Che a Stellantis la recente revisione del piano Ue sul Full electric non fosse piaciuto era risaputo. Ma ieri l’ad del gruppo, Antonio Filosa, ha spinto le critiche un bel pezzetto più in là fino a parlare di marcia indietro sugli investimenti nelVecchio continente.
Il manager sulle pagine del Financial Times ha respinto l’idea che l’Ue stia offrendo una «via d’uscita» credibile rispetto all’addio ai motori termici a partire dal 2035: per il top manager il pacchetto «non è all’altezza» e, soprattutto, «mancano del tutto le misure urgenti necessarie per riportare il settore automotive europeo alla crescita». La spiegazione non è solo ideologica: è industriale e riguarda la capacità del quadro regolatorio di trasformarsi in investimenti sostenibili lungo tutta la filiera.
La Commissione sta semplicemente «rinviando» l’obiettivo: l’impianto che aveva portato all’azzeramento delle emissioni allo scarico (e quindi alla fine dei motori termici) viene riformulato con un abbassamento delle emissioni del 90% rispetto al 2021. Il 10% residuo verrebbe coperto tramite strumenti di compensazione lungo la catena del valore: come, ad esempio, prodotti a minore intensità carbonica (acciaio low-carbon) e carburanti sostenibili. Quella voluta dell’Ue è una flessibilità «contabile» più che tecnologica, secondo il manager.
Filosa sostiene che questa architettura rischia di introdurre costi e complessità che i costruttori «di massa» assorbono peggio di quelli premium: «È una misura il cui costo potrebbe non essere alla portata dei costruttori di volume che servono la maggior parte dei cittadini». Tradotto: se la conformità dipende da risorse scarse (acciaio verde, e-fuels/biocarburanti certificati) con prezzi elevati e volatilità, il rischio è che tutti i problemi si scarichino proprio sui segmenti più sensibili al prezzo, comprimendo volumi e margini.
Stellantis segnala che non vede strumenti «ponte» sufficienti per rendere praticabile la transizione, in particolare nei veicoli commerciali, dove la competitività dell’elettrico dipende molto più che nelle auto da infrastrutture di ricarica, costo dell’energia, pianificazione flotte e disponibilità prodotto. Se l’adozione dei motori elettrici resta importante, il blocco al 2035 non genera crescita: può solo spostare i problemi su regole di compensazione e materiali verdi e costosi. La reazione dell’industria è dunque polarizzata: Renault valuta il pacchetto come un tentativo di gestire alcune criticità, mentre l’associazione industriale tedesca Vda lo bolla come «disastroso» per gli ostacoli pratici e di implementazione. La Commissione, invece, nega che si tratti di un arretramento: Stéphane Séjourné, commissario europeo per il mercato interno e i servizi, afferma che l’Europa non mette in discussione gli obiettivi climatici. Un altro funzionario Ue difende l’uso di questi meccanismi perché dovrebbero «creare un mercato di sbocco» per tecnologie e materiali necessari alla transizione.
Nel dibattito, inoltre, c’è anche l’asimmetria regolatoria transatlantica: negli Stati Uniti si osserva una traiettoria più favorevole per ibridi e termici, con revisione di incentivi e standard; non a caso Stellantis ha annunciato un piano di investimenti molto rilevante negli Usa. Il messaggio implicito è che, a parità di vincoli, la stabilità e l’economia della domanda influenzano dove si costruiscono capacità e catena del valore.
La verità è che la partita vera non è lo slogan «stop ai termici sì o no», ma la definizione dei dettagli che porteranno verso una transizione sostenibile: in particolare, si tratta della definizione di carburanti sostenibili e delle regole Mrv (monitoring, reporting, verification, un sistema obbligatorio dell'Unione Europea per il monitoraggio, la comunicazione e la verifica delle emissioni di gas serra) sulle norme industriali e, soprattutto, sulle misure lato domanda/infrastrutture che evitino che la compliance diventi un costo fisso.
Stellantis sostiene che, così com’è, la proposta non crea le sufficienti condizioni per crescere; la Commissione europea, dal canto suo, replica che serve una flessibilità che spinga filiere verdi europee senza abbandonare gli obiettivi industriali.
L’Emilia-Romagna bastona i proprietari di casa. È infatti durissima la reazione dei capigruppo di Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega e Rete civica alla legge regionale sugli affitti brevi approvata in Assemblea legislativa. In dettaglio, il progetto di legge proposto dalla giunta introduce nei piani urbanistici comunali una nuova destinazione d’uso, denominata «locazione breve», che ricade nella categoria turistica-ricettiva. L’obiettivo è quello di «distinguere gli immobili destinati a questo tipo di attività dal patrimonio abitativo ordinario».
La maggioranza di centrosinistra, sostengono i capigruppo, ha blindato il testo respingendo tutti gli emendamenti dell’opposizione, lasciando irrisolti i punti più controversi e aprendo la strada a un’applicazione disomogenea sul territorio.
Per Rete civica il problema centrale è la retroattività e la protezione dei diritti già maturati, soprattutto per chi opera nel rispetto degli adempimenti e del Cin. «Anche con gli emendamenti della maggioranza la retroattività non è stata tolta in modo inequivocabile», ha affermato Elena Ugolini, capogruppo di Rete civica. «Nella legge ci sono tanti punti contraddittori che genereranno sicuramente contenziosi proprio su un tema che la maggioranza aveva dichiarato di voler risolvere senza ambiguità», spiega.
Fratelli d’Italia allarga il tiro, contestando un impianto «frammentario» e l’uso di strumenti urbanistici per governare un fenomeno che, a loro giudizio, dovrebbe stare dentro una cornice turistica organica, con il rischio di contenziosi e di profili di illegittimità. «Siamo contrari a questa legge sia nel merito sia nel metodo: è un provvedimento confuso, inefficace e con profili di incostituzionalità», ha proseguito Marta Evangelisti di Fdi, «Serve una regolamentazione seria e organica, non interventi frammentari».
Forza Italia insiste sugli effetti economici e sociali: la distinzione tra uso abitativo e locazione breve introdurrebbe oneri aggiuntivi e una compressione indiretta della proprietà privata, senza che ciò produca automaticamente più affitti di lungo periodo; a pagare sarebbero soprattutto piccoli proprietari e l’indotto turistico. «Una legge debole nei presupposti, confusa negli strumenti e che avrà effetti nefasti su vari settori. Non tutela i piccoli proprietari, non favorisce il turismo e non risolve il problema abitativo», ha dichiarato per Forza Italia Pietro Vignali, «il testo prevede una compressione del diritto alla proprietà privata perché introduce una distinzione tra uso abitativo e locazione breve, attribuendovi oneri aggiuntivi».
La Lega, infine, attacca l’assenza di dati pubblici e di una valutazione d’impatto, rivendicando emendamenti «di salvaguardia» per chi già affitta e per gli alloggi messi a disposizione dalle aziende, tutti respinti. «Oggi la sinistra ci chiede di votare una legge senza numeri: senza una base conoscitiva chiara, senza dati pubblici a sostegno, senza una valutazione seria dell’impatto economico che avrà su chi guarda a questo tipo di affitti per integrare il reddito».
Del resto, questo è un periodo di caccia alle streghe per chi opera nelle locazioni brevi. Proprio martedì scorso la Corte costituzionale ha respinto diverse questioni di legittimità sollevate dal governo contro la legge della Toscana che riconosce a Regione e Comuni la competenza di regolamentare gli affitti brevi. Il pronunciamento è rilevante perché potrebbe fare da riferimento per altre amministrazioni locali e regionali in Italia che stanno valutando interventi analoghi.
Il 2025 conferma i semiconduttori come epicentro dei mercati: il Phlx Semiconductor, l’indice che comprende le 30 maggiori società quotate negli Stati Uniti coinvolte principalmente nella progettazione, distribuzione, produzione e vendita di semiconduttori, è a circa +30% da inizio anno e l’Ia ha spinto diversi titoli su massimi storici, con Nvidia e Tsmc sotto i riflettori. La domanda non è, insomma, se l’Ia sia un megatrend, ma se il prezzo stia già incorporando uno scenario perfetto, la temuta bolla.
Sul lungo periodo, però, il settore ha consegnato più valore di qualsiasi narrativa: il tasso di crescita annuo composto è stato del 33,7% negli ultimi dieci anni, contro il +13,9% dell’S&P 500. Il motivo è industriale: i chip sono il «cuore pulsante dell’economia digitale» e la nuova domanda nasce dall’elaborazione. Come spiega Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert Scf, «la domanda non è ciclica né correlata alle condizioni economiche, ma è in continua espansione in tutti i settori man mano che le aziende sviluppano capacità di intelligenza artificiale competitive».
L’entusiasmo per l’Ia, inoltre, è legato a vincoli fisici. Per alimentare una futura super intelligenza artificiale, alcune stime parlano di un’infrastruttura con consumo globale attorno a 400 gigawatt, paragonabile all’intera capacità elettrica degli Usa. «Tutti i principali colossi tech globali - da Meta ad Amazon, da Microsoft ad Alphabet - stanno integrando l’Ia nei rispettivi modelli di business e, nel farlo, condividono tutti un elemento chiave: la necessità di disporre di semiconduttori avanzati per l’addestramento dei modelli e per le applicazioni di inferenza», dice Anthony Ginsberg, ceo di GinsGlobal Index Funds e partner storico di Hanetf. «In questo scenario, il controllo della tecnologia hardware diventa un fattore strategico tanto quanto lo sviluppo del software». Qui riemerge la ciclicità. L’effetto frusta amplifica piccoli aumenti della domanda in ordini enormi a monte, seguiti da scorte e caduta dei prezzi; i cicli di capacità, invece, derivano dal fatto che una fabbrica di semiconduttori richiede anni e miliardi e può entrare in funzione quando il picco è già passato. «Investire nei semiconduttori non è semplice», avverte Gaziano. «La vera sfida è individuare i vincitori che possano trasformare queste tendenze in rendimenti duraturi». Il mercato, però, punisce subito : Broadcom ha perso circa il 10% in una seduta dopo aver citato «una pressione sul margine lordo a breve termine dovuta a un mix più ampio di ricavi dall’Ia», riaccendendo il timore di «eccesso di entusiasmo» .
Il rischio bolla può arrivare anche dal debito: Oracle e CoreWeave stanno ricorrendo a prestiti ingenti; Oracle ha indicato 18 miliardi di dollari a settembre. Luke Yang (Morningstar) avverte un «rischio molto elevato se la domanda di intelligenza artificiale non si concretizzerà come ci si aspetta ora». Conclusione: la partita si gioca su Roe (l’indice che misura la redditività aziendale) barriere tecnologiche e disciplina del capitale, non sui titoli di moda ora.




