
Zelensky compra in Malesia caccia russi per usarli contro la Russia
Da quando è iniziata la guerra la Russia è sempre più in difficoltà a piazzare armamenti in giro per il mondo. In una parte del mondo per la ovvia conseguenza degli embarghi, che hanno complicato anche mercati che avevano resistito alle sanzioni del 2014 come quello del Venezuela.
Nell'altra parte, quella afro-asiatica, perché anche paesi tradizionalmente partner come Cina, Vietnam, Angola, Algeria, Uganda, India e Indonesia hanno tirato il freno proprio per aver visto le non spettacolari performance sul campo di battaglia di alcuni prodotti per cui c'erano contratti di fornitura in corso. In particolare quelli per gli aerei da combattimento Sukhoi Su-30, che stavano sostituendo il modello Su-27 già riadattato su uno precedente ancora di fattura sovietica.
Congelati quindi in questo momento i contratti in ogni parte del mondo, ed è un problema in più per l'economia di Vladimir Putin. A sorpresa però ai primi di maggio in Malesia sono arrivati due broker disposti ad acquistare con triangolazione (la Malesia era uno dei paesi partner della fornitura) sia alcuni Su-30 sia parti di ricambio per quell'aereo da combattimento ma anche per il Su-27. La vera sorpresa però per il governo malese è stato scoprire l'identità dei broker, e il mandato per cui si stavano muovendo: quello dell'entourage del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Sembra una storia fantascientifica: nessuno in questo momento è disposto a comprare armi da Putin salvo uno: il suo principale nemico. Per quanto sembri strano e considerando che il rapporto commerciale non è diretto, ma triangolato dalla Malesia, l'interesse ucraino per i caccia russi Sukhoi Su-30 e Su-27 è più che comprensibile.
Innanzitutto perché quelli erano in dotazione a Kiev una volta caduto il muro di Berlino e dissolto l'impero sovietico, e anche se a metà degli anni '90 l'Ucraina aveva in servizio ben 67 Su-27 e prima di questa guerra ne aveva poco più di una decina, quelli anche nelle loro evoluzioni tecnologiche sono gli unici ben conosciuti dai piloti di Zelensky che quindi non hanno bisogno di alcun addestramento per usarli subito durante la battaglia.
Non solo: proprio in Ucraina c'era la maggiore produzione di componentistica per quei caccia fino in tempi recenti, quando Putin aveva deciso di mettere e disposizione delle forze armate russe solo modelli interamente prodotti dentro i confini. Anche se le fabbriche sono quasi state tutte distrutte dalla guerra, pezzi di ricambio si trovano ancora.
Quelli che mancano vengono cercati dagli ucraini come in questa occasione sul mercato asiatico in modo da rimettere in piedi per la battaglia un minimo di flotta utilizzabile immediatamente. Proprio utilizzando questi acquisti e mettendoli insieme a quel che restava della flotta militare presa di mira da Putin negli aeroporti ucraini nei primi giorni del conflitto, le forse armate di Zelensky sono riuscite a rimettere in servizio due Su-27 ristrutturati e pure potenziati, che il 7 maggio scorso hanno bombardato il contingente russo che aveva conquistato la piccola ma strategica Isola dei Serpenti sul Mar Nero.
Quindi l'industria militare di Putin ha bisogno di vendere aerei e componentistica per non andare gambe all'aria come stava avvenendo da qualche mese (oggi le sanzioni non solo colpiscono l'agenzia russa Rosoboronexport per l'esportazione militare ma anche le banche e le istituzioni finanziarie che finanzino contratti Omc, ossia di gestione e manutenzione, per prodotti militari sovietici anche in mano ad altri paesi).
Il solo cliente possibile che non può essere fermato dalle sanzioni internazionale è proprio l'Ucraina, che si è fatta avanti. Il potere del business è così forte che la storia ci mette in scena questa grottesca situazione: Putin vende di fatto armi a Zelensky per farsi sparare addosso...
Nella campagna elettorale campana c’è un personaggio che, senza volerlo, sembra vivere in una sorta di commedia politica degli equivoci. È Roberto Fico, l’ex presidente della Camera, candidato governatore. Storico volto «anticasta» che si muoveva in autobus mentre Montecitorio lo aspettava, dopo essere stato beccato con il gozzo ormeggiato a Nisida, oggi scaglia anatemi contro i condoni edilizi, accusando il centrodestra di voler «ingannare i cittadini». «Serve garantire il diritto alla casa, non fare condoni», ha scritto Fico sui social, accusando il centrodestra di «disperazione elettorale». Ma mentre tuona contro le sanatorie, il suo passato «amministrativo» ci racconta una storia molto meno lineare: una casa di famiglia (dove è comproprietario con la sorella Gabriella) è stata regolarizzata proprio grazie a una sanatoria chiusa nel 2017, un anno prima di diventare presidente della Camera.
Nella giornata di venerdì, la manovra di bilancio 2026 è stata travolta da un’ondata di emendamenti, circa 5.700, con 1.600 presentati dalla stessa maggioranza. Tra le modifiche che hanno attirato maggiore attenzione spicca quella di Fratelli d’Italia per riaprire i termini del condono edilizio del 2003.
I senatori di Fdi Matteo Gelmetti e Domenico Matera hanno proposto di riattivare, non creare ex novo, la sanatoria introdotta durante il governo Berlusconi nel 2003. Obiettivo: sanare situazioni rimaste sospese, in particolare in Campania, dove la Regione, all’epoca guidata da Antonio Bassolino (centrosinistra), decise di non recepire la norma nazionale. Così migliaia di famiglie, pur avendo versato gli oneri, sono rimaste escluse. Fdi chiarisce che si tratta di «una misura di giustizia» per cittadini rimasti intrappolati da errori amministrativi, non di un nuovo condono. L’emendamento è tra i 400 «segnalati», quindi con buone probabilità di essere discusso in commissione Bilancio.
Ci risiamo. La Germania decide di giocare da sola e sussidia la propria industria energivora, mettendo in difficoltà gli altri Paesi dell’Unione. Sempre pronta a invocare l’unità di intenti quando le fa comodo, ora Berlino fa da sé e fissa un prezzo politico dell’elettricità, distorcendo la concorrenza e mettendo in difficoltà i partner che non possono permettersi sussidi. Avvantaggiata sarà l’industria energivora tedesca (acciaio, chimica, vetro, automobile).
Il governo tedesco ha approvato giovedì sera un massiccio intervento sul mercato elettrico che prevede un prezzo industriale fissato a 50 euro a Megawattora per tre anni, a partire dal prossimo gennaio, accompagnato da un nuovo programma di centrali «a capacità controllabile», cioè centrali a gas mascherate da neutralità tecnologica, da realizzare entro il 2031. Il sistema convivrebbe con l’attuale attuale meccanismo di compensazione dei prezzi dell’energia, già in vigore, come ha confermato il ministro delle finanze Lars Klingbeil. La misura dovrebbe costare attorno ai 10 miliardi di euro, anche se il governo parla di 3-5 miliardi finanziati dal Fondo per il clima e la trasformazione. Vi sono già proteste da parte delle piccole e medie imprese tedesche, che non godranno del vantaggio.













