- In Argentina, i Mapuche da anni rivendicano l'area comprata da una società controllata dalla famiglia italiana, famosa per le campagne a favore del multiculturalismo. A Natale alcuni militanti hanno occupato un'azienda agricola: denunciati.
- Report del Mit: 105 sono gestite da Aspi, 90 da altri. C'è il rischio di incidenti e crolli; spesso mancano illuminazione e vie di fuga.
Lo speciale contiene due articoli.
L'ultima volta che Luciano Benetton si è esposto pubblicamente su temi cosiddetti «sociali» è stato lo scorso 13 ottobre. Chiariamo subito: non ha parlato di autostrade né di ponti o di gallerie. Per sentirlo affrontare quegli argomenti abbiamo dovuto aspettare la fine di novembre, quando il patron ha scritto una lettera a Repubblica lamentandosi per «la campagna di odio scatenata contro la nostra famiglia».
No, il 13 ottobre Benetton si è espresso su un tema che gli sta molto più a cuore della viabilità, e cioè l'immigrazione. Assieme all'Aga Khan, il celebre Luciano ha presentato a Londra una mostra intitolata Don't ask me where I'm from (non chiedermi da dove vengo). I due illuminati investitori, ci ha spiegato sempre Repubblica, hanno dato «a 15 artisti, immigrati di seconda o terza generazione e provenienti dai luoghi più diversi del globo, la possibilità di riflettere su radici e futuro, su culture e differenze».
In effetti, iniziative come quella londinese rientrano perfettamente nella filosofia di United colors of Benetton: multiculturalismo, integrazione, elogio delle differenze... Argomenti su cui, specie negli ultimi tempi, l'azienda di Ponzano Veneto ha insistito parecchio, complice il ritorno di Oliviero Toscani alla guida dell'apparato pubblicitario. L'arzillo fotografo ha scodellato una bella serie di campagne tutte basate sull'elogio dell'immigrazione di massa, giusto per godersi lo sdegno dei sovranisti. Insomma, i nostri amici - ormai da tempo - non perdono occasione per ribadire l'adesione ai valori liberal. C'è però un angolo del mondo in cui l'atteggiamento progressista e umanitario di casa Benetton non è molto apprezzato, e non stiamo certo parlando dei Comuni italiani in mano alla Lega.
Il luogo in questione è la Patagonia, e a non gradire i Benetton sono gli indigeni Mapuche, la popolazione autoctona. La notte tra il 25 e il 26 dicembre, un gruppo di militanti nativi della comunità Lof Kurache ha deciso di occupare una «estancia» che si trova nel Comune di El Maitén, provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. È un terreno appartenente ai Benetton. «Abbiamo recuperato ciò che ci è stato rubato», dicono i militanti. E spiegano di avere iniziato un «processo di recupero territoriale delle terre di El Platero occupate dalla multinazionale Tuierras del Sur di proprietà di Benetton».
Come spiega un comunicato ufficiale della famiglia, «nel 1991 Edizione holding (la finanziaria controllata dai Benetton, ndr) acquisisce in maniera del tutto legale e legittima la società Compañía de Tierras Sud Argentino da tre famiglie argentine che la possedevano da lungo tempo. [...]. Attualmente l'azienda offre lavoro a centinaia di persone, prevalentemente di origine Mapuche in una moderna struttura agricola dedicata soprattutto all'allevamento ovino. Fin dalla sua creazione», conclude il comunicato dei Benetton, «Compañía de Tierras Sud Argentino reinveste in Argentina risorse e capitali, scommettendo sullo sviluppo e sulla crescita del Paese». Gli indios, però, la pensano diversamente. Sostengono che l'azienda sfrutti la loro terra madre, e non solo per l'allevamento, ma pure per attività estrattive che consentirebbero alla multinazionale di arricchirsi alle spalle dei nativi. Come ha spiegato in un'intervista visibile sul sito di Micromega la giornalista Monica Zornetta, i Mapuche ritengono che «la donazione iniziale fatta dallo Stato argentino a quella che sarebbe poi diventata Compañía de Tierras Sud Argentino, poi passata in mano ai Benetton, sia avvenuta in violazione alla legge». La compagnia possiede qualcosa come 900.000 ettari di territorio della Patagonia. Un impero (pagato, pare, 50 milioni di dollari nel 1991) che ospita la gran parte dei Mapuche, i quali dall'inizio degli anni Duemila sono in lotta per rivendicare la sovranità su quelle terre. Un «diritto ancestrale», lo definiscono. Curioso davvero: in Italia i Benetton sono una specie di emblema dell'imprenditoria liberal e impegnata. In Patagonia, invece, sono i padroni da combattere, e hanno contro una larghissima fetta della sinistra più o meno estrema. Che, in aggiunta, accusa le autorità argentine di «complicità» con i ricchi capitalisti italici.
Il conflitto negli ultimi anni si è inasprito. In particolare da quando, nel gennaio 2017, una occupazione finì con scontri pesanti. In quell'occasione intervenne pure Amnesty international, spiegando che le forze di sicurezza argentine avevano «attaccato violentemente la comunità Mapuche di Cushamen ». Ad Amnesty i Mapuche raccontarono di «essere stati picchiati, anche con manganelli. [...] I membri della comunità hanno riferito che gli agenti hanno sparato, ferendo alcune persone».
Sempre nel 2017, durante l'ennesimo conflitto nella provincia di Chubut tra Mapuche e polizia, sparì un attivista argentino, Santiago Maldonado, di 28 anni. Fu ripescato da un fiume, morto, circa un anno dopo. Le indagini sul suo caso sono state riaperte a settembre, e sono ancora in corso. Compañía de Tierras, ovviamente, tiene a precisare di non avere «avuto alcun legame diretto o indiretto con l'accaduto: la procedura di ordine pubblico viene condotta dalla gendarmeria nazionale, senza partecipazione, sostegno o coinvolgimento di alcun tipo da parte della società».
L'occupazione dello scorso Natale, per fortuna, non ha ancora causato scontri, solo una denuncia da parte dell'azienda alle autorità argentine. Gli indigeni, dal canto loro, chiedono l'appoggio dei militanti di tutte le nazioni per continuare la lotta. Chissà, magari il compagno Toscani li contatterà per la prossima campagna multiculturalista.
Autostrade a pezzi: «Duecento gallerie violano le norme di sicurezza dell’Ue»
La galleria Bertè, sull'autostrada A26 Genova-Gravellona Toce, non è la sola che rischia di crollare. Il tunnel, dal quale lo scorso 30 dicembre si sono staccate dalla volta quasi tre tonnellate di cemento, è solo uno dei tanti a non rispettare le norme di sicurezza europee. Senza che nessuno si sia ancora preoccupato d'intervenire per rimediare.
In totale sono quasi 200 le gallerie fuorilegge in Italia: 105 si trovano sulla rete gestita da Autostrade, mentre 90 sono sotto la responsabilità di altre società. Lo rivela un'indagine condotta dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e pubblicata da Repubblica: secondo questo documento, i trafori lunghi oltre 500 metri presentano pericoli di incidenti e crolli, non sono impermeabilizzati, sono privi di sistemi di sicurezza, di corsie di emergenza e vie di fuga. Mancano anche le luci guida in caso di evacuazione. E proprio per questo il nostro Paese rischia una procedura di infrazione da parte dell'Unione europea.
Non sono, infatti, più solo i viadotti a fare paura, anche le gallerie sono considerate dal report bombe a orologeria. Prova ne sono i cedimenti che si sono ripetuti su diversi tratti. Due giorni fa un grosso calcinaccio è caduto dalla volta del tunnel del Turchino, ancora sulla A26. Ieri notte un altro episodio simile all'interno della galleria Ricchini, sulla A6 nel tratto fra Savona e Altare, lo stesso dove il 24 novembre scorso una frana ha provocato il collasso del viadotto Madonna del Monte.
Insomma, anche i tunnel stanno cedendo al peso degli anni, dell'incuria e della mancata manutenzione. Così un nuovo ciclone giudiziario potrebbe abbattersi sulle società concessionarie e su Aspi, già sotto inchiesta per la tragedia del ponte Morandi e per lo scandalo dei report sulla sicurezza dei viadotti, che per gli inquirenti sarebbero stati falsificati. Il problema dei controlli «ammorbiditi», secondo la Procura di Genova, potrebbe riguardare infatti anche i trafori per i quali il sistema e gli attori coinvolti sono gli stessi. La scala di valutazione dei rischi andava da 10 (condizioni ottime) fino a 70 (valore che impone la chiusura del ponte o della galleria). La Bertè aveva ricevuto come voto 40, cioè un rischio di cedimento molto contenuto. Votazione che era stata assegnata dai tecnici di Spea, la controllata di Aspi che si occupava delle ispezioni. Gli investigatori stanno cercando di capire se la società fosse a conoscenza delle reali condizioni della volta, intanto è stato aperto un fascicolo a carico di ignoti per crollo colposo.
Da parte sua, Autostrade fa sapere che l'adeguamento degli impianti nelle gallerie citate dal rapporto è in corso nel 90% dei casi, mentre per il restante 10% sono partite le gare d'appalto per i lavori. Gli interventi previsti dalla normativa Ue, sottolinea ancora Aspi, non riguardano però la sicurezza strutturale delle gallerie.
Nel frattempo c'è un'altra spada di Damocle che continua a incombere sul futuro della rete autostradale italiana. Perché il nodo della revoca delle concessioni, annunciata all'indomani della tragedia di Genova, a quasi un anno e mezzo dal disastro non è ancora stato sciolto. Da una parte ci sono i 5 stelle, fermi sulla necessità di sospendere gli accordi con il gruppo della famiglia Benetton, dall'altro il resto della maggioranza, che propende per una linea più «morbida». Le ultime indiscrezioni dicono che il governo starebbe pensando a una maxi multa che eviti la revoca. Sul tavolo ci sarebbe, quindi, una compensazione in denaro fino a 4 miliardi, che si accompagnerebbe a una riduzione delle tariffe attuali fino al 5%, ad aumenti programmati per i prossimi anni non oltre il 2% e a una riduzione della remunerazione del capitale investito. Inoltre Autostrade sarebbe pronta a presentare un piano che prevede 13 miliardi di euro di investimenti nei prossimi 18 anni. Quelli, cioè, che mancano al termine della concessione.
Uno sforzo con il quale la società intende, evidentemente, marcare una presa di distanza rispetto al passato. Un passato nel quale gli investimenti sulla rete autostradale, ma anche su tutte le altre infrastrutture del Paese, sono stati pochissimi. Come sostiene una ricerca condotta dalla società di consulenza Deloitte in collaborazione con l'università Luiss. Emerge che il cosiddetto indice di dotazione infrastrutturale dell'Italia è fermo a 0,161, contro una media Ue di 0,022. Questo vuol dire che se il nostro Paese decidesse di costruire i servizi viari che mancano, e che lo tengono lontano dal livello dei partner europei, dovrebbe spendere una montagna di denaro. Lo studio disegna tre scenari in base ai quali si dovrebbero investire almeno 138 miliardi, nel migliore dei casi. Ma l'ipotesi è che si possa salire a 415 o, nello scenario più pessimista, addirittura 787 miliardi di euro solo nel settore dei trasporti, autostrade comprese. Per farsi un'idea del nostro ritardo basta un dato: tra il 2008 e il 2012 abbiamo speso in infrastrutture solo 58 miliardi di euro. E le scellerate conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
- Roberto Rosso, nella giunta piemontese di centrodestra, è uno dei leader regionali di Fdi. Avrebbe ottenuto preferenze versando alla 'ndrangheta 15.000 euro. Oltre a questo scambio, l'accusa riguarda reati fiscali per 16 milioni. Giorgia Meloni: «È fuori dal partito».
- Gli ex collaboratori di giustizia arrestati a Messina volevano riprendersi il territorio.
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Secondo l'accusa, avrebbe chiesto voti ai clan della 'ndrangheta per venire eletto in Regione Piemonte alle ultime consultazioni dello scorso maggio, vinte dal centrodestra. In cambio del pacchetto di preferenze doveva sborsare alle cosche 15.000 euro e avrebbe già versato una prima tranche da 7.900 euro. Un patto scellerato che lega, ancora una volta, politica e criminalità organizzata.
Si è interrotta così, all'alba di ieri, la lunga carriera politica dell'assessore regionale Roberto Rosso, uno dei leader piemontesi di Fratelli d'Italia, che è arrestato dalla Guardia di finanza.
Rosso, che si è dimesso dall'incarico, è finito in manette insieme ad altre sette persone nell'ambito di un'inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia torinese. Tra i reati che vengono contestati a vario titolo dalla Procura, oltre all'associazione per delinquere di stampo mafioso e reati fiscali per 16 milioni di euro, c'è anche lo scambio elettorale politico-mafioso. L'esponente del partito di Giorgia Meloni si sarebbe infatti rivolto ad affiliati alle cosche calabresi per conquistarsi una poltrona in Regione. Operazione andata a buon fine poiché è stato eletto consigliere regionale, ottenendo 4.806 preferenze. Dopodiché è stato nominato dal governatore Alberto Cirio assessore con delega ai rapporti con il Consiglio, delegificazione dei percorsi amministrativi, affari legali e contenzioso, emigrazione e diritti civili.
Vercellese, 59 anni, è un avvocato civilista ed un politico di lungo corso e navigata esperienza. Muove i primi passi nella Dc, ed è tra i pionieri che seguono Silvio Berlusconi nel 1994 quando nasce Forza Italia. Ha spesso cambiato casacca e sempre nelle file del centrodestra, almeno otto volte negli ultimi dieci anni per finire a Fratelli d'Italia. Tanto che nell'ambiente politico lo hanno ribattezzato Araba fenice, l'uomo che in qualche modo riesce sempre a rinascere dalle ceneri. Nel 2001 si candida anche a sindaco di Torino costringendo Sergio Chiamparino a un inatteso ballottaggio.
È stato cinque volte deputato e membro in più commissioni parlamentari: Bilancio, Attività produttive, Lavoro e Agricoltura. Nella legislatura 2008-2013 ha anche ricoperto il ruolo sottosegretario alle Politiche agricole e forestali. Attualmente è anche capogruppo di Fratelli d'Italia al Comune di Torino e fino a giugno era vice sindaco di Trino Vercellese. Originario di Trino, si divide tra il Vercellese e il Torinese, dove vive con la moglie a Moncalieri e dove ieri mattina è stato prelevato dalle forze dell'ordine. Poche ore dopo il provvedimento cautelare Rosso ha rassegnato le dimissioni e il presidente Cirio assumerà le sue deleghe. Come spiega il coordinatore di Forza Italia, Paolo Zangrillo: «Noi siamo garantisti e speriamo che Rosso possa dimostrare la sua totale estraneità ai fatti di cui è accusato. Ho parlato con Cirio, sarà lui ad assumere le deleghe dell'assessore».
Molto meno cauta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, che dichiara che «fin quando questa vicenda non sarà chiarita, è da considerarsi ufficialmente fuori da Fdi». E sottolinea inoltre che «Roberto Rosso ha aderito a Fratelli d'Italia da poco più di un anno. Apprendiamo che è stato arrestato con l'accusa più infamante di tutte: voto di scambio politico-mafioso. Mi viene il voltastomaco. Mi auguro dal profondo del cuore che dimostri la sua innocenza, ma annuncio fin da ora che Fratelli d'Italia si costituirà parte civile nell'eventuale processo a suo carico».
Secondo i magistrati, avrebbe ottenuto i voti per le regionali del 26 maggio 2019, avvalendosi della mediazione di Enza Colavito e di Carlo De Bellis. Inoltre Rosso avrebbe avuto piena consapevolezza dell'infiltrazione mafiosa dei suoi due interlocutori, come sostiene il procuratore generale Francesco Saluzzo: «Per accaparrarsi i voti è sceso a patti con i mafiosi. Hanno stretto un accordo. E l'accordo ha avuto successo». E dalle indagini, sottolinea la Guardia di finanza, è emersa infatti «la piena consapevolezza del politico e dei suoi intermediari circa la intraneità mafiosa dei loro interlocutori».
In manette anche l'imprenditore Mario Burlò, 46 anni, di Moncalieri, presidente di Oj Solution, un consorzio di imprese che opera nel settore del facility management. È anche vicepresidente nazionale di Pmi Italia, associazione che riunisce 200.000 imprenditori in tutta Italia. L'investigazione ha fatto emergere anche figure di «spessore criminale» come Onofrio Garcea e Francesco Viterbo. I due avrebbero organizzato un sodalizio, intessendo rapporti con Burlò, «con interessi sul territorio nazionale e sponsor in diverse società sportive». Quest'ultimo, con il costante aiuto della cosca, avrebbe attuato e strutturato un sistema di evasione fiscale attraverso la creazione di società. La prima operazione del cosiddetto pactum sceleris ha avuto per oggetto la villa appartenuta al giocatore Arturo Vidal (estraneo all'inchiesta) acquistata di recente da Burlò e ora posta sotto sequestro.
Il clan dei pentiti tornati agli affari con racket, armi e spaccio di coca
Prima si erano pentiti e poi, pentiti del loro pentimento, avevano deciso di tornare a fare i mafiosi e riprendersi Messina. Con i soliti metodi violenti, facendo estorsioni e organizzando traffici di droga. Così cinque ex collaboratori di giustizia avevano ricostituito un agguerrito clan, appena dopo essere usciti dal programma di protezione e dopo aver incassato la somma prevista per legge a chi collabora con lo Stato. I cinque erano tornati in Sicilia, con intenzioni tutt'altro che pacifiche.
Le indagini della Squadra mobile, coordinate dal procuratore capo Maurizio De Lucia, hanno però bloccato la pericolosa riorganizzazione. Sono 14 le persone arrestate in un blitz scattato all'alba di ieri, tra queste cinque sono appunto ex collaboratori che già negli anni Ottanta e Novanta avevano segnato la storia criminale della città sullo Stretto. Si tratta di Nicola Galletta, Gaetano Barbera, Salvatore Bonaffini, Pasquale Pietropaolo e Antonino Stracuzzi, quest'ultimo risponde però non di associazione mafiosa ma solo di detenzione di armi.
Gli ex pentiti avevano dato vita a una cellula di Cosa nostra con l'obiettivo di riconquistare il territorio e tornare al potere. Intercettazioni, pedinamenti e analisi dei traffici telefonici hanno accertato l'esistenza di due organizzazioni criminali: una di tipo mafioso, l'altra con il principale scopo di smerciare droga. Per decidere gli affari, gli associati della rinata cosca si incontravano in un ristorante del centro, gestito da uno degli ex pentiti.
Il gruppo poteva inoltre contare sulla disponibilità di molte armi. Una delle estorsioni scoperte riguarda il titolare di un'associazione sportiva e culturale messinese, costretto a versare parte della propria liquidazione e minacciato perché lasciasse la carica. Ma il core business dell'organizzazione criminale era rappresentato dal traffico di cocaina. Il personaggio chiave e capo, secondo gli investigatori, era l'ex pentito Nicola Galletta, killer del clan di Giostra, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Letterio Rizzo, boss ucciso nel 1991. Galletta ha scontato anche una condanna a 18 anni per mafia.
Secondo il procuratore De Lucia è centrale «il tema della presenza sul territorio di soggetti che avevano collaborato». Spiega il magistrato: «Si tratta di un elemento di riflessione di carattere strutturale. Senza i collaboratori di giustizia i processi di criminalità organizzata non si possono fare. Il tema, però, è cosa succede dopo. La legge prevede sanzioni gravi per chi torna a delinquere, come la revisione dei processi nei quali avevano ottenuto dei benefici», conclude. «Bisogna riflettere su una serie di limiti che secondo me vanno posti, ad esempio la possibilità di concedere il ritorno sul territorio».
Oltretutto alcuni dei pentiti non avrebbero mai smesso di delinquere, neppure durante la collaborazione. Come rivela il questore di Messina, Vito Calvino: «Questa operazione accende i riflettori su un gruppo consistente e importante, per la caratura criminale dei soggetti interessati. La caratteristica principale è quella della riproposizione di attori che per vari motivi si erano allontanati e riprendono a delinquere. In primis con le estorsioni, poi col traffico stupefacenti. Soggetti», continua il questore, «che hanno ulteriore caratteristica: molti sono ex collaboratori di giustizia, in un caso un attuale collaboratore di giustizia. Ex non perché dissociatisi, ma perché alcuni in corso di collaborazione hanno continuato e altri hanno ripreso dopo aver esaurito il proprio percorso di collaborazione».
L’aggettivo che più si addice all’ex grillino Giovanni Favia è «primo». Bolognese, organizzatore del primo Vaffa day in piazza Maggiore, primo consigliere comunale in un capoluogo di provincia, tra i primi consiglieri regionali in Emilia Romagna, e ancora primo espulso eccellente nella storia del Movimento. Nel 2012 lo cacciò Beppe Grillo in persona e via blog, con l’accusa di aver partecipato a una trasmissione televisiva criticando la mancanza di democrazia nel partito. Oggi non fa più politica e non gli manca, si è dedicato alla ristorazione. Ma la politica, quella refrattaria alle poltrone, continua a scorrere nelle sue vene.
Le sardine le ricordano i 5 stelle di un tempo?
«Per nulla. Somigliano più al popolo viola, di cui non è rimasta traccia. Lasciamo passare un po’ di tempo e accadrà altrettanto».
Qual è la differenza?
«Le sardine sono simpatiche in quanto naif, ma di fatto servi muti del Pd. Noi criticavamo un sistema, non una parte politica a favore di un’altra»
Pensa che le sardine possano spostare voti o ingrosseranno il serbatoio degli astenuti?
«No, non muoveranno un voto. Il nostro è un Paese strano, l’unico al mondo dove le proteste di piazza non son contro chi governa ma contro l’opposizione. Roba da psichiatra. Non c’è politica al loro interno, non c’è analisi e nemmeno prospettiva. Funzionano esclusivamente perché è un’iniziativa ludica, leggera e perché la richiesta di meno populismo e odio sarebbe condivisibile anche da Hannibal Lecter. In questo rappresentano un ulteriore passo indietro rispetto i girotondi, che perlomeno avevano un senso critico più alto».
Come vede il governo giallorosso? Assistiamo a continui scontri tra Pd e M5s, dal salva Stati alla prescrizione…
«Era difficile superare la vecchia casta per attaccamento alla poltrona. I 5 stelle sono riusciti nell’impresa. Si alleerebbero persino con l’Isis pur di non lasciare la vita dorata da parlamentari. Lavorare non piace a nessuno. Non hanno né morale né etica, per loro conta solo la comoda vita da parlamentare. Hanno tradito gran parte degli impegni elettorali. Hanno ingannato milioni di persone. La pagheranno cara, questo è certo. Il premier Giuseppe Conte è il peggiore di tutti per me, il vero re del trasformismo».
Quindi avrebbero tradito gli elettori…
«Per molti che li hanno votati i 5 stelle erano l’ultima speranza. Si sono presi una tale fregatura che non torneranno alle urne per un po’. A livello elettorale adesso c’è un vuoto politico spaventoso e nessuno è in grado di intercettarlo. La prosa che ha stregato quegli elettori non c’è più».
Un fallimento.
«Peggio, un’apocalisse. Quel mondo fatto di purezza, dirette streaming e promesse mirabolanti è esploso sotto i colpi impietosi della realtà. In quanto a promesse non mantenute sono riusciti a fare meglio di tutti i loro predecessori. Hanno preso in giro i cittadini: non volevano cambiare il sistema, volevano solo farne parte».
Bandiera del governo è la lotta all’evasione fiscale, condivide?
«L’evasione fiscale si può combattere semplicemente: abbassando drasticamente le tasse e definendo dei regimi forfettari. Fino a quando lo Stato farà lo sceriffo di Nottingham è difficile biasimare il barista in difficoltà che cerca di ridurre la pressione fiscale affinché il negozio non chiuda e non licenzi i lavoratori. Il resto sono manovre orwelliane di dittatura finanziaria».
Addirittura dittatura finanziaria?
«Con la moneta elettronica ci vogliono mettere nelle mani delle banche e dei governi, come in Cina. Basterà un clic per essere cancellati».
Come andranno per il Movimento le elezioni in Emilia Romagna del 26 gennaio?
«I 5 stelle non esistono più qui. Ci sono ancora dei voti, ma non più un Movimento. Sono un comitato di aspiranti politici, un ufficio di collocamento per mediocri in pieno declino».
Allora, per limitare i danni, perché non allearsi col Pd anche in quest’occasione?
«Perché sarebbe follia. In questa Regione nascevamo contro il Pd. I consiglieri ci hanno provato in realtà quando hanno capito che non sarebbero stati tutti rieletti, ma hanno dovuto desistere. I pochi elettori rimasti sarebbero andati a prenderli a casa con il forcone».
Ritiene che l’esito delle regionali possa determinare le sorti del Conte bis?
«Non credo proprio, perché le sorti del governo nazionale dipendono da altre variabili come le pressioni internazionali, quelle istituzionali e del Quirinale, oppure anche semplici interessi personali».
Federico Pizzarotti, ex 5 stelle come lei, ha deciso di sostenere Stefano Bonaccini.
«La politica ci ha abituato a queste piroette, basta guardare i 5 stelle. Federico ha combattuto al mio fianco il Pd per anni. Pd di cui Bonaccini era segretario regionale. Se ora ha cambiato idea e ne condivide le politiche, alzo le braccia. Però le politiche del Pd non sono cambiate, forse politicamente è cambiato lui. Gli faccio comunque il mio in bocca al lupo».
Ma lei, se vuole dircelo, per chi voterà?
«Aspetto di vedere la presentazione delle liste, non so ancora. So di certo chi non voterò: il Pd. Possono far credere a chi guarda la televisione che qui il Partito democratico ben governi ma chi li conosce da vicino sa che non è così. Decine di anni di governo ininterrotto del territorio, hanno incrostato clientele, radicato favoritismi, facilitato la corruzione e addormentato la classe dirigente. I politici sono come i pannolini, dopo un po’ vanno cambiati. Nei mei anni da consigliere regionale sa quanti esposti ho portato in Procura? Quanti scandali ho smascherato?».
Quanti?
«Tanti. La nostra sanità funziona grazie alle persone che lavorano alla base della piramide. Nonostante il Pd sprechi centinaia di milioni di euro. La domanda che i cittadini dovrebbero farsi è questa: visto il gettito miliardario, come mai le liste d’attesa sono così lunghe, le code ai pronto soccorso infinite, i cantieri per i nuovi ospedali un pozzo senza fondo di soldi pubblici, i punti nascite in montagna chiusi? E potrei continuare per ore. Potremmo avere molti più servizi a parità di gettito».
Torniamo ai pentastellati: ci sono altri senatori pronti a passare alla Lega.
«Non stupisce più nulla, né in un senso né nell’altro. Dopo il governo giallorosso non è più un Parlamento, ma un club di scambisti».
E Beppe Grillo comanda ancora?
«Comanda quando gli va. Di fatto il Movimento è tecnicamente suo».
Lei ritiene che nell’alleanza con il Pd abbiano contato anche le vicende personali di Grillo?
«Questione delicata. È un fatto psicologico. A mio avviso ha voluto calmare le acque. Alfonso Bonafede alla Giustizia e le correnti più forti dell’Anm unite al governo. Non è un salvacondotto ma si dorme sicuramente più tranquilli. Comunque solo lui può conoscere la verità, ma qualcosa di certo è successo. Grillo ha sempre detestato il Pd ritenendoli il peggio del peggio».
Si spieghi meglio quando parla di fattore psicologico.
«Ovvio che un padre si spaventa quando ha un figlio indagato per stupro, ti crolla tutto addosso, anche la politica passa in secondo piano. Questa situazione, secondo me, ha influito sulla posizione di Grillo.».
E di Luigi Di Maio cosa mi dice? Preferisce lui o Matteo Salvini?
«Penso che tra Di Maio e Salvini quello intimamente più di destra sia l’attuale ministro degli Esteri».
Cioè?
«Di Maio è un lupo travestito da agnello. Salvini invece è raccontato come il cattivo lupo nero delle favole, in realtà è un innocuo yorkshire. Abbaia più di quanto morde».
Come giudica il ritorno in scena di Alessandro Di Battista? Un tentativo di rifarsi la verginità?
«Prossima domanda?».
C’è un problema di mancanza di trasparenza nel M5s?
«No, è tutto molto chiaro. È un partito piramidale dove chi comanda non è nemmeno eletto dalla base. Il capo politico è solo un fantoccio nelle mani del diarca».
La tanto decantata democrazia del Web è eterodiretta?
«L’iperdemocrazia del Web è un modo per celare una vera dittatura».
Che opinione ha di Davide Casaleggio? Un businessman o che altro?
«Qualsiasi cosa dica potrebbe querelarmi, è suscettibile quando si parla dei suoi affari. Mi piacerebbe che pubblicasse tutti i suoi contratti in essere dal 2013 a oggi, eventualmente partecipazioni in società straniere, Cina compresa».
Adesso lei gestisce un ristorante libreria nel cuore della zona universitaria di Bologna. Le manca la politica?
«La politica è un buon parcheggio per chi nella vita non ha altre abilità. Si mettono lì e galleggiano. Se la fai con passione e per cercare di cambiare davvero le cose invece ti distruggono. Io ora sto bene a fare tagliatelle. Solo mi pesa un po’ pagare una montagna di tasse per foraggiare lo stipendio di Di Maio e Bonafede».
Lei è stato il primo espulso eccellente del M5s, cosa non funzionò allora?
«Mi fidavo ciecamente di Beppe, a cui volevo davvero bene. In realtà era tutto sbagliato, sin dall’inizio. Il Movimento fu la risposta sbagliata a delle domande giuste. Il bello è che mi accusarono di criticare i vertici come scusa per poter andare con il Pd e fare carriera politica».
E oggi cosa è cambiato?
«Loro sono rimasti incollati alla poltrona e fanno da stampella al Pd al governo, io l’imprenditore. Il tempo è galantuomo».





