
Il tycoon prova a reagire alle accuse dei democratici, che hanno sfruttato la connivenza dell’Fbi per indagare i repubblicani. A rischiare di più sono Bill e Hillary Clinton, che dovranno testimoniare a porte chiuse sull’anomalo suicidio del finanziere.Donald Trump va al contrattacco. Mantiene la linea dura sul Russiagate. E, al contempo, non si fa mettere all’angolo sul caso di Jeffrey Epstein. Ieri, la commissione Vigilanza della Camera Usa, guidata dal repubblicano James Comer, ha emesso vari ordini di comparizione proprio in riferimento all’oscura vicenda del finanziere morto suicida nel 2019: tra i destinatari di tali ordini per deposizioni a porte chiuse figurano Bill Clinton, Hillary Clinton, l’ex direttore dell’Fbi, James Comey, l’ex procuratore speciale Bob Mueller, l’ex procuratrice generale di Barack Obama, Loretta Lynch, e l’ex procuratore generale della prima amministrazione Trump, Bill Barr. La commissione ha anche chiesto al Dipartimento di Giustizia di fornire tutti i fascicoli attinenti al caso in esame.Nelle scorse settimane, il presidente americano è stato da più parti accusato di essere in qualche modo coinvolto nella vicenda Epstein. Per quanto fosse legato soprattutto a personaggi appartenenti al mondo dem, il finanziere fu amico di Trump fino quando i due non litigarono nel 2004. L’inquilino della Casa Bianca non vuole quindi finire nell’angolo. E questo spiega il gioco di sponda con Comer, che è storicamente uno dei suoi principali alleati alla Camera. La strategia repubblicana è abbastanza chiara. Rimandare la palla al di là del campo, sottolineando gli antichi legami che Epstein intratteneva con il Partito democratico. Del resto, secondo il New York Post, il finanziere visitò la Casa Bianca almeno 17 volte, mentre Clinton era presidente.Ma non è tutto. La controffensiva su Epstein serve a Trump anche per portare avanti la controinchiesta sul Russiagate: i dem hanno infatti più volte accusato l’attuale presidente di concentrarsi sul dossier russo, per stornare l’attenzione mediatica dalla vicenda del finanziere. Non è quindi probabilmente un caso che, lunedì, la procuratrice generale degli Stati Uniti, Pam Bondi, abbia ordinato l’avvio di un’indagine penale volta ad appurare le eventuali responsabilità dei vertici dell’amministrazione Obama nel Russiagate: una mossa che lo stesso Trump ha accolto come una «grande notizia». L’inchiesta prevede la convocazione di un grand jury: segno, questo, che il governo federale potrebbe puntare a formulare delle incriminazioni. Tanto più se, come riportano indiscrezioni non confermate, il grand jury dovesse essere convocato in Florida anziché a Washington Dc: la roccaforte della burocrazia statale, massicciamente schierata con i dem. La decisione della Bondi è arrivata dopo che, il mese scorso, la direttrice dell’Intelligence nazionale, Tulsi Gabbard, aveva raccomandato al Dipartimento di Giustizia di avviare un’indagine in tal senso. In particolare, la Gabbard aveva tacciato l’amministrazione Obama di aver orchestrato nel 2016 un «complotto sovversivo» per mettere in difficoltà un Trump pronto a insediarsi il 20 gennaio 2017. Alla base di questa accusa stavano alcuni documenti desegretati a luglio, secondo cui, il 9 dicembre 2016, lo stesso Obama ordinò all’allora direttore dell’Intelligence nazionale, James Clapper, una valutazione d’intelligence ex novo sulle interferenze russe nelle elezioni americane di quell’anno. L’analisi, redatta in fretta e furia, fu pubblicata il 6 gennaio 2017 e sostenne che la Russia aveva aiutato Trump durante la campagna elettorale. Il punto è che quell’analisi, secondo la Gabbard, «contraddiceva direttamente le valutazioni della comunità d’intelligence effettuate nei sei mesi precedenti». Anche il direttore della Cia, John Ratcliffe, ha individuato delle criticità nella valutazione del 6 gennaio 2017: non solo la tempistica estremamente ridotta per redigerla ma anche l’inusuale coinvolgimento dei capi d’agenzia nella stesura del documento. Ratcliffe ha inoltre sottolineato che l’allora capo della Cia, John Brennan, fece pressioni affinché fosse allegato nell’analisi il dossier dell’ex spia britannica, Christopher Steele: e questo, nonostante un funzionario gli avesse segnalato la sua scarsa fondatezza. Il dossier, ormai screditato, era stato in parte finanziato dalla campagna della Clinton e che l’Fbi, pur non avendone verificato i contenuti, lo aveva usato per ottenere dai magistrati i mandati di sorveglianza ai danni del team di Trump: un Trump che ieri, pur escludendo «probabilmente» una ricandidatura alla Casa Bianca, ha confessato che gli «piacerebbe» ritentare, nonostante il XXII emendamento imponga un massimo di due mandati presidenziali.Come che sia, non è ancora stato reso noto chi risulti nel mirino dell’indagine ordinata dalla Bondi. A rischiare di più dovrebbero essere Brennan, Clapper e Comey (che si ritrova sotto i riflettori anche per la vicenda Epstein). Al momento, non è stata neanche resa nota l’ipotesi di reato al centro della nuova inchiesta sul Russiagate, nonostante il New York Post abbia ventilato la fattispecie di «tradimento». Tra l’altro, a luglio, fu riportato che il Dipartimento di Giustizia aveva già aperto un’indagine su Brennan e Comey per possibili false dichiarazioni rilasciate davanti al Congresso. La scorsa settimana, il governo americano ha desegretato un allegato del rapporto, redatto dal procuratore speciale John Durham nel 2023. Stando a questo incartamento, nel 2016 l’Fbi non effettuò delle indagini adeguate, per appurare l’eventuale autenticità di alcuni documenti che accusavano la Clinton di aver «approvato» un «piano» volto a collegare falsamente Trump a Mosca. Eppure, proprio in quel periodo, il Bureau indagava sulla presunta collusione tra lo stesso Trump e il Cremlino, usando il dossier di Steele per mettere sotto sorveglianza il team dell’allora candidato repubblicano.
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