L’estate del 2025 sarà ricordata come la stagione in cui Roma si è presa due simboli milanesi. Il Viminale ieri, dopo 31 anni di irregolarità, ha deciso di fatto lo sgombero del Leoncavallo provando a mettere la parola fine a una situazione che nessuna giunta meneghina ha mai voluto affrontare.
Ma ieri, come le cronache dei giornali compresa La Verità hanno ampiamente descritto, è stato anche il giorno in cui la Mediobanca eredità di Enrico Cuccia e frutto della gestione di Alberto Nagel ha ceduto il passo e fallito la scalata a Banca Generali che a sua volta sarebbe dovuta essere il salvagente dei vertici nel tentativo di scombussolare le carte ed evitare l’Ops del Montepaschi. Tentativo che probabilmente ieri Nagel non avrebbe nemmeno voluto fare se non fosse stato per la moral suasion della Bce che avrebbe sottolineato l’inopportunità di fissare una assemblea il 25 settembre. Cioè in una data addirittura successiva al termine fissato per la scalata da parte della banca senese. Tant’è che ieri i numeri sono stati non solo netti, ma spietatamente chiari. I soci hanno bocciato l’operazione.
La reazione di Nagel è stata improntata all’attacco. Poche parole per sottolineare che una fetta di soci sarebbe in conflitto d’interessi. Un po’ sulla falsa riga della diatriba che si era tenuta in ambito Assogestioni. Il risultato però è che non ci sarà un terzo tempo e quindi Piazzetta Cuccia si prepara a finire nelle braccia del Monte dei Paschi di Siena, amministrato dallo stesso Luigi Lovaglio che tre anni fa, nel 2002, varcava la soglia della sede di Mediobanca per chiedere una mano e finalizzare l’aumento di capitale. Il mondo cambia. E adesso la domanda che in molti si fanno e che cosa deciderà di fare l’ad di Mediobanca. Voci di dimissioni circolano in queste ore. ma la logica spinge in un’altra direzione. Molto più probabile che il management e il cda attendano l’esito dell’Ops e quindi la possibile ed eventuale riorganizzazione. Lo scorso 28 luglio, il consiglio d’amministrazione di Piazzetta Cuccia ha approvato per un centinaio di manager apicali, e per tutti i destinatari di performance share e di piani di incentivazione, la possibilità di accelerare l'incasso della parte di compensi percepita in azioni. In particolare - spiegava Mediobanca in un passaggio del documento di risposta all’offerta di Mps - è stato concesso di riscattare in denaro, per un impatto a conto economico di 90 milioni di euro, la parte di remunerazione in azioni (per un massimo di 7,2 milioni di titoli).
Pertanto, dopo la metà di settembre, quando dovrebbe essere arrivata a compimento l’offerta pubblica di scambio, le prime file manageriali si troverebbero a incassare pro rata e in contanti la loro quota del piano incentivi 2023-2026 già maturata. Senza dover attendere le scadenze originarie previste tra il 2027 e il 2032. Una buona fetta di bonus è in capo proprio all’ad che lo scorso anno, avendo raggiunto i traguardi stabiliti dal precedente piano strategico, si è assicurato uno stipendio di 5,8 milioni di euro, con un incremento del 30% rispetto ai 4,5 milioni del 2022. Questo aumento deriva da una combinazione di fattori: il suo compenso fisso di 1,9 milioni di euro, invariato rispetto all’anno precedente, e gli incentivi a lungo termine che, con 2,9 milioni di euro, hanno rappresentato la parte principale del guadagno. Il riscatto principale arriverebbe però alla tornato di settembre. Centrare gli obiettivi del nuovo piano prevederebbe l’assegnazione all’amministratore delegato di 549.785 azioni Mediobanca che, alle quotazioni attuali, valgono oltre 10 milioni di euro.
Inoltre, secondo quanto riportato da Milano Finanza, ad aprile 2023 Nagel possedeva oltre 3 milioni di azioni (0,35% del capitale) per effetto dei piani di incentivazione. I conti sono presto fatti: parecchi milioni. E qui si viene all’altra questione. Come li investirà? Una delle possibilità è che crei una boutique d’investimento modello Braggiotti, magari con un piede a Londra. Più complicato è invece capire chi guiderà Mediobanca in futuro. Per comprenderlo bisognerebbe prima capire che cosa sarà Mediobanca. Manterrà il brand? Sarà inglobata e diventerà una semplice divisione? Interrogativi a cui giungeranno risposte autunnali. Adesso che è ancora estate la notizia resta una: è finita un’era.
Mentre l’Europa dibatte di Ucraina, schiacciata tra Usa e Russia, e si dibatte nel tentativo di trovare fondi per riarmarsi nel perimetro dell’Alleanza atlantica, la Nato sta già prendendo nuova forma e imboccando nuove strade. È l’effetto di un’America mossa da Donald Trump e ancor più proiettata verso il Sud globale e il Pacifico. Due elementi sono utili per comprendere l’evoluzione in atto.
Il primo riguarda lo storico e inaspettato accordo di pace tra Azerbaigian e Armenia. A inizio agosto il presidente americano ha annunciato che le due nazioni da secoli contrapposte (basti ricordare il genocidio subito dagli armeni) si sono incontrate a Washington e hanno definito un cessate il fuoco e la creazione di un corridoio che si chiamerà Tripp, giusto per tenere vivo l’ego di The Donald. Tripp è infatti la sigla che sta per «Trump route for international peace and prosperity». La rotta sarà sviluppata sotto la supervisione degli Stati Uniti, che garantiranno il rispetto della sovranità armena. Si prevede la costruzione di una linea ferroviaria, un oleodotto, un gasdotto e una rete di fibra ottica. Baku avrà così un collegamento diretto con la Turchia senza dover passare né per la Russia né per l’Iran e rafforzerà il proprio ruolo come hub energetico e logistico globale. Yerevan invece avrà l’occasione di diversificare l’economia e attrarre investimenti, seppur mantenendo il pieno controllo giuridico sul territorio, forte delle garanzie di difesa e sicurezza fornite da Trump nel caso si riaccendessero ostilità azere. A poche ore dalla sua firma a Washington le reazioni internazionali non si sono fatte attendere. La Turchia si è detta moderatamente soddisfatta. La Nato ha accolto «con favore i progressi verso la pace tra Armenia e Azerbaigian» come ha scritto su X la portavoce dell’Alleanza atlantica, Allison Hart. L’Iran ha inutilmente alzato la voce dichiarandosi sconcertato per la decisione presa. Ha compreso benissimo che questo accordo serve agli Usa a piazzare la Nato proprio sotto il naso di Teheran. Il tutto a poche settimane dal bombardamento israeliano e soprattutto di quello americano portato avanti con i B2. Gli iraniani sembrano aver compreso la portata della fuga in avanti della Nato molto più dell’Unione europea, che a parte le frasi di circostanza non ha aggiunto molto. Nemmeno dopo aver ascoltato le reazione dell’altro grande player dell’area: i russi.
Da Mosca sono giunte infatti parole piuttosto concilianti: «Il vertice di alto livello tra Armenia e Azerbaigian negli Stati Uniti merita una valutazione positiva», ha dichiarato la portavoce del Ministero degli Esteri russo Maria Zakharova. «Sosteniamo costantemente tutti gli sforzi che contribuiscono al raggiungimento di questo obiettivo chiave per la sicurezza regionale. Ci auguriamo che questo passo contribuisca a far progredire l’agenda di pace», ha affermato la diplomatica bionda, pur sottolineando che il processo di riconciliazione tra Armenia e Azerbaigian «deve essere integrato nel contesto regionale». Lo stesso contesto dominato da Vladimir Putin fino a poco tempo fa. Appare chiaro che l’alleanza che si sta formando tra Cremlino e Casa Bianca prevede che l’Ucraina venga messa sullo stesso tavolo dell’Iran e del nuovo Patto di Abramo che, come abbiamo scritto più volte, ridisegnerà gli equilibri del Medio Oriente in chiave sunnita.
Gli accordi tra Israele, Usa e Arabia Saudita non possono stare in piedi senza un consenso russo e ciò alla fine prevederà uno spostamento degli interessi di una Nato (sempre a matrice americana) verso l’Oriente. Un Oriente che vede altre novità. E qui troviamo il secondo elemento utile a comprendere l’evoluzione in atto. Il Giappone ad esempio sta rafforzando i rapporti militari con l’Australia di cui è da poco divenuto fornitore di corvette e sta addirittura pensando di rompere il tabù dell’atomica. Immaginare Tokyo dotata del deterrente di testate nucleare significherebbe prendere atto del fatto che Aukus, l’accordo dei Paesi del Pacifico con Gran Bretagna e Usa, possa fare un importantissimo passo avanti in grado di consolidare il secolo asiatico. Di fronte a tali notizie, Bruxelles dovrebbe interrogarsi sul da farsi. E su come la storia si ripeta. Per gli Usa il lago Mediterraneo è sempre stato un luogo da presidiare come ponte da Est a Ovest, ma non un dominio da consolidare. Così è stato tra la prima e la seconda guerra mondiale e così l’approccio si sta ripetendo. Non solo però esclusivamente per il Mediterraneo, ma per l’intera Europa.
Abbiamo di fronte scelte complesse e pochi fondi per metterle a terra. La Nato potrebbe essere un nuovo luogo per trovare confini e competenze. L’Italia, ad esempio, potrebbe provare a guadagnarsi la sfida del fianco Sud, disinteressandosi di altri scacchieri. Pur nella consapevolezza di dove sta andando il globo.
Emmanuel Macron s’infila. Una delle pratiche politiche che più gli piace. L’ha fatto in ambito Nato, con il piano di riarmo Ue, con la Difesa comune e adesso con Gaza. L’altro giorno il leader francese ha sganciato la bomba. Ha annunciato di voler riconoscere lo Stato palestinese. Cavalcando l’onda della propaganda pro Pal e la difficile situazione umanitaria della Striscia, Parigi punta a creare un gruppo di Paesi europei che dialoghi con l’Arabia saudita per sbloccare la situazione.
«Gran Bretagna, Francia e Germania lavoreranno in stretta cooperazione a un piano per la sicurezza e una soluzione a lungo termine a Gaza», ha annunciato ieri pomeriggio con una stringata nota Downing Street al termine di una conferenza fra i rispettivi capi di Stato e di governo. Segnale che qualcosa si sta muovendo effettivamente. In un lungo articolo pubblicato ieri mattina dalla Stampa Bill Emmott, per 16 anni direttore dell’Economist, è intervenuto sul tema dando una sua particolare visione. «La possibilità che questa iniziativa francese si riveli diversa c’è. Tale chance non dipende dall’unione o dalla mancanza di unione dell’Europa, bensì dall’eventualità che la Francia e gli altri Paesi riescano a dar vita a una partnership con gli Stati arabi, guidata da Riad, abbastanza potente e determinata da costringere Israele e Stati Uniti a cambiare rotta. Al momento, tale chance appare piccola, ma vale la pena cercare di coglierla», ha scritto. La visione appare un poco di parte. E omette alcuni dettagli. Però estremamente fondamentali. Alla Francia non importa nulla del futuro dei palestinesi. Così come l’autonomia della Striscia è un obiettivo palese dei sauditi, ma anche - a differenza di quanto scrive Emmott - di israeliani e americani. I sauditi vogliono perseguire una strategia che li porti a controllare indirettamente l’area e a costruire il loro primo porto nel Mediterraneo. È uno dei pilastri del Patto di Abramo. L’obiettivo di Macron è infilarsi a gamba tesa nel Patto e cercare di trovare uno spazio che l’America non prevede minimamente né per la Francia, tanto meno per la Germania. Per questo ha fatto benissimo Giorgia Meloni a mettere subito dei paletti allo strappo in avanti francese. In ballo c’è il futuro del Medio Oriente e dei rapporti tra singoli Paesi europei e il mondo sunnita. La Francia vuole, esattamente come ha fatto in ambito Nato, muoversi in contrasto con la Casa Bianca. Ciò significa creare instabilità in Medio Oriente e creare nuove tensioni con l’inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Diritti umani e temi delicati connessi non sono chiaramente il vero motivo del contendere. Al contrario ci sono appalti miliardari e futuri equilibri a Bruxelles.
A undici anni di distanza e dopo l’attacco di Israele ai siti nucleare iraniani la situazione e il modello politico di Barack Obama può finalmente cambiare una volta per tutte. Il nuovo Patto di Abramo rilanciato da Trump vede i sauditi e i Paesi sunniti puntare al controllo del Medio Oriente. Il Qatar è silenzioso ma non riesce più a influire come prima. L’asse tra Gerusalemme e Riad - elemento silente ma portante della strategia - si sta rivelando molto forte, tanto che in Medio Oriente sembra non esserci più nessuno disposto a sostenere gli ayatollah. Russia e Cina stanno a guardare e se lo schema dovesse realizzarsi, sarà anche facile per i sauditi mettere un piede a Gaza. Ciò significherebbe la fine dell’onda lunga delle primavere arabe e anche il declino del modello democratico che ha pesato sul Mare nostrum. Attenzione, se i sauditi dovessero raggiungere i loro obiettivi, i repubblicani avrebbero davanti una prateria politica, ma gli effetti si sentirebbero anche in Europa. Le relazioni con il Qatar diventerebbero radioattive e la filiera socialista quella che spingeva Federica Mogherini in Iran riceverebbe una batosta. Infine anche i Paesi del Magreb dovrebbero fare i conti con i nuovi equilibri del Middle East. Il prossimo anno Libia e Tunisia potrebbero essere interessate da importanti novità. Non è facile prevedere quali. Ma una cosa è certa, il coagulo sunnita punta a eliminare i tentacoli sciiti e quindi a muovere nella direzione della stabilità e del business. Macron l’ha capito perfettamente. Lunedì e martedì Francia e Arabia Saudita presiederanno a una conferenza alle Nazioni Unite a New York sulla questione palestinese, a cui potrebbero far seguito a settembre una conferenza dei Capi di Stato in coincidenza con l’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Ecco spiegata l’uscita su Gaza da parte di Macron. Il quale vorrebbe prendersi così una fetta degli investimenti sauditi o almeno cerca di sedersi al tavolo della grande rivoluzione in atto in Medio Oriente. Se i rapporti migliorano con i sauditi lo stesso avverrà anche con gli Emirati. Basta vedere quanto è accaduto lo scorso maggio durante la visita ufficiale di Trump. Gli Usa consentiranno al piccolo Stato sunnita di conquistare un posto al sole nella grande partita del business dell’Intelligenza artificiale. Sarà costruito un mega campus dalla holding emiratina G42 e gestito in collaborazione con diverse aziende statunitensi, nell’ambito dell’accordo quadro «US-Uae AI Acceleration partnership» con cui i due Paesi puntano a rafforzare la cooperazione e la collaborazione in materia di Intelligenza artificiale e tecnologie avanzate. Ciò trascina lo sviluppo dei data center e delle nuove centrali nucleari. L’asse franco tedesco rischia concretamente di rimanerne fuori. Gaza, nella mente di Macron, può essere il porto di accesso all’economia del futuro: quella dei dati. E quindi della Difesa e della sicurezza. L’Italia si trova in mezzo. Fino ad ora non ha mai trovato il sostegno francese né dentro i confini Ue né fuori. Lo stesso non si può dire con gli Usa. Anche stavolta non dovrebbero esserci troppi dubbi quando si tratta di decidere con chi stare.





