Lo scontro armato tra il governo libico e la milizia Rada è imminente e avrà effetti negativi sui flussi migratori. Tuttavia finora, malgrado le fibrillazioni del Paese africano, il Viminale è riuscito a contenere gli arrivi.La Libia, passateci il termine, esporta due prodotti. Il primo si chiama principalmente gas. Il secondo copre il mondo del traffico di clandestini. Entrambe puntano all’Italia e all’Europa. La stabilità, i conflitti e la capacità di triangolare le varie tribù sono un elemento essenziale per trovare un equilibrio tra i due diversi flussi. Più i governi della Libia traballano più è facile che il primo flusso energetico diminuisca e aumenti il secondo. In questi anni il lavoro dell’Italia è stato intenso. A dirlo sono i numeri. L’export energetico è cresciuto pur in una complessiva stabilità. Il numero degli sbarchi ha visto un importante calo. Nei primi sei mesi del 2023 il numero complessivo è stato di 75.500 unità. Nel semestre dello scorso anno di circa 30.000 unità e nello stesso periodo di quest’anno di circa 32.000. Nel primo semestre del 2023 dalla Tripolitania verso l’Italia sono partiti 13.513 tra profughi e clandestini. Dalla Cirenaica circa 15.500. Per un totale di 29.000 circa. Nel 2024 il numero è sceso a 17.000 unità e nel primo semestre di quest’anno si è tornati a circa 29.000 unità complessive. Al tempo stesso, il numero di partenze bloccate a monte, cioè in Libia, è fortemente diminuito. Così come è sceso quello delle partenze dalla Tunisia, correlate alla situazione di Tripoli. Si è passati da oltre 90.000 persone nel 2023 a oltre 100.000 lo scorso anno a poco più di 38.000 nel 2025. Non ci vuole molto a capire che, nonostante le continue fibrillazioni in Libia, lo schema messo in piedi da chi si occupa di sicurezza e dal titolare del Viminale funziona. Certo, ci sono alti e bassi oltre a enormi difficoltà. Il caso del rimpatrio forzato da Bengasi del Commissario Ue e del gruppo di ministri europei, compreso Matteo Piantedosi, dimostra al di là dei dati di cronaca che a far incrinare il sistema è stato il modello multilaterale sotto il cappello Ue. La presenza del Commissario e il blitz del governo di Khalifa Haftar ha portato quest’ultimo a tentare la foto opportunity per spingere Bruxelles a riconoscere l’esecutivo della Cirenaica. Il blitz non è riuscito e l’aereo ha girato il muso ed è ripartito. Un fallimento? No. Si è trattato solo di un segnale di adattamento. Da ambo i lati. Ribadiamo: i numeri dicono che il sistema funziona. Ora bisogna vedere se reggerà a future esplosioni. A nuove exploit bellici. Non è un esercizio di retorica, ma stando anche agli alert americani una eventualità vicinissima nel tempo. Washington ha lanciato l’allarme per lasciare la Libia: lo scontro armato tra il governo di Dbeibah e la milizia Rada, divenuta famosa attraverso il nome di Osam Almarsi, appare imminente. Due giorni fa il Dipartimento di Stato Usa ha alzato il livello di alert al grado 4, il più severo. Sono stati invitati i cittadini a stelle e strisce a lasciare il Paese. E stavolta non è una formalità.«Il premier non ha più accesso sicuro nemmeno all’aeroporto di Mitiga, segnale evidente della perdita di controllo sulla capitale, su cui vuole recuperare e in fretta», spiega alla Verità Daniele Ruvinetti, esperto di Libia e advisor di Med-Or. «Il Gnu (governo riconosciuto, ndr) prova a rassicurare gli alleati, sostenendo che si tratterà di un’operazione rapida, ma la realtà è ben più instabile: Misurata è divisa, con solo una parte disposta a combattere per Tripoli, mentre il premier Dbeibah spera in un sostegno perché sa che Rada ha ottime capacità militari», aggiunge Ruvinetti. Senza dimenticare che il rischio che Haftar colga l’occasione per avanzare verso la capitale è concreto. «Alcune milizie tripoline», prosegue l’esperto, «potrebbero addirittura non ostacolarlo in questo caso, in uno scenario che ricorda il 2019, quando l’offensiva fu almeno in parte tollerata dagli Stati Uniti». Oggi, la mossa potrebbe godere anche di un tacito via libera da Ankara (con cui la famiglia Haftar sta stringendo i collegamenti), e molto probabilmente di una spinta russa. «In questo contesto, Unsmil (la missione Onu, ndr) appare sotto pressione e tenta un’accelerazione del processo politico, con una nuova iniziativa prevista già per il 5 agosto», conclude. In fondo, il governo di Tripoli nasce per portare il Paese alle elezioni. Che sarebbero dovute avvenire nel 2019. Sono passati sei anni e non è successo nulla. Motivo in più per immaginare l’esecutivo tripolino al momento più basso della curva. Le prossime settimane vedranno nuovi scontri militari, ma anche il riposizionamento delle pedine e l’onda lunga del Patto di Abramo. Gli accordi tra casa Bianca, Gerusalemme e Riad hanno cambiato l’equilibrio non solo a Gaza, in Libano, in Iran, ma in tutto il Medio Oriente. Hanno coinvolto Mosca per gestire il nucleare di Teheran, ma hanno anche schiacciato le mire di Ankara nell’area. Non è un caso che i fiammiferi si riaccendano in Libia. A dargli fuoco è anche Recep Tayyip Erdogan che, stretto nell’entroterra, punta di nuovo al Mediterraneo. Per noi non sarà facile.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Nel 1937 l’archeologo francese Fernand Benoit fece una scoperta clamorosa. Durante gli scavi archeologici nei pressi dell’acquedotto romano di Arles, la sua città, riportò alla luce un sito straordinario. Lungo un crinale ripido e roccioso, scoprì quello che probabilmente è stato il primo impianto industriale della storia, un complesso che anticipò di oltre un millennio la prima rivoluzione industriale, quella della forza idraulica.
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Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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