Ernesto Maria Ruffini era un po’ sparito dai radar: l’ex direttore dell’Agenzia delle entrate, indicato qualche mese fa prima come possibile federatore del centrosinistra, poi come leader di un nuovo partito di centro alleato dello stesso centrosinistra, è stato superato nella gara a chi dovrà guidare questa Margherita 2.0 (per ora senza petali) sia da due sindaci, Silvia Salis di Genova e Gaetano Manfredi di Napoli, che dall’assessore capitolino Alessandro Onorato. Iniziative, interviste, eventi, quella Casa Riformista di Matteo Renzi che cerca di tenere dentro questi protagonisti: Ruffini era un po’ che non si faceva sentire. E così, ieri, ha scelto il quotidiano Avvenire per vergare un editoriale fluviale. A proposito di fisco, scrive Ruffini, «servirebbe una riforma organica, capace di restituire trasparenza e fiducia al patto fiscale. Il governo, invece, ha scelto la più classica delle scorciatoie, quella di provare ad abbassare le tasse, anche se solamente al ceto medio. Ridurre la seconda aliquota Irpef dal 35 al 33% per i redditi tra 28 e 50.000 euro. Una misura che riguarda circa 13,6 milioni di contribuenti, con un risparmio medio annuo di 200 euro. Il costo per lo Stato è di quasi 3 miliardi l’anno: non una tantum, ma un impegno permanente. Di fronte a una spesa simile, la domanda da farsi dovrebbe essere: è davvero questo il modo migliore di impiegare 3 miliardi ogni anno». Ridurre le tasse a quasi 14 milioni di contribuenti, per Ruffini, è sbagliato. Va bene, e quindi cosa avrebbe dovuto fare il governo nella legge di Bilancio, con questi 3 miliardi? «Si potrebbe decidere di cambiare il volto di un intero settore del Paese. Ad esempio», suggerisce Ruffini, «potremmo finalmente aumentare gli stipendi dei docenti italiani, per portarli in linea con quelli degli altri Paesi d’Europa per investire davvero sul nostro futuro, e investire in scuole sicure, moderne, inclusive. Oppure potremmo sostenere l’innovazione e la transizione industriale, che oggi ci vedono in grave in ritardo. Stellantis ha prodotto nei primi 9 mesi del 2025 oltre il 30% di auto in meno in Italia, mentre le auto elettriche cinesi dominano ormai il mercato globale». Al di là del fatto che gli stipendi dei docenti il governo Meloni li ha aumentati riducendo il cuneo fiscale, con tutto il rispetto per la innegabile competenza di Ruffini, con 3 miliardi di euro è veramente difficile immaginare di sostenere l’innovazione e la transizione industriale. Ruffini tende anche una mano alla Cgil di Maurizio Landini, tirando in ballo il fiscal drug: «A causa dell’inflazione», scrive ancora, «gli stipendi sono cresciuti solo sulla carta, ma hanno finito per essere tassati di più e così i lavoratori si ritrovano in tasca meno di prima». Ruffini, col suo movimento Più Uno, vuole essere della partita: è pronto a sfidare gli altri concorrenti al festival degli aspiranti leader del partitello di centro che dovrebbe consentire al campo largo di competere con il centrodestra. Ieri mattina poi, durante una iniziativa pubblica, Ruffini è stato più esplicito: «Stiamo cercando di costruire nel centrosinistra una comunità», sottolinea, «e il modo in cui lo si farà lo vedremo per strada altrimenti sarebbe la mia ricetta offerta agli altri. C’è l’ambizione di fare politica e contribuire», aggiunge Ruffini, «quello che succederà dopo lo decideranno i cittadini. Se il Pd si rifugia solo a sinistra lascia uno spazio abbandonato». Come si sceglie il leader del centrosinistra? «Credo che le primarie siano lo strumento migliore», sottolinea Ruffini, «ma primarie di contenuti altrimenti è solo talent show». Dunque almeno una cosa è cristallina: anche per Ruffini, Elly Schlein non è la candidata naturale a Palazzo Chigi delle opposizioni. Per scegliere l’avversario di Giorgia Meloni, occorrerà sfogliare i petali della margherita, sempre che fino al 2027 ne resti qualcuno.
Non è dato sapere se Michele Serra, quando ha invitato la sinistra a scendere in piazza «per l’Europa» stesse cercando di rinverdire gli antichi fasti di autore satirico. Resta che l’esito del suo appello è di una comicità finora inaudita, e l’intera operazione sembra appunto scaturita da una prima pagina di Cuore.
Tra coloro che hanno entusiasticamente aderito alla sfilata del prossimo 15 marzo c’è, per esempio, la scrittrice Dacia Maraini, la quale dichiara: «I valori democratici non sono europei o occidentali, sono grandi valori umani, dunque universali: la libertà di parola, di pensiero, di movimento; il diritto di vivere in pace; l’autonomia delle istituzioni. Oggi messi a rischio e per i quali dobbiamo combattere. Non in nome di una presunta superiorità dell’Occidente, che non esiste, ma a tutela di quei valori - ripeto: universali - che nei paesi non democratici non vengono praticati perché c’è la dittatura». Sostenere che la libertà di parola sia un valore per Bruxelles - dove per lo più folli euroburocrati sono impegnati a escogitare modi per zittire le voci dissenzienti e controllare i social network - è una battuta fenomenale. A cui la Maraini aggiunge una strepitosa chiosa: «La gente non ne può più di questi atteggiamenti anti-europei assunti da grandi potenze come Russia, Cina e ora pure l’America». Capito? La gggente sono stanchi. A ogni elezione, da un po’ di tempo a questa parte, i partiti europeisti pigliano sberle a ogni latitudine, ma Dacia ne è sicura: i cittadini stanno con l’Ue. Perché? Perché lo ha deciso lei. Lei che, per altro, ama così tanto la democrazia da difendere ancora oggi il comunismo, nonostante tutto. Vogliamo però fare uno sforzo e prendere sul serio la cara Maraini. Vogliamo credere che abbia ragione, e che le masse stiano davvero con l’Ue, oltre ogni ragionevole dubbio.
Del resto, per comprendere quanto sia ampio il sostegno popolare alla prossima manifestazione della sinistra, basta guardare i nomi dei politici che, finora, hanno guidato la mobilitazione chiamando gli italiani a schierarsi con l’Ucraina e con Bruxelles: in prima fila ci sono Carlo Calenda, Gianfranco Fini e Ernesto Maria Ruffini. Dei trascinatori di folle di maggior successo in giro non se ne trovano. Calenda esiste ancora politicamente grazie ai renziani che lo spernacchiano un giorno sì e l’altro pure (ieri le 30 piazze di Azione non erano propriamente gremite). Ruffini potrebbe scendere in corteo sventolando qualche cartella esattoriale, tanto per dimostrare quanto sia clamorosa la sua popolarità fra gli italiani. E Gianfranco Fini, beh, è Gianfranco Fini.
In pratica abbiamo un politico senza voti, un aspirante politico senza consensi e pure senza partito, un ex politico che gli elettori hanno sbattuto fuori dal Parlamento e i giudici hanno condannato a due anni e otto mesi per la patetica vicenda della casa di Montecarlo: ecco chi sono i favolosi difensori della democrazia. Potremmo anche chiuderla qui, perché i curricula sono sufficienti. Ma c’è altro su cui divertirsi, dato che i condottieri in questione parlano anche, e proferiscono parole capaci di scaldare il cuore. Ernesto Maria Ruffini - uno con più nomi che voti - vuole collocarsi dalla parte giusta della storia spiegando che bisogna difendere Kiev in quanto baluardo delle libertà europee. E per chiarire quali siano queste libertà scrive (su Repubblica): «Ricordiamoci che tutti noi facciamo qualcosa di europeo quando curiamo una persona in un ospedale senza chiedere un documento, ma solo che cosa si sente». Forse è sfuggito, al dolce Ernesto Maria, che fino all’altro giorno - e talvolta ancora oggi - i documenti in ospedale vengano chiesti eccome: la storia recente è piena di poveretti a cui è stato chiesto il certificato vaccinale prima di accedere alle cure. Sono queste le meravigliose libertà europee che i bravi progressisti intendono celebrare.
Quanto a Fini, appare molto impegnato a dare lezioni. Punta il dito contro Matteo Salvini e Giuseppe Conte, li definisce «amici di Putin». Sostiene che i «veri patrioti» debbano stare con l’Ucraina e non tollerare le esondazioni imperialiste di Donald Trump. Già il fatto che l’ex capo di Futuro e libertà pensi di poter fare la morale a qualcuno, visti i precedenti, è piuttosto ridicolo. Ma sentirlo parlare di autonomia da Washington dopo averlo visto appoggiare praticamente ogni guerra degli Usa è oltre ogni soglia del grottesco.
In ogni caso, questi sono i giannizzeri di Bruxelles, gli europeisti di provata fede pronti a offrire il petto nel momento del bisogno. A pensarci bene, sono un filo pagliacceschi ma perfetti per incarnare i valori comunitari: capipopolo senza popolo per una burocrazia senza democrazia. Il giorno in cui decideranno di correre sul fronte ucraino assieme ai loro fedelissimi, allora sì che Mosca inizierà a tremare.
Non è un caso che la nuova combriccola centrista guidata dall’ex premier Romano Prodi e dall’ex esattore delle tasse Ernesto Maria Ruffini abbia scelto il 18 gennaio per lanciare la nuova corrente dem Comunità democratica. L’idea è di far nascere un nuovo grande centro che possa intercettare il voto cattolico, quello dei delusi della politica e di chi fatica a identificarsi con l’attuale centrodestra a trazione Fratelli d’Italia. Cento anni fa, nel 1925, a Caltagirone in Sicilia, un sacerdote di nome don Luigi Sturzo fondava il Partito popolare Italiano che sarà poi la base dopo la guerra, della Democrazia cristiana. Ma né Prodi né Ruffini ricordano lo storico prete siciliano. E si vede dagli interventi (dove a spiccare è la retorica spiccia) come soprattutto dalla differenza di vedute che animano questo «centrino» che vorrebbe tra due anni sfidare la leader di Fdi, Giorgia Meloni, alle elezioni. Sullo sfondo si intravede la sagoma del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che nel 2022 ha scritto la prefazione al saggio di Ruffini Uguali per Costituzione, anche se dal Quirinale si cerca di mantenere sempre una certa distanza da questi eventi politici. Per di più in una fase ancora così iniziale, dove i contorni dell’operazione politica ruffinian-prodiana sono ancora davvero molto confusi.
«Dobbiamo prepararci per un confronto elettorale che fra due anni dovrà dar vita a un governo di cambiamento, di progresso e di solidarietà e dovrà avere una durata per l’intera prossima legislatura», esordisce Prodi in collegamento video con l’iniziativa di Milano, dove circa 700 persone provano a capire cosa sarà questa Comunità democratica lanciata da Graziano Delrio, insieme con lo stesso Prodi e Pierluigi Castagnetti. L’ex presidente del Consiglio, 86 anni il prossimo 9 di agosto, dice di non avere in mente un partito dei cattolici. Ma quello che si intravede dietro questa fumosa Comunità democratica, in realtà, è un vero e proprio nuovo partito delle tasse.
Poi ognuno la racconta come vuole. L’ex ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, sostiene che «Comunità democratica non» sia una corrente organizzata «e non lo sarà: è uno strumento per realizzare incontri e confronti». La confusione resta grande sotto il cielo. Soprattutto su chi debba guidare questa «cosa politica» dai tratti indefiniti.
Guarda caso tutti gli occhi erano su Ruffini. Peccato che l’ex numero uno dell’Agenzia delle entrate scaldi poco il popolo dei democratici. A confermarlo, ieri in serata, è stato anche Walter Verini, ex capo segreteria di Walter Veltroni, che a Orvieto interpellato sui prossimi leader del nuovo grande centro ha tagliato corto. «I nomi vengono necessariamente dopo. Benvenuto Ruffini, benvenuto chiunque partecipi e dia il proprio contributo». Ma anche Maria Elena Boschi di Italia viva non sembra una sostenitrice dello sceriffo di Nottingham all’italiana. «Se partiamo dal nome di chi deve portare avanti un qualcosa che non è definito e condiviso non facciamo un buon lavoro», dice la deputata renziana. L’ex esattore delle tasse ha fatto un lungo intervento facendo intendere che per trovare nuovi voti bisogna iniziare a guardare anche a destra, cioè a Forza Italia. Ruffini non cita in modo esplicito il partito fondato da Silvio Berlusconi, ma ricorda la maggioranza Ursula. «Sabato scorso abbiamo ricordato l’amico David Sassoli», dice. «Quanto mancano le sue intuizioni e il suo ripetere che la dignità della persona è il modo di misurare le nostre politiche». Perché Sassoli «è stato fondamentale», sostiene Ruffini, «nella costruzione della maggioranza Ursula che governa l’Ue da due legislature. Forse se ci fosse ancora lui ci farebbe riflettere di come quella maggioranza potrebbe diventare una scelta solida per essere alternativi alla destra. Alla destra dobbiamo essere alternativi con una scelta politica chiara e condivisa, senza essere nemici della destra».
Ruffini è una figura chiave per riallacciare i rapporti con i cattolici e anche con i forzisti. Oltre a essere il figlio dell’ex ministro Attilio Ruffini, nonché nipote del cardinale Ruffini, con un fratello (Paolo) che è prefetto del dicastero della comunicazione della Santa Sede, è anche nipote di Enrico La Loggia, storico ex ministro per gli Affari regionali di Forza Italia.
Non è un caso che a destra ci sia già qualcuno che ha raccolto le sue frasi di apertura. È Gianfranco Rotondi, presidente della Dc, già ministro del governo Berlusconi. «Da Ruffini sono venute oggi parole misurate e rispettose degli avversari, secondo lo stile di un civile servitore che ha avuto anche la stima della destra», dice Rotondi. «La sua sfida va raccolta anche nel centrodestra: serve una nuova forza di ispirazione cristiana che razionalizzi una presenza dei cattolici fin qui disordinata, scomposta e politicamente irrilevante». Chi di sicuro la pensa in maniera opposta è Giorgio Merlo, ex Pd, oggi presidente di Scelta popolare che avverte Ruffini e Prodi. «C’è da augurarsi che la corrente del Pd che si è ritrovata a Milano non pensi di rappresentare tutti i cattolici impegnati in politica», dice Merlo, che poi aggiunge, «il mondo cattolico non finisce e non si esaurisce con la corrente prodiana all’interno del Pd. Con o senza Ruffini. Forse sarebbe il caso di riconoscerlo. Per evitare di trasmettere un messaggio ridicolo e anche un po’ grottesco».
Prodi fa il prezzemolino in tv e pur di azzannare la Meloni si copre di ridicolo sulla Sala
Certo, la colpa sarà anche di una certa lievità di Elly Schlein e della boria di Giuseppe Conte, che a due anni e mezzo dalla sconfitta elettorale non sembrano avere una bussola. Ma il risultato per adesso è ai limiti dell’incredibile. Il capo ombra dell’opposizione a Giorgia Meloni è Sergio Mattarella, 83 anni, e lo stratega-federatore in chiaro è Romano Prodi, 84 primavere. Entrambi democristiani di sinistra, entrambi «cattolici adulti» (per dirla con Prodi stesso), entrambi vedovi, entrambi in forma smagliante. Capaci di restare sommersi per mesi, in mezzo secolo di carriera hanno seppellito decine di avversari e amici. Ma Prodi ama anche i battesimi, e quello che ha in mente riguarda l’ex capo dell’Agenzia delle entrate, Ernesto Maria Ruffini, graditissimo anche a Mattarella.
Sul finire di questa settimana, Prodi ha dimostrato un’energia impareggiabile. Giovedì sera è andata a La7 da Corrado Formigli, dove, in giacca di tweed e cravatta rossa, ha pontificato sulla tregua tra Hamas e Israele, ha criticato il premier sul rilascio di Cecilia Sala, ha messo in guardia dal ruolo di Elon Musk nel mondo e ha criticato Donald Trump. Poi è andato a dormire qualche ora, si spera a casa, e al mattino dopo era sempre a La7 a Omnibus, per farsi intervistare da Alessandra Sardoni, questa volta con la cravatta verde.
Per il fondatore dell’Ulivo, Meloni «ora è obbediente a Trump e pure a Musk» e poco importa il successo unanimemente riconosciuto della liberazione della Sala. «Quando io ho liberato Mastrogiacomo, mica ho avuto il soccorso degli Stati Uniti. Tutto il Paese ha agito. Meloni si è fatta un obiettivo personale. Il ministro degli Esteri allora è stato molto attivo, adesso non lo so. È stata una gran bella cosa, ma per favore mettiamola in un contesto». Nessuno ha ricordato a Prodi che sulla liberazione di Mastrogiacomo, rapito in Afghanistan nel 2007, c’è stato, per dirla alla democristiana, «un ampio dibattito» sul probabile pagamento di un riscatto. Quanto alla presunta sudditanza della Meloni nei confronti di Washington, come dimenticare che Prodi da decenni flirta con il regime comunista di Pechino, che non è proprio la stessa cosa degli Usa?
Peraltro, se si vuole un’istantanea di quello che si sta muovendo nel centrosinistra prossimo venturo, non serve andare troppo indietro e c’entra proprio la Cina. Lo scorso 9 novembre, in occasione della visita ufficiale di Mattarella, è stata inaugurata la Cattedra Agnelli di cultura italiana a Pechino, alla presenza di John Elkann. E il primo titolare della cattedra sarà proprio Prodi. Ricapitoliamo: il capo dello Stato, il nuovo federatore del centrosinistra e l’editore di Stampa e Repubblica, oltre che presidente di Stellantis. Una riunione nella patria del partito-Stato che vale dieci congressi del Pd.
E a proposito di dibattiti e nuovi fermenti, oggi a Orvieto si tiene l’assemblea di «Libertà eguale», che celebra i suoi 25 anni. Con la regìa di Stefano Ceccanti, ci saranno interventi di Claudia Mancina, Enrico Morando, Lorenzo Guerini, Pierluigi Castagnetti e Paolo Gentiloni, che è sempre uno dei possibili candidati a sfidare la Meloni alle politiche del 2027. Come sottolinea, Ceccanti, a Orvieto ci sono sia cattolici sia laici perché negli schieramenti di oggi «dire cattolici, anche in opposizione al governo, non vuol dire nulla». Ma è evidente che non la pensano così gli «amici» centristi che invece, sempre oggi, si riuniscono a Milano per la riunione pubblica di «Comunità democratica» e sono proprio i cattolici dem, sempre più a disagio nel partito arcobaleno della Schlein. Oltre all’onnipresente Prodi, in videoconferenza da Bologna, ci saranno Graziano Delrio e Pieluigi Castagnetti. Ma soprattutto ci sarà Ruffini, sul quale i tre re magi democristiani, al pari di Mattarella, nutrono grandi speranze. Appuntamenti in conflitto tra loro, magari per la gioia di chi, come Matteo Renzi, si agita moltissimo per occupare da solo tutto il centro con il suo 2%? Ovviamente no, figurarsi. Appena hanno fiutato il pericolo di farsi dividere, gli organizzatori dei due convegni, diciamo i cattolici adulti e i cattolici in privato, hanno organizzato una serie di collegamenti video tra Orvieto e Milano. È andata bene che per una volta non si riuniscano in convento, dove l’interconnessione sarebbe più difficile.
L’iperattivismo di Prodi, il nuovo «Cinese» dopo Sergio Cofferati, rischia ovviamente di mettere in difficoltà la Schlein, che pure aveva goduto della sua benedizione. Il progetto del Professore è di lasciare che il Pd fagociti M5s di qui alle elezioni, impresa decisamente alla portata del segretario attuale anche in considerazione del suicidio politico di Beppe Grillo e Giuseppe Conte, e di allargare l’alleanza al centro sostituendo i cattolici a Renzi. Senza l’ex sindaco di Firenze e senza grillini, sarà più semplice imbarcare anche verdi e sinistra, come il Professore fece ai tempi di Rifondazione. Se andrà tutto liscio, alle prossime elezioni ci sarà quindi un Ulivo reloaded e bisognerà solo spiegare in buon modo alla Schlein che serve un candidato premier più «strutturato». Casualmente, i due arzilli ottantenni che guidano l’opposizione, l’uomo giusto ce l’hanno già ed è Ruffini. E saremo nel 2027. Poi certo, Prodi magari sogna ancora il Quirinale, ma lì c’è da aspettare il 2029. Una staffetta tra novantenni avrebbe davvero bisogno della benedizione di un cattolico con la “c” maiuscola: Dio.
Non gli si può certo rimproverare di essersi mosso in ritardo. Maurizio Landini, il segretario della Cgil che è allergico alla firma di qualsiasi accordo o contratto e che ha fatto del movimentismo a prescindere la cifra del suo impegno politico prima che sindacale, sta tessendo la tela da tempo. Ci sono stati i convegni e la marcia per la pace che l’hanno avvicinato alla comunità di Sant’Egidio e al suo fondatore, l’ex ministro montiano per la cooperazione, Andrea Riccardi. Quindi si è creata una consonanza di intenti (il collante è la parola «pacifismo) con il presidente della Cei, il cardinal Matteo Maria Zuppi, culminata (siamo alla fine del 2022) con l’approdo di 5.000 attivisti del sindacato in Vaticano: la prima visita della Cgil (che tanti malumori ha provocato all’interno della confederazione) dal Pontefice. E mai si è interrotto il legame con le Acli, le associazioni cristiane dei lavoratori italiani, alle quali il segretario della Cgil ha fatto visita all’indomani dello sciopero flop del 29 novembre che, però, il nostro ha spacciato come un grande successo. L’ambizione di Landini è diventare il perno che lega questa base cattolica e il suo movimentismo. Quello di una fetta della Cgil, certo, ma anche dei Cobas. Quello dell’Anpi, ma anche dei collettivi studenteschi, dai quali comunque, in più di un’occasione, è stato «respinto» con perdita.
Ma ci sta, fa parte del gioco, o se preferiamo del progetto-guazzabuglio, che nelle ambizioni dell’ex Fiom avrebbe dovuto portare a una sorta di nuovo «partito» cristiano sindacale. Landini, però, oltre a non aver fatto i conti con i voti, se prendiamo singolarmente le varie sigle di questa potenziale alleanza non ce n’è nessuna che sposti preferenze, non pensava che in campo potessero scendere i pesi massimi. Non si aspettava che la sua stessa idea potesse arrivare dal centro e da soggetti politici che per quanto attempati e azzoppati da mille battaglie combattute e spesso perse hanno un altro spessore da federatori. Vuoi mettere, insomma, che sia Romano Prodi a porsi come link tra i cattolici democratici del centrosinistra, gli ex Ppi e le forze di più marcatamente rosse, piuttosto che Maurizio Landini, il sindacalista che non è riuscito a tenere insieme neanche Cgil, Cisl e Uil? Se da una parte c’è l’inventore dell’Ulivo e dall’altra il denigratore di Marchionne, la partita non inizia nemmeno.
Ecco perché Comunità Democratica, il convegno messo in piedi da Graziano Delrio (18 gennaio a Milano) al quale parteciperanno Romano Prodi e Pierluigi Castagnetti, oltre all’ormai ex direttore dell’Agenzia delle Entrate, Ernesto Maria Ruffini che essere il frontman dell’operazione Balena bianca, rischia di diventare il de profundis del sogno politico di Landini.
Al di là degli interventi dell’ex premier (da remoto), Ruffini e Castagnetti - spiegava un’agenzia Ansa di qualche giorno fa - Comunità democratica ha creato una rete di studiosi e docenti che faranno da think tank per avanzare proposte concrete sui temi dell’agenda politica. Nomi? Ci sono professori come Leonardo Becchetti, Elena Granata e Mauro Magatti, ma è previsto anche un panel con i rappresentanti delle diverse associazioni del laicato cattolico, dalle Acli fino ad arrivare appunto alla comunità di Sant’Egidio. «Non vogliamo spazi di potere», evidenziava con il solito basso profilo di facciata, l’ex ministro Graziano Delrio, «ma dare un contributo di proposte e idee sui grandi temi del nostro Paese. Dopo le elezioni europee non sono in vista altri appuntamenti elettorali nazionali, noi siamo intenzionati quindi a farci sentire su questi temi, ma anche su temi etici».
Insomma, al di là delle scarse possibilità di successo di un progetto che sembra nascere più sulle ali della disperazione per la crisi della sinistra e i successi della Meloni, di sicuro Prodi, Ruffini & C. hanno drenato l’acqua che Landini aveva faticosamente portato la suo mulino. Mesi di convegni, manifestazioni, cortei e scioperi a prescindere per niente. Anche perché se al centro il muro si chiama Prodi, a sinistra le barricate le ha ben posizionate la Schlein.
Tutto si potrà dire al segretario del Pd, tranne che non abbia spostato il suo partito sempre più a sinistra. Eccezion fatta per l’allergia a parlar male di Stellantis e degli Elkann (caratteristica che la accomuna peraltro al leader della Cgil) sui temi etici, economici e politici (dall’immigrazione fino all’autonomia e al salario minimo) i dem non hanno praticamente più nulla di riformista.
E così per il sindacalista che ama presenziare nel talk show anche quello spazio di azione è sfumato. Respinto al centro e stoppato a sinistra, Landini rischia di doversi accontentare del minimo sindacale: uno scranno in Parlamento che come insegna la storia, la sinistra non ha mai negato ai segretari della Cgil.







