche di tristi separazioni e tremendi costi sociali, di creatività giuridica su unioni para-matrimoniali, nonché violenze e incomprensioni, questa «verità della monogamia» ha il sapore dolce-amaro delle parole che mettono il dito nella piaga. Quella che nessuno vuol vedere. Quella che il catechismo della Chiesa Cattolica, non da ieri, spiega così: «La poligamia è contraria a questa pari dignità e all’amore coniugale che è unico ed esclusivo». E che «l’amore coniugale esige dagli sposi, per sua stessa natura, una fedeltà inviolabile. È questa la conseguenza del dono di sé stessi che gli sposi si fanno l’uno all’altro».
Il cardinale John Henry Newman, già canonizzato nel 2019, sarà dichiarato Dottore della Chiesa nella celebrazione del 1° novembre che conclude il Giubileo del Mondo dell’Educazione e sarà nominato anche «co-patrono della missione educativa della Chiesa, insieme a San Tommaso d’Aquino». Lo ha annunciato ieri il cardinale José Tolentino de Mendonça, prefetto del dicastero per la Cultura e l’Educazione. La nomina sarà inclusa nel documento che il Pontefice pubblicherà martedì prossimo, nel sessantesimo anniversario della Gravissimum Educationis, la dichiarazione del Concilio Vaticano II sull’educazione cristiana.
La decisione di Papa Leone XIV riconosce in Newman non solo un gigante della teologia e del pensiero moderno, ma un autentico maestro dell’educazione cristiana, che ha speso la vita per restituire alla formazione intellettuale e morale la sua unità originaria. Insegnante per tutta la vita, Newman mise in gioco la sua passione per l’istruzione anche come cattolico, quando il cardinale Paul Cullen di Dublino gli chiese di fondare un’università cattolica per l’Irlanda nel 1851. Egli accettò con entusiasmo e, nel suo stile inimitabile, iniziò con una serie di lezioni sul significato dell’educazione superiore e sull’identità di un’università cattolica. Quelle lezioni divennero poi il volume L’idea di Università, destinato a diventare un classico del pensiero pedagogico e teologico.
Nonostante le divergenze con Cullen, che portarono alle dimissioni di Newman nel 1857 e al fallimento dell’ateneo, il lascito di quella esperienza fu duraturo. L’idea di Università rimane una pietra miliare per la riflessione sull’educazione: per Newman, infatti, il fine dell’università non è produrre geni, leader politici o autori immortali, ma formare persone mature, dotate di libertà, equità, moderazione e saggezza. L’educazione, secondo lui, è un «habitus filosofico», una crescita interiore che mira alla conoscenza come bene in sé, non come strumento di potere o profitto. «Un intelletto educato», scriveva, «per il fatto che è un bene in sé stesso, porta con sé una forza e una grazia in ogni opera e occupazione che intraprende».
Dopo l’esperienza irlandese, Newman si dedicò alla fondazione della Oratory School, nel 1859, desiderando che fosse una sorta di «Eton cattolica». L’iniziativa ebbe successo e divenne la sua grande passione. Il cardinale non fu un educatore distante: scriveva opere teatrali in latino per i ragazzi, li preparava agli esami, suonava il violino nell’orchestra della scuola e ne seguiva da vicino la vita quotidiana. Tra i suoi ex allievi figurano i figli di J.R.R. Tolkien e Hilaire Belloc. È curioso notare che proprio in uno dei salotti della scuola Tolkien cominciò a scrivere la sua Trilogia.
Nella prospettiva della Chiesa, il legame di Newman con San Tommaso d’Aquino è profondo. Entrambi si fondano su una fiducia radicale nella capacità conoscitiva dell’uomo a partire dalla realtà. In epoche diverse, Tommaso e Newman hanno visto nell’educazione non un mero esercizio intellettuale ma un cammino verso la verità che abbraccia l’intera persona. Cercatori instancabili del vero, hanno condiviso la convinzione che la formazione integrale non si esaurisca nella teoria, ma debba tradursi in vita vissuta, in scelte morali e spirituali. L’educazione, per entrambi, non è solo sviluppo intellettuale ma crescita morale, condizione essenziale per il bene dell’individuo e della società. Newman vedeva in essa un mezzo per sanare l’integrità morale disgregata dal peccato, un compito che oggi risuona con nuova urgenza in un contesto educativo spesso frammentato e privo di orientamento.
Ma il nuovo Dottore della Chiesa mostra affinità anche con un altro gigante del pensiero cristiano: Sant’Agostino. Come il vescovo di Ippona, Newman credeva che Dio fosse il vero «maestro interiore» e che il compito dell’educatore fosse quello di aiutare l’allievo ad accedere a quella luce che già abita dentro di sé. Per questo difese strenuamente la presenza della teologia nell’università: senza di essa, sosteneva, il sapere si frammenta e rischia di smarrire il proprio senso. Solo ancorando la conoscenza a Dio, il pensiero umano può mantenere la sua unità e il suo equilibrio. In questo, Newman incarna la più alta tradizione dell’educazione cristiana, quella che vede nel sapere non una somma di nozioni, ma un cammino verso la sapienza.
Nel segno di una continuità, la prima Esortazione apostolica di Papa Leone XIV, Dilexi te, si presenta come una sorta di atto di gratitudine al suo predecessore. Il testo - come trapela da più fonti in Vaticano - era stato pensato e in gran parte scritto negli ultimi mesi di vita di papa Francesco, con l’apporto fondamentale alla bozza preliminare da parte di monsignor Vincenzo Paglia, figura storica della Comunità di Sant’Egidio e tra i suoi più stretti collaboratori nella riflessione sul tema della misericordia.
Leone XIV lo ammette fin dall’inizio: «Papa Francesco stava preparando, negli ultimi mesi della sua vita, un’Esortazione apostolica sulla cura della Chiesa per i poveri e con i poveri, intitolata Dilexi te […]. Avendo ricevuto come in eredità questo progetto, sono felice di farlo mio - aggiungendo alcune riflessioni - e di proporlo ancora all’inizio del mio pontificato». Parole che rivelano la scelta del nuovo pontefice di non imporsi su un testo che chiaramente «ha il profumo» del predecessore. Secondo indiscrezioni interne, la revisione di papa Leone XIV sarebbe stata minima. E in effetti, leggendo l’Esortazione, si ritrovano le coordinate più tipiche del magistero di papa Bergoglio: la centralità dei poveri, la critica all’indifferenza e all’autoreferenzialità, la denuncia di una cultura che scarta. Il cuore del testo è nel richiamo evangelico che attraversa tutta la riflessione: «I poveri li avete sempre con voi» (Matteo 26,11). Utilizzata come una chiave teologica. Scrive il Papa: «Il contatto con chi non ha potere e grandezza è un modo fondamentale di incontro con il Signore della storia. Nei poveri Egli ha ancora qualcosa da dirci».
È il linguaggio e la prospettiva di Francesco, ripresa quasi senza mediazioni. L’attenzione ai poveri non è trattata come un capitolo di dottrina sociale, ma come un luogo teologico in cui si manifesta il cuore di Cristo. C’è l’eco della «Chiesa in uscita», la stessa che denunciava «una cultura che scarta gli altri senza neanche accorgersene e tollera con indifferenza che milioni di persone muoiano di fame».
Al centro dell’Esortazione c’è una parola che da mezzo secolo divide e ispira la Chiesa: «Opzione preferenziale per i poveri». Leone XIV ne offre una lettura nello stile del predecessore: «Si può anche teologicamente parlare di un’opzione preferenziale da parte di Dio per i poveri […]. Questa “preferenza” non indica mai un esclusivismo o una discriminazione verso altri gruppi […]; essa intende sottolineare l’agire di Dio che si muove a compassione verso la povertà e la debolezza dell’umanità intera». Una formulazione che riprende il linguaggio del post-Concilio e lo rilegge in chiave evangelica, come segno della compassione divina e non come categoria politica. Tuttavia, non si può dimenticare che tale espressione, resa celebre dalla teologia della liberazione latinoamericana, fu oggetto di chiarimenti e cautele da parte della Congregazione per la dottrina della fede negli anni Ottanta, quando l’allora prefetto Joseph Ratzinger invitava a non confondere la liberazione cristiana con la lotta di classe.
In questo quadro, Dilexi te accoglie anche un altro tema caro al pontificato di Francesco, quello dei «movimenti popolari». Il Papa li aveva definiti «poeti sociali», riconoscendo in essi una forza di trasformazione dal basso. Una prima loro grande riunione voluta da papa Bergoglio si tenne a Roma nel 2014, alla presenza, tra gli altri, del presidente della Bolivia Evo Morales, allora leader dei coltivatori di coca e simbolo della sinistra populista latinoamericana. Per Francesco, questi gruppi - che spesso non hanno nulla di visibilmente cattolico e che in parte ereditano lo spirito delle adunate anticapitaliste - rappresentano quella moltitudine di reietti da cui egli, forse in maniera un po’ romantica, vedeva prorompere «quel torrente di energia morale che nasce dal coinvolgimento degli esclusi nella costruzione del destino del pianeta».
Dilexi te riporta riferimenti alla tradizione cattolica, vengono citati i Padri della Chiesa, i santi della carità e la tradizione monastica come testimoni di una fede concreta, che traduce il grande comandamento dell’amore in gesti quotidiani di servizio e misericordia, non solo materiale. È un modo per ricordare che la cura dei poveri non è una novità, ma appartiene al cuore del cristianesimo. Tra le pratiche concrete emerge anche il richiamo all’elemosina, gesto spesso trascurato nella spiritualità moderna.
Ovviamente, è difficile dare un giudizio globale su Leone XIV a partire da un documento che ha ereditato. Dilexi te è un testo «a quattro mani», come a quattro mani fu la prima enciclica di papa Bergoglio, Lumen fidei (2013), scritta da e per papa Ratzinger.
Era facile che accadesse nella transizione tra Benedetto XVI e Francesco, perché Benedetto era presente e vivo. Ora Leone XIV, con una scelta che appare in un certo senso di governo, ha deciso di fare la stessa cosa. Anche nella più umile delle parrocchie non si denigra mai il proprio predecessore. E soprattutto al vertice della Chiesa, una delle responsabilità principali di chi ricopre la carica papale è quella di garantire che la sede di Pietro sia tenuta in rispetto e affetto.
Non è un mistero per nessuno il fatto che il pontificato di Francesco sia stato tumultuoso, prova ne è stato, a suo modo, lo stesso conclave che ha eletto papa Prevost, alla ricerca com’era di un candidato «moderato». E il Papa, nel suo ruolo di pastore capo, ha ora la responsabilità di riunire il più possibile tutta la Chiesa. Per raggiungere questo obiettivo, deve ottenere tale fedeltà al di là dei confini delle fazioni, dove esiste una serie di preferenze teologiche e culturali.
Così Leone XIV imbocca la strada cattolica della prudenza, e in questa via fa suo il testamento del predecessore in questa Esortazione Dilexi te. Un testo che non è propriamente di Leone XIV - per questo bisognerà attendere la sua prima Enciclica - quanto un documento che potremmo definire di transizione.





