Il settore automobilistico europeo è in correzione e le Borse lo riflettono: dopo anni di spinta sull’elettrico, mercati e regolatori ricalibrano aspettative e tempi della transizione alla luce di una domanda che zoppica e di rischi geopolitici crescenti. Le performance, da inizio anno, divergono: vari costruttori europei sono in flessione, mentre gruppi tedeschi e player americani e cinesi appaiono più resilienti grazie a volumi solidi, tagli e delocalizzazioni mirate. Il nodo non è la direzione della decarbonizzazione, ma la velocità con cui l’Europa ha cercato di imporla. Domanda debole e infrastrutture di ricarica scarse rallentano l’adozione dell’elettrico e mettono in discussione business plan basati su scenari ottimistici.
«Il consumatore si sta comportando come il cammello del proverbio arabo. Puoi portarlo alla fonte ma non puoi costringerlo a bere», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Chi ha puntato molto o tutto sull’elettrico sta pagando il prezzo di una crescita ancora troppo dipendente dagli incentivi». Si apre lo scontro con Bruxelles sulle regole emissive. John Elkann, presidente di Stellantis, ha avvertito che «c’è un serio rischio di un declino irreversibile per l’industria automobilistica europea se l’Unione europea non ammorbidisce la sua posizione sui tagli alle emissioni di carbonio, concedendo maggiore flessibilità». L’industria propone un piano, definito da Elkann come «un altro modo per ridurre le emissioni in Europa in modo costruttivo e concordato, ripristinando la crescita che abbiamo perso», che punta a mantenere oltre il 2035 ibridi plug-in, range extender e carburanti alternativi, a rendere più flessibili i target di CO2 del 2030 e un programma di rottamazione delle auto più inquinanti e rilancio delle piccole a prezzi contenuti.
La correzione della Commissione va in questa direzione: senza toccare i target climatici, Bruxelles intende revocare il divieto sui motori endotermici dal 2035, aprendo alle «auto ibride ma anche i motori a combustione convenzionali, purché alimentati con biocarburanti o e-fuel». Come sintetizza il commissario Apostolos Tzitzikostas, la Commissione è «aperta a tutte le tecnologie» e deve evitare di «compromettere la nostra competitività».
Questo riposizionamento avviene mentre i costruttori cinesi guadagnano quote, forti di filiere integrate e costi difficili da replicare in Occidente. Un veicolo elettrico prodotto in Cina «costa spesso molte migliaia di dollari in meno di uno sviluppato negli Stati Uniti o in Europa, anche oltre un terzo», sottolinea Salvatore Gaziano, «e questa minaccia competitiva sta spingendo l’Europa a guadagnare tempo, rivedendo un approccio che appariva troppo “ideologico”». La Borsa, insomma, mostra un’industria europea delle quattro ruote che deve dimostrare di saper innovare e comprimere i costi per restare rilevante nel futuro (imposto) dell’auto a batteria.
Il rischio di cambio resta il grande convitato di pietra per chi investe fuori dall’euro, mentre l’attenzione è spesso concentrata solo su azioni e bond. Gli ultimi scossoni su yen giapponese e rupia indiana ricordano che la valuta può amplificare o azzerare i rendimenti di fondi ed Etf in valuta estera, trasformando un portafoglio «conservativo» in qualcosa di molto più volatile di quanto l’investitore percepisca.
Per anni il Giappone è stato il cuore dello «yen carry trade»: ci si finanziava in yen a costo quasi nullo per comprare asset più redditizi in dollari o euro, incassando lo spread di «carry» in un vero «periodo d’oro» fra il 2015 e il 2020. Oggi, però, l’aumento, anche se da livelli bassi, dei tassi reali giapponesi e i timori su un debito/Pil oltre il 250% stanno facendo scricchiolare il meccanismo. La corsa al disimpegno pesa sui mercati globali: «La chiusura di queste operazioni richiede la liquidazione degli asset acquistati con la valuta presa in prestito. Questo significa che gli asset rischiosi devono essere venduti per uscire dal «carry trade» (la pratica speculativa consistente nel prendere a prestito del denaro in Paesi con tassi di interesse più bassi, per cambiarlo in valuta di Paesi con un rendimento degli investimenti maggiore, ndr), esacerbando le tensioni sui mercati globali se impostati con questo approccio molto speculativo», spiega Salvatore Gaziano di SoldiExpert Scf.
Sul fronte emergente, la rupia indiana ha toccato minimi storici verso dollaro ed euro dopo che la Banca centrale ha smesso di difendere il cambio, scatenando il panico in un contesto già fragile per via dei negoziati commerciali con gli Stati Uniti. È oggi la peggiore valuta asiatica dell’anno e questo si riflette immediatamente sulla performance dei fondi India per l’investitore europeo: spesso la componente valutaria conta più della selezione dei titoli in portafoglio.
«Nel 2026 i cambi, oggi su livelli estremi, saranno guidati da geopolitica, dazi e acquisti d’oro. Focus, dunque su yen, dollari australiano/neozelandese e canadese, sterlina e franco svizzero», spiega Saverio Berlinzani, capo analista di ActivTrades.
La lezione per l’investitore europeo è chiara: su fondi obbligazionari e monetari in valuta extra-euro la performance Ytd è spesso spiegata più dal cambio che dai sottostanti. «Questo dimostra in modo lampante che l’investitore deve considerare sempre il rischio cambio come una componente fondamentale del proprio portafoglio internazionale, sia nell’azionario sia nell’obbligazionario», ricorda ancora Gaziano. In pratica, ignorare la gamba valutaria equivale a fare metà dell’analisi e sovrastimare la diversificazione reale del portafoglio.
Per mitigare queste oscillazioni esistono versioni «coperte» (o hedged) di fondi ed Etf, che tramite derivati sterilizzano il rischio cambio. La protezione, però, non è gratuita: il costo medio, attorno al 2% annuo, erode il rendimento e fa rinunciare ai benefici in caso di movimento valutario favorevole. La copertura non è perfetta e va valutata su orizzonti temporali coerenti con l’obiettivo dell’investitore.
Ottobre 2025 conferma un ciclo obbligazionario incerto ma non privo di opportunità. I governativi globali hanno messo a segno un +1,31%, sospinti ancora una volta dalla Federal Reserve: il Fomc ha tagliato il Fed funds di 25 punti base al range 3,75-4%. Il numero uno della Fed, Jerome Powell, però, ha raffreddato subito le aspettative, ribadendo che la politica monetaria è su un livello «neutrale» (3-4%) e che ulteriori allentamenti non sono affatto scontati, come segnala il calo delle probabilità di un altro taglio a dicembre dal 90% a circa il 50%. Più del taglio dei tassi conta la sospensione del Quantitative Tightening da dicembre: il bilancio Fed smetterà di ridursi e la scelta è letta come «un possibile presagio di un futuro ritorno agli acquisti obbligazionari (Quantitative Easing), necessario per sopprimere il segmento a lungo termine della curva dei rendimenti e ridurre il rischio di stress nel sistema finanziario». Il tutto in un contesto di debito federale statunitense su nuovi massimi storici e progressivo disimpegno della Cina dai Treasury. Il focus torna sul «premio a termine» e sull’offerta netta di debito pubblico. I bilanci privati appaiono solidi, ma «le traiettorie del debito sovrano, dovute a deficit elevati in Usa, Francia e Regno Unito, non sono rassicuranti». Da qui la valutazione di Salvatore Gaziano, direttore investimenti di SoldiExpert Scf, secondo cui «acquistare obbligazioni a medio-lungo termine rappresenti una scarsa opportunità nella scala delle opportunità della curva dei rendimenti». Chi aveva puntato sulle scadenze ultra-lunghe sulla scia della teoria di Ray Dalio - che le vedeva come «stabilizzatore» del portafoglio - si lecca ancora le ferite. La lettura di fondo è che i rendimenti reali sul tratto lungo possano restare elevati, o salire, complice l’emissione massiccia di debito e un’inflazione americana attesa «persistente». Fuori dagli Stati Uniti, pressioni inflazionistiche più moderate danno alle banche centrali un margine maggiore per tagli selettivi: da qui la preferenza tattica per duration brevi e intermedie. Non a caso, «nelle nostre selezioni obbligazionarie anche di titoli governativi preferiamo stare nella parte breve-media della curva», dice Gaziano. Per l’investitore italiano i titoli di Stato restano un pilastro difensivo: come spiega Giacomo Chignoli, consulente finanziario di Gamma Capital Markets, Btp a media scadenza, Btp Valore e CCTeu offrono rendimenti netti competitivi, grazie alla tassazione al 12,5%, e un profilo di rischio più leggibile rispetto a molte emissioni corporate. Il confronto internazionale - Treasury decennali oltre il 4%, Bund e OAT tra il 3,2% e il 3,6% - invita a non cadere nel «home bias (la tendenza a privilegiare investimenti nazionali, ndr)» e a utilizzare anche Etf e fondi su indici governativi in euro o globali. Con una Bce che a ottobre ha lasciato i tassi invariati, con crescita e inflazione tiepide, il vantaggio per il risparmiatore è chiaro: ancorare il portafoglio a scadenze corte-medie ben diversificate permette di beneficiare dei momenti attuali e mantenere flessibilità in caso di nuovi choc sui tassi.


