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2018-08-18
Tiranti indiziati per il crollo: «Sapevano tutti da anni che andavano rinforzati»
Ansa
Faceva parte della campata più lunga d'Europa la porzione di ponte crollata a Genova alla vigilia di Ferragosto. Era tenuta su da quattro tiranti, due dei quali gravemente deformati e, a differenza di altri, non ancora manutenuti. I lavori sarebbero dovuti partire il prossimo ottobre, ma la tragedia non ha atteso. È proprio la rottura di uno di questi l'ipotesi di lavoro su cui si concentrerà la commissione che deve accertare la causa del crollo del Morandi.
A quattro giorni dal disastro costato la vita a 38 persone e con altre 10 ricoverate negli ospedali genovesi in gravi condizioni, i soccorritori sono ancora alla ricerca di cinque dispersi. Ieri la commissione dei Trasporti e delle infrastrutture ha fatto un primo sopralluogo nella zona del disastro, mentre la famiglia Benetton, che comincia a lavorare alla strategia difensiva, secondo quanto riportato da Lettera 43 avrebbe incontrato a Milano i rappresentanti dello studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners.
Niente fulmini, niente traffico troppo intenso. In questo momento sotto accusa ci sono proprio loro: gli stralli che tenevano su le campate, la cui manutenzione era stata prevista per i prossimi mesi. «La voce che gira è che il collasso sia stato attivato dalla rottura di uno strallo, ci sono testimonianze e video che vanno in questo senso», ha spiegato ieri in un'intervista Antonio Brencich, docente dell'università di Genova e membro della commissione, escludendo «altre ipotesi fantasiose che non vanno prese neanche in considerazione».
Gli stralli, fuori dal gergo tecnico, sono cavi d'acciaio ricoperti di calcestruzzo, attaccati per una sommità a piloni di sostegno e, con l'altra, alla parte orizzontale del ponte. Con uno sforzo elastico costante devono sostenere il peso delle campate, rispondendo alle oscillazioni e alle vibrazioni dovute al passaggio dei mezzi. Quando venne costruito il ponte, con una tecnica considerata allora all'avanguardia, i cavi vennero immersi nel cemento armato precompresso per difenderli dagli agenti atmosferici e garantirne la durata. Con la conseguenza però di renderli invisibili, nascondendone per sempre il reale stato di salute. Che gli stralli della pila collassata sul Polcevera fossero malmessi, però, si sapeva da tempo. «Gli stralli del sistema bilanciato numero 9 (…) si presentano con deformata modale non del tutto conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali», scriveva qualche mese fa il Politecnico di Milano in una relazione richiesta proprio da Autostrade per conoscere le condizioni del ponte.
Nello studio i tecnici parlavano chiaramente di una «mancanza di simmetria» da ascriversi «a differenze nelle caratteristiche meccaniche e nell'azione di tiro degli stralli». Esattamente lo scorso 3 maggio Autostrade aveva pubblicato un bando di gara da 20 milioni di euro per rinforzare il ponte. I lavori prevedevano «interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551» e cioè «il rinforzo degli stralli di pila 9 e 10», dopo che quelli di pila 11 erano già stati oggetto di rinforzo negli anni Novanta. In pratica, per rafforzare il sistema sarebbero stati predisposti «nuovi cavi esterni che vanno dal traversone dell'impalcato fino alla sommità delle antenne», con l'aggiunta, come si evince dai documenti del bando, di «550.000 chilogrammi di acciaio e 1.200 metri cubi di calcestruzzo». Cifre che lasciano intendere la portata e l'urgenza dell'intervento.
Che tutti sapessero da tempo che la manutenzione era necessaria lo si capisce dalle dichiarazioni del 21 marzo 2017 di Stefano Marigliani, direttore del tronco genovese di Autostrade: «Sul viadotto Polcevera, che non presenta problemi al momento, sono in corso di progettazione due interventi di carattere strutturale da realizzarsi nel 2018 che consisteranno nell'installazione di stralli e impalcati per il rafforzamento dell'infrastruttura». Già nel lontano 1993 Autostrade era intervenuta sul sistema di tenuta del ponte. In quegli anni le indagini sui tiranti delle pile vicine a quelle crollate avevano portato alla luce un «grave stato di ossidazione dei cavi interni di precompressione», con «numerosi trefoli tranciati o fortemente ossidati» e con altri senza tensione. Per una parte del ponte, quella più vicina alla città, venne programmato un intervento urgente. Come ha spiegato in un'intervista Pier Giorgio Malerba, docente di Teoria dei ponti al Politecnico di Milano, agli stralli ritenuti più deboli venne costruito intorno un «esoscheletro», cioè vennero «rivestiti con dei tiranti nuovi che di fatto coprono quelli vecchi, mai tolti», ha spiegato. Sottolineando che «già ai tempi c'era preoccupazione». I lavori, però, non coinvolsero tutto il ponte, ma soltanto una parte e si fermarono prima di raggiungere la sezione del viadotto crollato lo scorso 14 agosto. Eppure non si trattava che degli ultimi ritocchi ad un'opera nata malata.
Nel 1968, dopo solo un anno di vita del ponte, cominciarono gli interventi di messa in sicurezza, che continuarono nel 1973, nel 1978 e, ancora, tra il 1981 e il 1994. Poi, tra il 2000 e il 2001, in preparazione del G8 di Genova, la struttura subì 450 interventi di manutenzione ordinaria, fino a raggiungere, nel 2008, il record di 960 rattoppi.
Alessia Pedrielli
«Poca manutenzione pure per il bus caduto»
Facciamo un salto indietro negli anni, ma non troppo. Il 28 luglio 2013, sulla autostrada A16 anche detta dei Due mari, avvenne la strage del viadotto Acqualonga: un pullman che trasportava fedeli di padre Pio precipitò dal ponte nei pressi di Monteforte Irpino, causando la morte di 40 persone e ferendone 10. Il più grave incidente stradale in Italia che si verificò su una tratta gestita da Autostrade per l'Italia, concessionaria che fa capo alla famiglia Benetton. La stessa che aveva la responsabilità di controllare che il viadotto della Valpocevera, sgretolatosi a Genova alla vigilia di ferragosto, fosse sicuro e percorribile.
Perché ricordiamo una tragedia di cinque anni fa? Perché anche in quel caso è stata messa sotto accusa la manutenzione, in particolare il guard rail che forse avrebbe potuto reggere l'urto del bus. Cosa che evidentemente non avvenne. Sull'incidente c'è un processo in corso che arriverà a sentenza il prossimo dicembre. Vero è che il pullman era una carretta che perdeva pezzi per strada e neppure avrebbe dovuto circolare, altrettanto vero che chi ha pensato di trasportare i pellegrini con quel mezzo ha compiuto un atto criminale. E ancora vero: l'urto sarebbe avvenuto a una velocità di 92 chilometri all'ora, senza neppure che l'autista frenasse.
Ma la domanda che si pongono i magistrati dell'accusa è anche un'altra: la strage di Acqualonga è accaduta solo per colpa di chi ha permesso la circolazione di un pullman che doveva finire dal demolitore o c'è stato anche un problema di cattiva manutenzione autostradale? L'accusa mossa dalla Procura è omicidio colposo plurimo. Figurano imputati due funzionari della Motorizzazione di Napoli, che avrebbero fornito carte false dando il via libera alla circolazione di un veicolo insicuro e in pessime condizioni. Ma alla sbarra compariranno anche vertici e dirigenti di Autostrade per l'Italia: l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, il direttore generale Riccardo Mollo e altri dieci funzionari della concessionaria. Si tratta di Michele Renzi, Paolo Berti, Nicola Spadavecchia, Bruno Gerardi, Michele Maietta, Gianluca De Franceschi, Gianni Marrone, Antonio Sorrentino, Marco Perna e Massimo Fornaci.
Per i periti incaricati dalla Procura di Avellino quel guard rail non era a norma. E non venne adeguato per due volte: due erano state le occasioni per sostituirlo negli ultimi anni. Ma è rimasto uguale a quello che c'era nel 1990, all'epoca delle prime barriere di cemento, allora rivoluzionarie ma in seguito superate da prodotti studiati meglio e sottoposti a crash test di una certa severità. Inoltre è stato riscontrato il degrado dei tirafondi, ovvero i cavi d'acciaio che fissano le barriere. In altre parole un tipo di guard rail più moderno o almeno la sostituzione dei tirafondi, avrebbe potuto trattenere il pullman evitando che precipitasse dal viadotto.
Non c'è ancora una sentenza, è anche possibile che Autostrade non abbia responsabilità e vengano tutti assolti. Vedremo. La società, dopo aver risarcito le vittime, si è difesa sostenendo che «la responsabilità del mantenimento degli standard di sicurezza è attribuita ai responsabili delle strutture territoriali». E ha aggiunto che «le spese annue per il mantenimento dell'infrastruttura sono in linea con gli impegni del contratto di concessione».
Naturalmente questa vicenda non ha nulla a che fare con i morti del viadotto Morandi. Tuttavia questo processo testimonia che quello della sicurezza è un problema che esiste sulla rete autostradale, non si tratta di«favolette e i ponti non crollano per fatalità. Come è anche vero che gli investimenti realizzati lasciano perlomeno dubbiosi.
La dimostrazione viene dagli stessi bilanci: negli scorsi anni i ricavi realizzati da Autostrade per l'Italia, soprattutto grazie ai pedaggi in continuo e ingiustificato aumento, si sono trasformati più in dividendi per la controllante Atlantia che in investimenti per migliorare e restaurare la rete. Tra il 2013 e il 2017 le spese di manutenzione sono state pari a 2,1 miliardi a fronte di 3,75 miliardi di cedole staccate per l'azionista.
Alfredo Arduino
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Si indaga sugli stralli fatti di cemento armato precompresso. È stata rimandata troppo la revisione di quelli che hanno ceduto. Intanto si scava ancora: cinque dispersi.«Poca manutenzione pure per il bus caduto». Il veicolo precipitò dal viadotto Acqualonga nel 2013. A giudizio i vertici del gruppo: il guard rail era vecchio.Lo speciale contiene due articoliFaceva parte della campata più lunga d'Europa la porzione di ponte crollata a Genova alla vigilia di Ferragosto. Era tenuta su da quattro tiranti, due dei quali gravemente deformati e, a differenza di altri, non ancora manutenuti. I lavori sarebbero dovuti partire il prossimo ottobre, ma la tragedia non ha atteso. È proprio la rottura di uno di questi l'ipotesi di lavoro su cui si concentrerà la commissione che deve accertare la causa del crollo del Morandi. A quattro giorni dal disastro costato la vita a 38 persone e con altre 10 ricoverate negli ospedali genovesi in gravi condizioni, i soccorritori sono ancora alla ricerca di cinque dispersi. Ieri la commissione dei Trasporti e delle infrastrutture ha fatto un primo sopralluogo nella zona del disastro, mentre la famiglia Benetton, che comincia a lavorare alla strategia difensiva, secondo quanto riportato da Lettera 43 avrebbe incontrato a Milano i rappresentanti dello studio legale Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli & Partners.Niente fulmini, niente traffico troppo intenso. In questo momento sotto accusa ci sono proprio loro: gli stralli che tenevano su le campate, la cui manutenzione era stata prevista per i prossimi mesi. «La voce che gira è che il collasso sia stato attivato dalla rottura di uno strallo, ci sono testimonianze e video che vanno in questo senso», ha spiegato ieri in un'intervista Antonio Brencich, docente dell'università di Genova e membro della commissione, escludendo «altre ipotesi fantasiose che non vanno prese neanche in considerazione».Gli stralli, fuori dal gergo tecnico, sono cavi d'acciaio ricoperti di calcestruzzo, attaccati per una sommità a piloni di sostegno e, con l'altra, alla parte orizzontale del ponte. Con uno sforzo elastico costante devono sostenere il peso delle campate, rispondendo alle oscillazioni e alle vibrazioni dovute al passaggio dei mezzi. Quando venne costruito il ponte, con una tecnica considerata allora all'avanguardia, i cavi vennero immersi nel cemento armato precompresso per difenderli dagli agenti atmosferici e garantirne la durata. Con la conseguenza però di renderli invisibili, nascondendone per sempre il reale stato di salute. Che gli stralli della pila collassata sul Polcevera fossero malmessi, però, si sapeva da tempo. «Gli stralli del sistema bilanciato numero 9 (…) si presentano con deformata modale non del tutto conforme alle attese e certamente meritevole di approfondimenti teorico-sperimentali», scriveva qualche mese fa il Politecnico di Milano in una relazione richiesta proprio da Autostrade per conoscere le condizioni del ponte. Nello studio i tecnici parlavano chiaramente di una «mancanza di simmetria» da ascriversi «a differenze nelle caratteristiche meccaniche e nell'azione di tiro degli stralli». Esattamente lo scorso 3 maggio Autostrade aveva pubblicato un bando di gara da 20 milioni di euro per rinforzare il ponte. I lavori prevedevano «interventi di retrofitting strutturale del Viadotto Polcevera al km 000+551» e cioè «il rinforzo degli stralli di pila 9 e 10», dopo che quelli di pila 11 erano già stati oggetto di rinforzo negli anni Novanta. In pratica, per rafforzare il sistema sarebbero stati predisposti «nuovi cavi esterni che vanno dal traversone dell'impalcato fino alla sommità delle antenne», con l'aggiunta, come si evince dai documenti del bando, di «550.000 chilogrammi di acciaio e 1.200 metri cubi di calcestruzzo». Cifre che lasciano intendere la portata e l'urgenza dell'intervento.Che tutti sapessero da tempo che la manutenzione era necessaria lo si capisce dalle dichiarazioni del 21 marzo 2017 di Stefano Marigliani, direttore del tronco genovese di Autostrade: «Sul viadotto Polcevera, che non presenta problemi al momento, sono in corso di progettazione due interventi di carattere strutturale da realizzarsi nel 2018 che consisteranno nell'installazione di stralli e impalcati per il rafforzamento dell'infrastruttura». Già nel lontano 1993 Autostrade era intervenuta sul sistema di tenuta del ponte. In quegli anni le indagini sui tiranti delle pile vicine a quelle crollate avevano portato alla luce un «grave stato di ossidazione dei cavi interni di precompressione», con «numerosi trefoli tranciati o fortemente ossidati» e con altri senza tensione. Per una parte del ponte, quella più vicina alla città, venne programmato un intervento urgente. Come ha spiegato in un'intervista Pier Giorgio Malerba, docente di Teoria dei ponti al Politecnico di Milano, agli stralli ritenuti più deboli venne costruito intorno un «esoscheletro», cioè vennero «rivestiti con dei tiranti nuovi che di fatto coprono quelli vecchi, mai tolti», ha spiegato. Sottolineando che «già ai tempi c'era preoccupazione». I lavori, però, non coinvolsero tutto il ponte, ma soltanto una parte e si fermarono prima di raggiungere la sezione del viadotto crollato lo scorso 14 agosto. Eppure non si trattava che degli ultimi ritocchi ad un'opera nata malata. Nel 1968, dopo solo un anno di vita del ponte, cominciarono gli interventi di messa in sicurezza, che continuarono nel 1973, nel 1978 e, ancora, tra il 1981 e il 1994. Poi, tra il 2000 e il 2001, in preparazione del G8 di Genova, la struttura subì 450 interventi di manutenzione ordinaria, fino a raggiungere, nel 2008, il record di 960 rattoppi.Alessia Pedrielli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tiranti-indiziati-per-il-crollo-sapevano-tutti-da-anni-che-andavano-rinforzati-2596734264.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="poca-manutenzione-pure-per-il-bus-caduto" data-post-id="2596734264" data-published-at="1765019871" data-use-pagination="False"> «Poca manutenzione pure per il bus caduto» Facciamo un salto indietro negli anni, ma non troppo. Il 28 luglio 2013, sulla autostrada A16 anche detta dei Due mari, avvenne la strage del viadotto Acqualonga: un pullman che trasportava fedeli di padre Pio precipitò dal ponte nei pressi di Monteforte Irpino, causando la morte di 40 persone e ferendone 10. Il più grave incidente stradale in Italia che si verificò su una tratta gestita da Autostrade per l'Italia, concessionaria che fa capo alla famiglia Benetton. La stessa che aveva la responsabilità di controllare che il viadotto della Valpocevera, sgretolatosi a Genova alla vigilia di ferragosto, fosse sicuro e percorribile. Perché ricordiamo una tragedia di cinque anni fa? Perché anche in quel caso è stata messa sotto accusa la manutenzione, in particolare il guard rail che forse avrebbe potuto reggere l'urto del bus. Cosa che evidentemente non avvenne. Sull'incidente c'è un processo in corso che arriverà a sentenza il prossimo dicembre. Vero è che il pullman era una carretta che perdeva pezzi per strada e neppure avrebbe dovuto circolare, altrettanto vero che chi ha pensato di trasportare i pellegrini con quel mezzo ha compiuto un atto criminale. E ancora vero: l'urto sarebbe avvenuto a una velocità di 92 chilometri all'ora, senza neppure che l'autista frenasse. Ma la domanda che si pongono i magistrati dell'accusa è anche un'altra: la strage di Acqualonga è accaduta solo per colpa di chi ha permesso la circolazione di un pullman che doveva finire dal demolitore o c'è stato anche un problema di cattiva manutenzione autostradale? L'accusa mossa dalla Procura è omicidio colposo plurimo. Figurano imputati due funzionari della Motorizzazione di Napoli, che avrebbero fornito carte false dando il via libera alla circolazione di un veicolo insicuro e in pessime condizioni. Ma alla sbarra compariranno anche vertici e dirigenti di Autostrade per l'Italia: l'amministratore delegato Giovanni Castellucci, il direttore generale Riccardo Mollo e altri dieci funzionari della concessionaria. Si tratta di Michele Renzi, Paolo Berti, Nicola Spadavecchia, Bruno Gerardi, Michele Maietta, Gianluca De Franceschi, Gianni Marrone, Antonio Sorrentino, Marco Perna e Massimo Fornaci. Per i periti incaricati dalla Procura di Avellino quel guard rail non era a norma. E non venne adeguato per due volte: due erano state le occasioni per sostituirlo negli ultimi anni. Ma è rimasto uguale a quello che c'era nel 1990, all'epoca delle prime barriere di cemento, allora rivoluzionarie ma in seguito superate da prodotti studiati meglio e sottoposti a crash test di una certa severità. Inoltre è stato riscontrato il degrado dei tirafondi, ovvero i cavi d'acciaio che fissano le barriere. In altre parole un tipo di guard rail più moderno o almeno la sostituzione dei tirafondi, avrebbe potuto trattenere il pullman evitando che precipitasse dal viadotto. Non c'è ancora una sentenza, è anche possibile che Autostrade non abbia responsabilità e vengano tutti assolti. Vedremo. La società, dopo aver risarcito le vittime, si è difesa sostenendo che «la responsabilità del mantenimento degli standard di sicurezza è attribuita ai responsabili delle strutture territoriali». E ha aggiunto che «le spese annue per il mantenimento dell'infrastruttura sono in linea con gli impegni del contratto di concessione». Naturalmente questa vicenda non ha nulla a che fare con i morti del viadotto Morandi. Tuttavia questo processo testimonia che quello della sicurezza è un problema che esiste sulla rete autostradale, non si tratta di«favolette e i ponti non crollano per fatalità. Come è anche vero che gli investimenti realizzati lasciano perlomeno dubbiosi. La dimostrazione viene dagli stessi bilanci: negli scorsi anni i ricavi realizzati da Autostrade per l'Italia, soprattutto grazie ai pedaggi in continuo e ingiustificato aumento, si sono trasformati più in dividendi per la controllante Atlantia che in investimenti per migliorare e restaurare la rete. Tra il 2013 e il 2017 le spese di manutenzione sono state pari a 2,1 miliardi a fronte di 3,75 miliardi di cedole staccate per l'azionista. Alfredo Arduino
Palazzo Berlaymont a Bruxelles, sede della Commissione europea (Getty Images)
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
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Lo stand della casa editrice Passaggio al bosco a «Più libri più liberi» (Ansa)
Basta guardare la folla che si presenta e, con un pizzico di curiosità, guarda i titoli di questa casa editrice. Titoli che si sono esauriti in pochissimo tempo. La rivoluzione conservatrice, un volume scritto da Armin Mohler, che racconta la storia intellettuale della Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale. «Abbiamo dovuto chiedere di portarci nuovi libri», spiegano dalla casa editrice, «perché ormai ne avevamo davvero pochi e alcuni titoli erano completamente esauriti». Oppure Psicopatologia del radical chic, che immaginiamo sia stato parecchio utile in questi giorni di polemica per comprendere come ragiona chi, in nome della libertà, vorrebbe la censura per gli altri. Oppure Coraggio. Manuale di guerriglia culturale. Una virtù, quella del coraggio appunto, che parrebbe mancare a chi, come ad esempio Alessandro Barbero, nel 2019 diceva: «Penso che l’antifascismo non passi necessariamente attraverso il proibire a una casa editrice di destra di avere uno stand». E che oggi invece sottoscrive appelli per boicottare una casa editrice di destra insieme a Zerocalcare, che ha deciso di non partecipare alla kermesse ma di continuare comunque a vendere i suoi libri (come si dice in romanesco pecunia non olet?). Corrado Augias, invece, è riuscito a fare di meglio. Ha scritto una lettera, a Repubblica ovviamente, in cui ha annunciato che non si sarebbe presentato in fiera, dove avrebbe dovuto parlare di Piero Gobetti. Una lettera piena di pathos, quasi che si trovasse al confino, in cui spiegava: «Io sono favorevole alla tolleranza, anzi la pratico - anche con gli intolleranti per scelta, per età, per temperamento. C’è però una distinzione. Un conto sono gli intolleranti un altro, ben diverso, chi si fa partecipe cioè complice delle idee di un regime criminale come il nazismo». Perché si inizia sempre così: sono tollerante, ma fino a un certo punto. Anzi: fino al «però». Fino a dove ci sono quelli che Augias definisce nazisti, anche se in realtà non lo sono.
Dallo stand di Passaggio al bosco, come dicevamo, stanno passando tutti. Alcuni chiedono di parlare con l’editore, Marco Scatarzi, dicendo di condividere poco o nulla di ciò che stampa, ma esprimendo comunque solidarietà nei suoi confronti. Ci sono anche scolaresche che si fermano e pongono domande su quei libri «proibiti». Anche Anna Paola Concia, che certamente non può essere considerata una pericolosa reazionaria, è andata a visitare lo stand esprimendo vicinanza a Passaggio al bosco. Il mondo al contrario, appunto. O solamente un mondo in cui c’è un po’ di buonsenso. Quello che ti fa dire che chiunque può pubblicare qualsiasi testo purché non sia contrario alla legge.
C’è chi, però, continua a non accettare la presenza della casa editrice. Nel pomeriggio di ieri, per esempio, un gruppo di femministe ha prima urlato «siamo tutte antifasciste» e poi ha lanciato un volantino in cui si dà la colpa al capitalismo, che insieme al nazismo è ovunque, se Passaggio al bosco è lì. Oggi, inoltre, una ventina di case editrici ha deciso di coprire, per una mezz’ora di protesta, i propri libri. «Questo è ciò che è accaduto alla libertà di stampa e di pensiero quando i fascisti e i nazisti hanno messo in pratica la loro libertà di espressione. Vogliamo una Più libri più liberi antifascista».
Per una strana eterogenesi dei fini, gli stand delle case editrici più agguerrite contro Passaggio al bosco, tra cui per esempio Red Star, sono vuoti. Pochi visitatori spaesati si aggirano tra i libri su Lenin e quelli su Stalin. Un fantasma si aggira per gli stand: ed è quello degli antifa.
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I carabinierii e la Scientifica sul luogo della rapina alla gioielleria Mario Roggero a Grinzane Cavour (Cuneo), il 28 aprile 2021 (Ansa)
A due giorni dalla condanna in secondo grado che gli infligge una pena di 14 anni e 9 mesi (17 nel primo appello), ci si chiede se non ci sia stato un errore, un abbaglio, perché ciò che stupisce di più oltre alla severità della pena sono le sue proporzioni. Sì perché mentre a Roggero spetta il carcere, ai delinquenti e alle loro famiglie andranno migliaia di euro di risarcimenti. Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885.000 euro. Gliene sono stati riconosciuti 480.000. L’uomo però aveva già dato 300.000 euro - non dovuti - ai congiunti dei suoi assalitori. Per reperire i soldi ha dovuto svendere due appartamenti di proprietà sua e dei suoi fratelli. Una delle due era la casa in cui era cresciuto. Come già scritto su queste colonne si tratta di una tragica beffa per chi ha subito una rapina e che, per essersi difeso, ne subisce un’altra ancora. A questi soldi vanno aggiunti altri 300.000 euro «di spese legali, peritali, mediche», che non sono bastate a mitigare la «sentenza monito» di 17 anni in primo grado, come l’ha definita il procuratore capo di Asti. Non un monito, ma il presagio della condanna in secondo grado che gli ha visto attribuire una diminuzione di pena di due anni e poco più.
Eppure nel mondo dell’assurdo in cui viviamo ai familiari di chi muore sul lavoro vanno appena 12.000 euro. Proprio così. Ad esser precisi si parla di un versamento una tantum di 12.342,84 euro. Una cifra versata dall’Inail che cambia ogni anno perché rivalutata dal ministero del Lavoro in base all’inflazione, quindi alla variazione dei prezzi al consumo. Di questo si devono accontentare le famiglie di chi perde la vita lavorando onestamente, mentre chi ruba e muore per questo può far arrivare ai propri cari anche mezzo milione di euro. Bel messaggio che si manda ai familiari delle 784 persone morte sul lavoro solo nel 2025. Ai coniugi superstiti spetta poi il 50% dello stipendio del proprio caro, ai figli appena il 20%. Considerato che statisticamente a morire sul lavoro non ci sono grossi dirigenti, ma più che altro operai, si può dire che a queste persone già travolte dal dolore non arrivano che pochi spicci. Spicci che arrivano oltretutto solo ad alcune condizioni. Intanto per quanto riguarda i coniugi la quota di stipendio arriverà a vita, certo, ma bisogna stare attenti a fare richiesta entro 40 giorni, altrimenti si rischia di non ricevere nulla. Per quanto riguarda i figli, il 20% dello stipendio del lavoratore deceduto verrà contribuito fino ai 18 anni di età, fino ai 26 se studenti. Non oltre. Nulla verrà versato ai genitori della vittima se conviventi a meno che non si dimostri che la stessa contribuisse a mantenerli. Insomma, dolore che si aggiunge a dolore.
Anche i rapinatori uccisi da Roggero avevano dei familiari, certo, anche loro hanno diritto a soffrire per le loro perdite, ma se il valore di una morte si dovesse o potesse contare con il denaro, verrebbe da pensare che per la giustizia italiana ha più valore la vita di un delinquente che quella di un lavoratore onesto.
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Galeazzo Bignami (Ansa)
Se per il giudice che l’ha condannato a 14 anni e 9 mesi di carcere (in primo grado la Corte d’Assise di Asti gliene aveva dati 17, senza riconoscere la legittima difesa), nonché a un risarcimento milionario ai familiari dei due rapinatori uccisi (con una provvisionale immediata di circa mezzo milione di euro e le richieste totali che potrebbero raggiungere milioni) c’è stata sproporzione tra difesa e offesa, la stessa sproporzione è stata applicata nella sentenza, tra l’atto compiuto e la pena smisurata che dovrà scontare Roggero. Confermare tale condanna equivarrebbe all’ergastolo per l’anziano, solo per aver difeso la sua famiglia e sé stesso.
Una severità che ha scosso le coscienze dell’opinione pubblica nonché esasperato gli animi del Parlamento. Ma la colpa è dei giudici o della legge? Giovedì sera a Diritto e Rovescio su Rete 4 è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, il quale alla Verità non ha timore nel ribadire che «qualsiasi legge si può sempre migliorare, per carità. Questa legge mette in campo tutti gli elementi che, se valutati correttamente, portano ad escludere pressoché sempre la responsabilità dell’aggredito, salvo casi esorbitanti. Ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare e in questo caso il mare è la magistratura», spiega Bignami, «ci sono giudici che, comprendendo il disposto di legge e lo spirito della stessa, la applicano in maniera conforme alla ratio legis e giudici che, invece, pur comprendendola, preferiscono ignorarla. Siccome questa è una legge che si ispira sicuramente a valori di destra come la difesa della vita, della famiglia, della proprietà privata e che, come extrema ratio, consente anche una risposta immediata in presenza di un pericolo imminente, certi giudici la applicano con una prospettiva non coerente con la sua finalità».
In questo caso la giustificazione di una reazione istintiva per proteggere la propria famiglia dai rapinatori non ha retto in aula. Ma oltre al rispetto della legge non è forse fondamentale anche l’etica nell’applicarla? «Su tante cose i giudici applicano le leggi sulla base delle proprie sensibilità, come in materia di immigrazione, per esempio», continua Bignami, «però ricordiamo che la legge deve essere ispirata da principi di astrattezza e generalità. Poi va applicata al caso concreto e lì vanno presi in esame tutti i fattori che connotano la condotta. L’articolo 52 parla di danno ingiusto, di pericolo attuale e proporzione tra difesa e offesa. Per pericolo attuale non si può intendere che sto lì con il cronometro a verificare se il rapinatore abbia finito di rapinarmi o se magari intenda tornare indietro con un fucile. Lo sai dopo se il pericolo è cessato e l’attualità non può essere valutata con il senno di poi. Ed anche il turbamento d’animo di chi viene aggredito non finisce con i rapinatori che escono dal negozio e chiudono la porta. Questo sentimento di turbamento è individuale e, secondo me, si riflette sulla proporzione. Vanno sempre valutate le condizioni soggettive e il vissuto della persona».
Merita ricordare, infatti, che Roggero aveva subito in passato altre 5 rapine oltre a quella in esame e che in una di quelle fu anche gonfiato di botte. La sua vita e quella della sua famiglia è compromessa, sia dal punto di vista psicologico che professionale. È imputato di omicidio volontario plurimo per aver ucciso i due rapinatori e tentato omicidio per aver ferito il terzo che faceva da palo. E sapete quanto si è preso quest’ultimo? Appena 4 anni e 10 mesi di reclusione.
La reazione emotiva del commerciante, la paura per l’incolumità dei familiari, sono attenuanti che non possono non essere considerate. Sono attimi di terrore tremendi. Se vedi tua figlia minacciata con una pistola, tua moglie trascinata e sequestrata, come minimo entri nel panico. «Intanto va detto quel che forse è così ovvio che qualcuno se n’è dimenticato: se i banditi fossero stati a casa loro, non sarebbe successo niente», prosegue Bignami, «poi penso che, se Roggero avesse avuto la certezza che quei banditi stavano fuggendo senza più tornare, non avrebbe reagito così. Lo ha fatto, come ha detto lui, perché non sapeva e non poteva immaginare se avessero davvero finito o se invece volessero tornare indietro. Facile fare previsioni a fatti già compiuti».
Ma anche i rapinatori hanno i loro diritti? «Per carità. Tutti i cittadini hanno i loro diritti ma se fai irruzione con un’arma in un negozio e minacci qualcuno, sei tu che decidi di mettere in discussione i tuoi diritti».
Sulla severità della pena e sul risarcimento faraonico, poi, Bignami è lapidario. «C’è una proposta di legge di Raffaele Speranzon, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, che propone di ridurre fino ad azzerare il risarcimento dovuto da chi è punito per eccesso colposo di legittima difesa».
Chi lavora e protegge la propria vita non può essere trattato come un criminale. La giustizia deve tornare a distinguere tra chi aggredisce e chi si difende.
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