2019-12-21
«Voti dalle cosche»: manette all’assessore
Roberto Rosso, nella giunta piemontese di centrodestra, è uno dei leader regionali di Fdi. Avrebbe ottenuto preferenze versando alla 'ndrangheta 15.000 euro. Oltre a questo scambio, l'accusa riguarda reati fiscali per 16 milioni. Giorgia Meloni: «È fuori dal partito».Gli ex collaboratori di giustizia arrestati a Messina volevano riprendersi il territorio.Lo speciale contiene due articoli.Secondo l'accusa, avrebbe chiesto voti ai clan della 'ndrangheta per venire eletto in Regione Piemonte alle ultime consultazioni dello scorso maggio, vinte dal centrodestra. In cambio del pacchetto di preferenze doveva sborsare alle cosche 15.000 euro e avrebbe già versato una prima tranche da 7.900 euro. Un patto scellerato che lega, ancora una volta, politica e criminalità organizzata.Si è interrotta così, all'alba di ieri, la lunga carriera politica dell'assessore regionale Roberto Rosso, uno dei leader piemontesi di Fratelli d'Italia, che è arrestato dalla Guardia di finanza.Rosso, che si è dimesso dall'incarico, è finito in manette insieme ad altre sette persone nell'ambito di un'inchiesta coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia torinese. Tra i reati che vengono contestati a vario titolo dalla Procura, oltre all'associazione per delinquere di stampo mafioso e reati fiscali per 16 milioni di euro, c'è anche lo scambio elettorale politico-mafioso. L'esponente del partito di Giorgia Meloni si sarebbe infatti rivolto ad affiliati alle cosche calabresi per conquistarsi una poltrona in Regione. Operazione andata a buon fine poiché è stato eletto consigliere regionale, ottenendo 4.806 preferenze. Dopodiché è stato nominato dal governatore Alberto Cirio assessore con delega ai rapporti con il Consiglio, delegificazione dei percorsi amministrativi, affari legali e contenzioso, emigrazione e diritti civili.Vercellese, 59 anni, è un avvocato civilista ed un politico di lungo corso e navigata esperienza. Muove i primi passi nella Dc, ed è tra i pionieri che seguono Silvio Berlusconi nel 1994 quando nasce Forza Italia. Ha spesso cambiato casacca e sempre nelle file del centrodestra, almeno otto volte negli ultimi dieci anni per finire a Fratelli d'Italia. Tanto che nell'ambiente politico lo hanno ribattezzato Araba fenice, l'uomo che in qualche modo riesce sempre a rinascere dalle ceneri. Nel 2001 si candida anche a sindaco di Torino costringendo Sergio Chiamparino a un inatteso ballottaggio.È stato cinque volte deputato e membro in più commissioni parlamentari: Bilancio, Attività produttive, Lavoro e Agricoltura. Nella legislatura 2008-2013 ha anche ricoperto il ruolo sottosegretario alle Politiche agricole e forestali. Attualmente è anche capogruppo di Fratelli d'Italia al Comune di Torino e fino a giugno era vice sindaco di Trino Vercellese. Originario di Trino, si divide tra il Vercellese e il Torinese, dove vive con la moglie a Moncalieri e dove ieri mattina è stato prelevato dalle forze dell'ordine. Poche ore dopo il provvedimento cautelare Rosso ha rassegnato le dimissioni e il presidente Cirio assumerà le sue deleghe. Come spiega il coordinatore di Forza Italia, Paolo Zangrillo: «Noi siamo garantisti e speriamo che Rosso possa dimostrare la sua totale estraneità ai fatti di cui è accusato. Ho parlato con Cirio, sarà lui ad assumere le deleghe dell'assessore».Molto meno cauta la leader di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, che dichiara che «fin quando questa vicenda non sarà chiarita, è da considerarsi ufficialmente fuori da Fdi». E sottolinea inoltre che «Roberto Rosso ha aderito a Fratelli d'Italia da poco più di un anno. Apprendiamo che è stato arrestato con l'accusa più infamante di tutte: voto di scambio politico-mafioso. Mi viene il voltastomaco. Mi auguro dal profondo del cuore che dimostri la sua innocenza, ma annuncio fin da ora che Fratelli d'Italia si costituirà parte civile nell'eventuale processo a suo carico». Secondo i magistrati, avrebbe ottenuto i voti per le regionali del 26 maggio 2019, avvalendosi della mediazione di Enza Colavito e di Carlo De Bellis. Inoltre Rosso avrebbe avuto piena consapevolezza dell'infiltrazione mafiosa dei suoi due interlocutori, come sostiene il procuratore generale Francesco Saluzzo: «Per accaparrarsi i voti è sceso a patti con i mafiosi. Hanno stretto un accordo. E l'accordo ha avuto successo». E dalle indagini, sottolinea la Guardia di finanza, è emersa infatti «la piena consapevolezza del politico e dei suoi intermediari circa la intraneità mafiosa dei loro interlocutori».In manette anche l'imprenditore Mario Burlò, 46 anni, di Moncalieri, presidente di Oj Solution, un consorzio di imprese che opera nel settore del facility management. È anche vicepresidente nazionale di Pmi Italia, associazione che riunisce 200.000 imprenditori in tutta Italia. L'investigazione ha fatto emergere anche figure di «spessore criminale» come Onofrio Garcea e Francesco Viterbo. I due avrebbero organizzato un sodalizio, intessendo rapporti con Burlò, «con interessi sul territorio nazionale e sponsor in diverse società sportive». Quest'ultimo, con il costante aiuto della cosca, avrebbe attuato e strutturato un sistema di evasione fiscale attraverso la creazione di società. La prima operazione del cosiddetto pactum sceleris ha avuto per oggetto la villa appartenuta al giocatore Arturo Vidal (estraneo all'inchiesta) acquistata di recente da Burlò e ora posta sotto sequestro.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/voti-dalle-cosche-manette-allassessore-2641660213.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-clan-dei-pentiti-tornati-agli-affari-con-racket-armi-e-spaccio-di-coca" data-post-id="2641660213" data-published-at="1758153960" data-use-pagination="False"> Il clan dei pentiti tornati agli affari con racket, armi e spaccio di coca Prima si erano pentiti e poi, pentiti del loro pentimento, avevano deciso di tornare a fare i mafiosi e riprendersi Messina. Con i soliti metodi violenti, facendo estorsioni e organizzando traffici di droga. Così cinque ex collaboratori di giustizia avevano ricostituito un agguerrito clan, appena dopo essere usciti dal programma di protezione e dopo aver incassato la somma prevista per legge a chi collabora con lo Stato. I cinque erano tornati in Sicilia, con intenzioni tutt'altro che pacifiche. Le indagini della Squadra mobile, coordinate dal procuratore capo Maurizio De Lucia, hanno però bloccato la pericolosa riorganizzazione. Sono 14 le persone arrestate in un blitz scattato all'alba di ieri, tra queste cinque sono appunto ex collaboratori che già negli anni Ottanta e Novanta avevano segnato la storia criminale della città sullo Stretto. Si tratta di Nicola Galletta, Gaetano Barbera, Salvatore Bonaffini, Pasquale Pietropaolo e Antonino Stracuzzi, quest'ultimo risponde però non di associazione mafiosa ma solo di detenzione di armi. Gli ex pentiti avevano dato vita a una cellula di Cosa nostra con l'obiettivo di riconquistare il territorio e tornare al potere. Intercettazioni, pedinamenti e analisi dei traffici telefonici hanno accertato l'esistenza di due organizzazioni criminali: una di tipo mafioso, l'altra con il principale scopo di smerciare droga. Per decidere gli affari, gli associati della rinata cosca si incontravano in un ristorante del centro, gestito da uno degli ex pentiti. Il gruppo poteva inoltre contare sulla disponibilità di molte armi. Una delle estorsioni scoperte riguarda il titolare di un'associazione sportiva e culturale messinese, costretto a versare parte della propria liquidazione e minacciato perché lasciasse la carica. Ma il core business dell'organizzazione criminale era rappresentato dal traffico di cocaina. Il personaggio chiave e capo, secondo gli investigatori, era l'ex pentito Nicola Galletta, killer del clan di Giostra, condannato all'ergastolo per l'omicidio di Letterio Rizzo, boss ucciso nel 1991. Galletta ha scontato anche una condanna a 18 anni per mafia. Secondo il procuratore De Lucia è centrale «il tema della presenza sul territorio di soggetti che avevano collaborato». Spiega il magistrato: «Si tratta di un elemento di riflessione di carattere strutturale. Senza i collaboratori di giustizia i processi di criminalità organizzata non si possono fare. Il tema, però, è cosa succede dopo. La legge prevede sanzioni gravi per chi torna a delinquere, come la revisione dei processi nei quali avevano ottenuto dei benefici», conclude. «Bisogna riflettere su una serie di limiti che secondo me vanno posti, ad esempio la possibilità di concedere il ritorno sul territorio». Oltretutto alcuni dei pentiti non avrebbero mai smesso di delinquere, neppure durante la collaborazione. Come rivela il questore di Messina, Vito Calvino: «Questa operazione accende i riflettori su un gruppo consistente e importante, per la caratura criminale dei soggetti interessati. La caratteristica principale è quella della riproposizione di attori che per vari motivi si erano allontanati e riprendono a delinquere. In primis con le estorsioni, poi col traffico stupefacenti. Soggetti», continua il questore, «che hanno ulteriore caratteristica: molti sono ex collaboratori di giustizia, in un caso un attuale collaboratore di giustizia. Ex non perché dissociatisi, ma perché alcuni in corso di collaborazione hanno continuato e altri hanno ripreso dopo aver esaurito il proprio percorso di collaborazione».
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