2025-05-27
«Dopo il Covid dettano legge i social. Ma la vecchia radio non morirà mai»
Lorenzo Suraci (Imagoeconomica)
Il patron di Rtl 102.5: «Credo nella forza della voce. Per avere successo nell’etere serve poca politica, ma tutti devono poter parlare. Sono democratico cristiano e filo governativo. Presi anche la stazione della Lega».«Chiudo gli occhi e ascolto la forza della voce». Tutto è musica e modernariato nello studio di Lorenzo Suraci, che farebbe invidia al soggiorno di Renzo Arbore. Laggiù c’è una cassa Marshall bianca, sulle mensole la collezione dei premi compresi i Telegatti, alle pareti i dischi di platino e in mezzo troneggia un’icona pop: sua maestà il juke box Rock-Ola con le tesserine dei titoli, Only You, Diana, Moonlight Serenade. Ma niente nostalgia. Il fondatore e presidente di Rtl 102,5 - la radio più ascoltata d’Italia con sei milioni di utenti nell’ora media -, guarda avanti.«Da qui controllo il Giro d’Italia col quale abbiamo una collaborazione consolidata, poi tengo d’occhio gli Internazionali di tennis a Roma dei quali siamo partner. Dicevo della voce. Far suonare una pallina non è facile ma non potevamo non esserci; oggi in Italia c’è il Papa e poi c’è Sinner». A 73 anni l’ammiraglio è sulla tolda ogni mattina, si sveglia alle 5.30 e accende la radio, quando stacca la sera fanno 16 ore piene. Non gli scappa niente. A metà mattina mi concede un caffè e una chiacchierata nell’elegante astronave tecnologica di Cologno Monzese, proprio di fronte al colosso Mediaset. Ma lo schermo 50 pollici è sempre acceso con colonna sonora di una vita. E lui sbircia.Signor Suraci, lo sa che la chiamano il Berlusconi della radio?«Troppa grazia, parola grossissima, stiamo bassi. Il livello non è ovviamente lo stesso, ma noi siamo orgogliosi di essere arrivati fin qui senza politica e senza grandi poteri alle spalle. Lottiamo tutti i giorni, stiamo sul pezzo dall’alba a notte fonda. In questo non siamo secondi a nessuno».Primo a inserire nei palinsesti una redazione di news con 24 giornali radio al giorno, uno ogni ora. Primo a intuire la forza della «radiovisione». Primo a creare un network privato nazionale. Non proprio robetta.«Certo che no, ma la voce serve per parlare di tutto tranne che di me. Però è vero che ad allestire una redazione privata Enrico Mentana è arrivato secondo. Devo ringraziare un amico come Roberto Arditti, che mi ha sempre dato buoni consigli. Noi mettevamo i microfoni e la musica, lui l’intelligenza. Durante Tangentopoli erano imperdibili gli interventi di Andrea Pamparana da palazzo di Giustizia, cose che fidelizzano. Sono felice che loro siano ancora con noi».Da ragazzo di Calabria immaginava di diventare un tycoon radiofonico? «Neanche per idea, a Vibo Valentia al massimo ascoltavo con i miei La Corrida di Corrado con una vecchia Phonola. Tutto partì da mio papà, che nonostante fosse stato prigioniero sotto il fascismo raccontava il fascino della radio nel radunare le masse nelle piazze. Me lo sarei ricordato più avanti. Allora lui mi voleva ingegnere e infatti mi iscrisse inutilmente al liceo scientifico». Perché inutilmente? «Era il ’68 della contestazione, periodo complicato: arrivavano in Calabria futuri terroristi come Alberto Franceschini e Paolo Ceriani Sebregondi a organizzare le assemblee e a fermare i treni. Per me erano solo occasioni per saltare la scuola. Alla fine sono stato buttato fuori alla maturità con 36».Che famiglia era la sua?«I miei lavoravano alle Poste. Piccola borghesia di provincia, grande dignità ma soldi contati: al 20 del mese cominciava il conto alla rovescia. Ho interiorizzato il valore dell’avere fame e la determinazione a raggiungere gli obiettivi. Quando io e i miei fratelli Alfonso e Virgilio tornavamo da scuola, trovavamo da scaldare la pasta già cotta e la cotoletta che sembrava una suola». Suo padre non si arrese, voleva in casa un ingegnere.«Infatti ci trasferimmo tutti al Nord per cinque anni. Ad Alzano Lombardo, nella Bergamasca, dove abitava il nonno che faceva l’ufficiale giudiziario. Per dire, tifo ancora Atalanta. Mi iscrissi al Politecnico di Milano ma dopo otto mesi alzai bandiera bianca, non ci capivo niente. E papà mi buttò fuori di casa».Quel che si dice il destino.«Andai a dormire da uno zio single, Francesco Capuccio, dirigente dell’Inps che nel tempo libero piazzava orchestrine nei dancing e nelle balere. Lo accompagnavo e con lui ho cominciato a fare l’impresario. Col tempo abbiamo allargato il raggio d’azione in Veneto, in Piemonte, perfino in Calabria. Era l’epoca del primo Claudio Cecchetto. Quando la mia famiglia capì che cominciavo a guadagnare, mi costrinse a comprar casa a Bergamo. Firmai un pacco di cambiali».E questo cosa ci azzecca con l’impresario?«Tutto, perché quelle cambiali mi insegnarono a non avere paura di scalare le montagne. Papà diceva: “I debiti portano salute”. Aveva ragione, quell’insegnamento mi ha cambiato in meglio. Incontrai un compagno delle medie che faceva l’architetto, Giancarlo Tebaldi, e gli proposi senza tentennare: perché non prendiamo una discoteca? Lui avrebbe pensato ai muri, io ai contenuti. Rilevammo il cinema Columbus ad Arcene e lo trasformammo nella discoteca Il Capriccio, prima operazione del genere in Italia sull’esempio di Le Palais a Parigi».La radio quando arriva?«Adesso. Ce ne serviva una per fare pubblicità al locale, allora l’accoppiata era un classico. Così nel 1987 abbiamo rilevato per 140 milioni di lire Rtl (Radio Trasmissioni Lombarde) di Bergamo. Sembrava un buon colpo, ma dopo qualche settimana ero già disperato: non si sentiva oltre Città Alta. Temevo la fregatura, invece il venditore mi disse: “Guarda che ti ho ceduto il diritto di uso delle frequenze”. Per dire, allora non ce l’aveva neppure Silvio Berlusconi, era il Far West».Ma se non si sentiva, non si sentiva… «Mi accorsi che era il problema minore, bastò trasferire l’impianto a 1.200 metri d’altezza in Valcava per arrivare dalle porte di Brescia a quelle di Torino. Bingo».Comincia l’epopea di Rtl, quella dei talent scout e delle star.«Abbiamo mandato a Sanremo Laura Pausini, abbiamo fatto decollare Gianluca Grignani, Ivana Spagna, Nek, Dj Francesco, I Modà. Siamo stati i primi a far ascoltare i Police in Italia, abbiamo trasmesso il concerto degli U2 fra le macerie di Sarajevo e le partite della Nazionale agli Europei 2004 e 2008. Un bel filotto».Delle news abbiamo parlato. Altra intuizione, la radio che si vede.«Un anno ero a Las Vegas, al NabShow, la fiera radiotelevisiva. Ero lì per trovare nuove idee radiofoniche ma mi sono accorto che a dominare era la Tv. La forza dell’immagine era totalizzante e io mi sentivo un poverello. Grazie a un nostro tecnico e a qualche amico di Mediaset abbiamo cominciato a utilizzare il satellite non solo per i trasferimenti ma anche per le emissioni». Signor Suraci, qual è il mix per costruire una radio vincente?«Il 60% musica, il 20% news, il 20% intrattenimento. Politica poca, ma da noi tutti hanno il diritto di dire la loro. E infatti i politici vengono volentieri a Rtl 102,5 nonostante i numerosi talk show televisivi. Ecco la forza della voce».Lei però una posizione ce l’avrà.«Democratico cristiano, sostanzialmente filogovernativo. Qualche anno fa ho comprato la concessione di Radio Padania per lanciare Radio Freccia; un calabrese che prende la radio della Lega era una curiosità. Mi sembrava di fare una cosa buona, invece le istituzioni mi hanno fatto capire che avrebbero voluto chiuderla a tutti i costi. Mah…».Terza e ultima intuizione, in attesa della prossima: il network nazionale. Ha fatto l’unità d’Italia radiofonica senza scomodare Garibaldi.«Quello è stato un progetto a ostacoli. Avevo messo insieme 12 radio locali, eravamo pronti a partire, avevamo aperto sedi anche a Torino, Roma, Napoli, Bari, Palermo. Ma un giorno il sottosegretario Vincenzo Vita (piddino, governi Prodi, D’Alema, Amato - ndr) ha inventato un cavillo per vietare alle radio locali di creare un marchio nazionale. Così ho perso un sacco di soldi e ho dovuto licenziare 140 persone. Mi sono risollevato quando ho incamerato tutte le frequenze e ho creato Rtl 102,5 con una copertura di segnale che pochi avevano. Da un’ingiustizia è nato un network leader, con 300 fra dipendenti e collaboratori».Qual è la vostra offerta per il very normal people, slogan del network?«Rtl ha un palinsesto generalista, Radio Freccia è il regno del rock straniero più qualche incursione dell’amico Ligabue e Radio Zeta è strutturata sulle esigenze della generazione Z. Mai dimenticarsi dei giovani. Per questo ho due collaboratori speciali, i miei figli Marta e Daniele, ormai pilastri dell’azienda». Come spiegherebbe il suo successo a degli universitari?«A fare la differenza è sempre la fame. Poi bisogna credere fortemente a un’idea; per me è stata la forza della voce. Non riesco a leggere un articolo fino in fondo ma non smetterei mai di ascoltare. Infine non bisogna aver paura dei debiti. A un certo punto io ero sommerso e ho risolto il problema scaglionando i pagamenti a 180 giorni sulle scadenze d’entrata della pubblicità. Ci siamo riallineati senza più interessi passivi». Dalle finestre si vede Mediaset. Come siete finiti di fronte al colosso? «Gianni Pilo mi spifferò che c’era un capannone dismesso dell’Agusta proprio davanti a loro a Cologno. Ci facevano le pale per gli elicotteri. Per noi era perfetto. Poi aprimmo anche a Roma perché da buon terrone sono convinto che l’Italia debba essere lunga e unita».Lei è stato membro della Commissione di papa Francesco per ristrutturare l’informazione vaticana.«Fu un grande onore con qualche sorpresa. Domandai: quanta pubblicità avete? Risposta: zero. Allora capii che c’era parecchio da lavorare». Se guarda oltre l’orizzonte cosa vede?«Un presente dominato dagli Ott digitali. Con la pandemia ci siamo addormentati tutti e quando ci siamo svegliati, i social network avevano preso definitivamente il comando. Fatta cento la torta pubblicitaria, oggi il 90% lo portano a casa loro. Non è una visione funerea, semplicemente dobbiamo lavorare duro e avere buone idee».Siamo di nuovo al «Video killed the radio star»? «Le risponde un analogico del mondo digitale: ci hanno provato ma gli è andata male. La radio non morirà mai».
Simona Marchini (Getty Images)