Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
I risultati delle regionali di Campania, Puglia e Veneto hanno fatto ringalluzzire la sinistra, sicura adesso di avere un’alternativa a Giorgia Meloni, e contestualmente rintuzzato il dibattito sulla legge elettorale e sul premierato. Ad accendere la miccia il responsabile organizzazione di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli: «Va fatta una riflessione sulla legge elettorale», perché, «con il campo largo unito, a differenza delle politiche 2022, se si dovesse votare oggi non ci sarebbe la stessa stabilità politica né in caso di vittoria del centrodestra né in caso di vittoria del centrosinistra».
Le opposizioni minacciano barricate. Dario Parrini, senatore del Pd, esperto di legge elettorale, taccia le sue parole come «chiacchiere e faciloneria. La verità è che la Meloni è nel panico». Alberto Balboni, Fratelli d’Italia, presidente della commissione Affari istituzionali del Senato, non nasconde la sua preoccupazione: «Prima nel Pd erano possibilisti, ora frenano. Hanno capito che con i collegi uninominali loro non vincono ma impediscono a noi di vincere al Senato». Matteo Renzi, esperto di magheggi elettorali, scatenato: «La Meloni proverà a cambiare la legge elettorale perché con questa lei a Palazzo Chigi non ci rimette più piede». «La destra vuole fare il “meloncellum” per mantenere il potere», ribadisce il dem Francesco Boccia. Che aggiunge: «Sarà Salvini a non fargliela fare. A noi basta giocare di rimessa». E infatti ieri il leader della Lega, sentito su questo tema, ha risposto: «A me non interessa». «Diremo no», taglia corto Igor Taruffi, responsabile organizzazione del Pd: «Gli uomini della Meloni ci spiegano che se non si cambia la legge elettorale non vince nessuno. Io sono convinto che vinciamo noi».
La segretaria pd, Elly Schlein, conferma di non aver sentito la premier ma che è stata invitata ad Atreju: «Vengo solo per confronto con Meloni»: «Il loro ragionamento parte dalla paura di perdere, perché hanno capito che noi, dopo aver faticosamente riunito questa coalizione, vinceremmo le prossime elezioni e questa non mi sembra la miglior premessa per fare un cambio di regole».
Chi vorrebbe una modifica in senso proporzionale della legge elettorale è semmai il Movimento 5 Stelle. I grillini sono «proporzionalisti» sfegatati da sempre, ma anche loro nutrono dubbi. «Il proporzionale a noi andrebbe benissimo, ma non debbono farla troppo sporca e un premio al 40% lo è. Sarebbe una truffa», precisa il senatore M5s Ettore Licheri.
La sinistra si sta aggrappando ai risultati delle regionali (tra l’altro ampiamente prevedibili e scontati) per sperare in una vittoria alle politiche 2027, mantenendo in vigore l’attuale legge elettorale. L’ex ministro Pd Andrea Orlando avverte: «Il centrodestra lo sappia: questo sistema di voto non si cambia». Un drastico cambio di rotta, visto che è dal 2018 che il Pd vuole modificare questa legge voluta da loro stessi nel 2017 (il «Rosatellum» prende il nome da Ettore Rosato, ex renziano di ferro, ora calendiano) e ritenuta «una delle peggiori leggi elettorali mai fatte».
Mettere sullo stesso piano il voto locale con quello nazionale, le cui dinamiche alle urne sono totalmente diverse, può essere rischioso. Le opposizioni sono convinte più che mai che per battere la Meloni serve la grande ammucchiata. Che poi è esattamente lo stesso schema disegnato dal consigliere di Sergio Mattarella, Francesco Garofani, per dare il famoso «scossone».
La riforma elettorale è il nuovo obiettivo dei partiti di maggioranza, parallelamente al premierato. L’accordo di massima c’è ed è su un proporzionale puro (tanti voti prendi, tanti parlamentari fai eleggere, in proporzione appunto) ma con un robusto premio di maggioranza, ovvero un bonus che consenta alla coalizione che arriva prima di assicurarsi una maggioranza sufficientemente ampia di deputati e senatori. «Il Tatarellum, il sistema elettorale regionale, simile a quello dei Comuni, è la soluzione che più si avvicina a quell’equilibrio», precisa Balboni. Lo schema non dispiace nemmeno a Forza Italia, come ribadisce il portavoce azzurro Raffaele Nevi. Obiettivo principale eliminare i collegi uninominali. Un campo largo compatto potrebbe mettere in difficoltà il centrodestra in diversi collegi uninominali, soprattutto nel Mezzogiorno, dove il M5s è più radicato. Se le opposizioni si ricompattassero, l’esito delle elezioni nazionali sarebbe probabilmente un sostanziale pareggio, con un conseguente rischio di ingovernabilità.
La Meloni vuole la riforma a tutti i costi. L’idea è quella di accelerare e presentare un testo già a inizio anno, una volta chiusa la legge di Bilancio e prima del referendum sulla separazione delle carriere. L’altra idea sarebbe quella di indicare sulla scheda elettorale il nome del candidato presidente del Consiglio della coalizione. Un paio di mesi fa Meloni, a Porta a Porta, aveva parlato di una legge «che vada bene anche per il premierato, non vale la pena fare una legge elettorale e poi farne un’altra dopo il referendum sul premierato». Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, le concede un assist: «Per portare a termine la riforma del premierato i tempi ci sono, il problema è la scelta politica. Ma non vedo oggi la possibilità di immaginare quale sarà la scelta politica. Secondo me l’errore è stato quello di partire con il premierato e non con il presidenzialismo».
Anche Forza Italia e leghisti non sono convinti e nel «campo largo» non scarseggiano gli scettici. La Meloni non avrà un alleato nemmeno sul Colle. Si prevedono mesi complicati.
Youtrend, società di rilevazioni delle tendenze politiche assai vicina alla sinistra, ha messo a confronto i due schieramentinelle Regioni andate al voto e il risultato è che Fdi, Lega e Forza Italia stanno al 46,8%, mentre l’opposizione sta al 49,7%. Dunque, i progressisti sono avanti e potrebbero vincere al prossimo giro? Non proprio, perché le sei Regioni in cui si sono svolte le elezioni non rappresentano tutta l’Italia, ma solo una parte di essa, quella più spostata a sinistra. Tuttavia, per capire come è andata domenica e lunedì scorsi basta guardare cosa presero le due coalizioni alle ultime politiche. Il centrodestra aveva il 42,7%, il centrosinistra il 51,4%. In pratica, se tre anni fa il centrosinistra era avanti di 8,7 punti nelle sei Regioni, oggi il vantaggio si è ridotto al 2,9%. Altro che vittoria. Macché fine della luna di miele tra centrodestra e italiani. Ma a prescindere da numeri, flussi elettorali e formule politiche, nel 2025 sono andati alle urne gli abitanti di sei Regioni. Tre di queste erano guidate dal Pd, mentre le altre tre erano governate da un leghista, da un esponente di Fratelli d’Italia e da uno di Forza Italia. Alla fine, tre sono rimaste a sinistra, tre sono restate a destra. A un certo punto, con Matteo Ricci, ex sindaco di Pesaro, Schlein aveva pensato di poter riconquistare le Marche, battendo il pupillo di Meloni. Ma nonostante i sondaggi tarocchi fatti circolare alla vigilia del voto nella speranza di influenzare il risultato, in Regione è stato confermato Francesco Acquaroli. In Veneto, prima c’era un leghista di lungo corso come Luca Zaia e ora c’è un giovane leghista come Alberto Stefani. E in Calabria Roberto Occhiuto di Forza Italia è succeduto a Roberto Occhiuto. Insomma, in conclusione pari e patta: tre a tre, come prima. E però un cambiamento si registra in una delle tre Regioni governate dalla sinistra: in Campania, dove prima governava Vincenzo De Luca, ovvero un governatore del Pd, adesso c’è Roberto Fico, ex presidente della Camera e grillino della prima ora. In altre parole, Giuseppe Conte ha guadagnato un presidente di Regione ed Elly Schlein lo ha perso. Volendo sintetizzare, la coalizione di centrosinistra è un po’ più di sinistra di prima e un po’ meno di centro, non proprio una buona notizia per quanti sognano di rifondare una democrazia cristiana in formato terza Repubblica. Il paradosso della vittoria di Fico però è che a portarlo al successo sono stati soprattutto i voti del Pd, non certo quelli del Movimento 5 stelle, che con le regionali ha ottenuto uno dei peggiori risultati di sempre, perdendo anche in Calabria, dove pure aveva schierato il papà del reddito di cittadinanza (Pasquale Tridico). Un’ultima osservazione su un fattore che evidenzia le contraddizioni a sinistra è il risultato di Puglia e Toscana, dove ha vinto l’ala socialista del partito democratico, cioè quella che si contrappone all’attuale segretaria. Dunque, per andare al sodo: dopo il voto gli equilibri nel centrodestra restano immutati, mentre nel centrosinistra in Campania si volta pagina con un grillino e nelle altre due Regioni vince la linea che contrasta con quella di Schlein. Detta in poche parole, la vittoria di cui si parla in questi giorni rischia di diventare un problema, perché tenere insieme gli opposti, senza che né Giuseppe Conte né l’ala riformista che ha trionfato a Firenze e Bari riconoscano la leadership di Schlein, alla lunga può trasformare il campo largo in un campo minato.
L’accordo tra Elly Schlein e Giorgia Meloni sul ddl consenso è chiuso, certo, ma non nei dettagli, come ovvio che accada tra presidente del Consiglio e leader di opposizione. Difficile immaginarle al tavolo insieme a scrivere la legge, ma è proprio nei dettagli che, come si dice, spesso si nasconde il diavolo. O meglio detto: nei particolari si celano le preoccupazioni. Qui si è creata l’impasse che ha portato alla richiesta di approfondimenti da parte della Lega e poi di tutto il centrodestra in commissione Giustizia al Senato. Tra le pieghe dell’emendamento ci sono passaggi poco chiari, che vanno definiti e chiariti bene per evitare di emanare una legge scritta male con tutti i rischi che ne derivano.
Nel dettaglio il terzo comma prevede che «nei casi di minore gravità la pena è diminuita in misura non minore eccedente i due terzi». Il passaggio, già previsto dall’attuale articolo 609 bis del codice penale (Violenza sessuale), è già considerato criptico: cosa si intende per minore gravità? Non solo. Il vicepremier e leader della Lega Matteo Salvini osserva: «Questa sorta di consenso preliminare, informato e attuale, così come è scritto, lascia lo spazio a vendette personali, da parte di donne e uomini, che senza nessun abuso userebbero una norma vaga per vendette personali che intaserebbero i tribunali». Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha commentato: «Devi valutare virgola per virgola, proprio per evitare un domani delle interpretazioni eccentriche. Questo secondo me è il problema e questo è quello che ha detto la presidente Bongiorno».
Giulia Bongiorno infatti, oltre a essere uno dei più importanti e preparati avvocati penalisti italiani, ricopre la carica di presidente della commissione Giustizia in Senato. Sua la decisione di audire nuovi esperti. «Questa è una norma importantissima, ma non è che il patto tra Schlein e Meloni era sul singolo comma di una norma o sulla questione che si sarebbe dovuta approvare il 25 novembre. Non è che se io considero importantissimo valorizzare il consenso vuol dire che la legge venga fatta senza un minimo di approfondimento in commissione. Questo disegno di legge è arrivato da noi ieri (martedì, ndr) mattina e alcuni dei senatori della mia commissione hanno detto che fosse il caso di approfondirlo. Visto che si tratta di una riforma importantissima, ho accordato questo tempo e ho già ricevuto centinaia di richieste di audizioni, perché ci sono tantissime persone che vogliono partecipare e dare la loro indicazione. Quindi, non c’è nulla di diverso se non un approfondimento, l’accordo tra Schlein e Meloni sarà assolutamente rispettato e la legge si farà, escludo categoricamente che ci sia una volontà di affossarla». Sui tempi poi ha aggiunto: «Ho già dato il termine per lunedì per indicare gli esperti da audire. Ho chiesto ai gruppi che vengano sentite persone esperte, tecnici. In secondo luogo è vietato superare il numero di due per gruppo».
In seguito sarà fissato un termine per presentare nuovi emendamenti. Sempre Bongiorno ha spiegato: «Ho chiesto se ci fosse unanimità nella rinuncia agli emendamenti, l’unanimità non c’è stata». Se dovessero passare delle modifiche la legge ritornerà alla Camera per una nuova approvazione. «In commissione la legge sarà pronta a gennaio. A febbraio potrebbe già esserci l’approvazione in Senato», ha precisato la Bongiorno. E anche il presidente del Senato Ignazio La Russa ha chiarito «Meloni d’accordo con Schlein. Non fa alcun passo indietro sul ddl consenso».
Eppure son dure le reazioni del centrosinistra che accusa la maggioranza di tradire i patti e di voler affossare la legge. La fretta delle opposizioni per alcune fonti parlamentari era strategica, voluta per far passare una norma non condivisa, dopo aver strumentalmente fatto passare la generica disponibilità di Meloni per un accordo su quel testo. Lo stesso ministro delle Pari opportunità e della Famiglia Eugenia Roccella ha sollevato dubbi circa la possibilità che si inneschi l’inversione dell’onere della prova a carico dell’accusato di stupro. Il presidente del Tribunale di Milano Fabio Roia la considera una «suggestione, un profondo sbaglio giuridico-processuale» perché «dovrà essere il pm, non la donna, che si limiterà a fare una denuncia, che viene fatta sempre sotto assunzione di responsabilità, a dimostrare che quel rapporto è avvenuto senza un libero consenso». Tuttavia Roia sullo stesso nodo esprimeva un parere opposto intervistato da Repubblica appena una settimana fa. Rispondendo alla domanda: «Adesso dovrà essere l’uomo a dimostrare che la donna era consenziente?», ha detto: «Se io fossi un pm, davanti ad una donna che mi dice di aver subìto violenza, la prova c’è già. Poi naturalmente andrà valutata nel dibattimento». A dimostrazione del fatto che le leggi, specie se mal scritte, si possono interpretare a piacimento.
Elly Schlein vince al Sud. Come era accaduto alle Europee di un anno e mezzo fa. E subito parte la nuova battaglia, messa da parte quella green e quella per la Palestina a bordo della Flotilla: no all’autonomia. Con lei subito scendono in campo Roberto Fico, neo presidente della Campania, e Michele Emiliano, governatore uscente della Puglia. Insomma, il campo largo trova un altro motivo per stare al mondo: boicottare la riforma Calderoli. Riforma che invece piace non solo in Veneto, visto l’exploit della Lega che ha doppiato Fratelli d’Italia, ma anche in Lombardia, Piemonte e Liguria che la scorsa settimana hanno siglato le pre-intese per avere la gestione in autonomia della protezione civile, delle professioni, della previdenza complementare e di alcune voci legate al fondo sanitario, cioè soldi che sono in cassa ma che per qualche motivo burocratico che non si capisce chi l’abbia scritto non si possono spendere.
L’accordo siglato dal ministro degli Affari regionali con Luca Zaia, Attilio Fontana, Alberto Cirio e Marco Bucci però sembra tutto tranne che un attentato all’unità dello Stato come vogliono farlo passare M5s e Pd. Eppure in queste ore la leader dem ha già dato la nuova linea: «Il riscatto parte dal Sud, il dato è proprio questo, e questo non ci stupisce perché questo governo è il più anti meridionalista della storia. E questo voto credo che abbia anche a che fare con il fatto che hanno spinto per l’autonomia differenziata e i cittadini della Puglia e della Campania hanno risposto in maniera molto netta a questa riforma sbagliata che aggraverebbe ancora diseguaglianze territoriali che il Sud ha già pagato di troppo», ha spiegato la Schlein lunedì sera da Bari al comitato elettorale di Antonio Decaro. Concetto sottolineato poco prima da Napoli, citando pure Pino Daniele: «Ci batteremo contro l’autonomia differenziata e forse questo mi ha fatto pensare alle parole di un grande poeta di questa terra, Tant l’aria s’adda cagnà».
«Il risultato di Campania e Puglia conferma che milioni di meridionali non vogliono l’autonomia differenziata», ha tuonato Fico. Se ai neo governatori di Napoli e Bari «aggiungiamo il presidente rieletto della Calabria, Roberto Occhiuto, che nel centrodestra è il più contrario all’autonomia differenziata, credo che il messaggio per il governo sia chiaro. I cittadini del Sud dimostrano di essere contrari a questo progetto», aggiunge Michele de Pascale, presidente dell’Emilia-Romagna in quota dem, quello che non vuole più i pazienti calabresi nei suoi ospedali. E ancora: «L’Italia e il Mezzogiorno per ripartire hanno bisogno di cancellare le proprie disuguaglianze, non di acuirle rendendo tutti più poveri. L’autonomia differenziata della destra va assolutamente fermata. Calderoli e la Lega la smettano di giocare, la stragrande maggioranza del Paese non vuole l’autonomia differenziata. Se ne facciano una ragione», fa sapere il capogruppo dell’Alleanza verdi e sinistra, Peppe De Cristofaro, presidente del gruppo misto di Palazzo Madama. Di nuovo la Schlein: «Il riscatto parte dal Sud», spiega in conferenza stampa al Nazareno dopo i risultati nelle elezioni regionali. «Le cittadine e i cittadini hanno visto all’opera un governo che non solo non ha fatto nulla per ridurre le diseguaglianze territoriali che il Sud ha già pagato fin troppo ma addirittura sta cercando di aggravare la situazione con l’autonomia differenziata contro cui continueremo a batterci perché stanno provando con l’inserimento dei Lep nella manovra ad aggirare la sentenza della Corte Costituzionale come hanno fatto per ragioni elettorali firmando le pre-intese con le Regioni proprio nei giorni prima del voto». Addirittura «la Regione Puglia vigilerà con attenzione affinché il governo non riproponga atti o comportamenti che possano violare i principi di uguaglianza dei cittadini e di unità della Repubblica. La Puglia ha fatto molto affinché l’autonomia differenziata prevista dall’articolo 116, comma 3, della Costituzione non fosse attuata nel modo prospettato dalla legge numero 86 del 2024», conclude Emiliano.
Non sappiamo se dal Sud partirà la riscossa del campo largo in vista delle Politiche del 2027. L’unica cosa che emerge tuttavia da questa nuova campagna propagandistica è che Pd, M5s e Avs stanno provando ad aizzare il Mezzogiorno contro il Nord, «colpevole» di voler attuare una norma costituzionale, tra l’altro voluta dal centrosinistra nel 2001, l’autonomia differenziata appunto, e approvata dagli italiani con un referendum confermativo. Per cui non sono Calderoli o Zaia e Fontana che puntano alla cosiddetta «secessione dei ricchi». Semmai è il centrosinistra che spinge il Sud a ribellarsi al Nord, senza ricordare che se la forbice tra le due parti dell’Italia si è allargata non è certo colpa dell’autonomia, che non c’è, semmai di governatori di area dem che non hanno usato bene i soldi pubblici in favore dei propri cittadini. Un solo esempio: Veneto e Campania, avendo più o meno gli stessi abitanti, ricevono somme simili per la sanità. Come mai i servizi offerti sono tuttavia diversi?






