Anche senza Sergio Mattarella - è al terzo forfait consecutivo - stasera il Teatro alla Scala fa il record d’incasso: quasi 3 milioni con biglietti pagati fino a 3.200 euro. È tanto? Forse è addirittura poco. Perché il melodramma, la lirica, sono uno dei massimi valori della cultura e dello stile italiani. Quanto all’assenza del presidente della Repubblica, si rincorrono le voci più disparate.
L’anno scorso e quello prima doveva essere a Parigi per la riapertura di Notre-Dame. Stavolta voci di corridoio dicono che potrebbe entrarci la scelta fatta dal direttore artistico, Riccardo Chailly, al suo ultimo anno a Milano, in concordia col nuovo sovrintendente, Fortunato Ortombina, di mettere in scena un’opera che non piaceva neppure a Stalin: Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmitri Shostakovich. Ma Chailly, fermissimo nel proposito, ha ricordato che tra Scala e Russia c’è un legame inscindibile fin dai tempi di Arturo Toscanini.
La Prima del teatro meneghino è da sempre però anche un evento politico; tant’ è - absit iniura verbis - che scatta il comma Nanni Moretti: mi si nota di più se ci sono o se non ci sono? Non ci sarà con tutta probabilità il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ed è atteso il forfait del presidente del Senato, Ignazio La Russa. Il sindaco Giuseppe Sala nel palco reale starà larghissimo. Stipato all’inverosimile con «mises» da settimana della moda sarà invece il foyer. E da lì si dovrebbe partire per fare un ragionamento. Ad esempio: la parte di Katerina è affidata a Sara Jakubiak, americana che ha studiato in Germania, dove è stata consacrata. Viene da chiedersi: che fine hanno fatto i grandissimi soprani italiani? E dopo Luciano Pavarotti (al netto che a Pesaro ne abbiano ingabbiato la statua in una pista di pattinaggio con uno sfregio che ha fatto il giro del mondo) che è accaduto?
Tra tre giorni la cucina italiana sarà riconosciuta patrimonio immateriale mondiale dell’umanità dall’Unesco, un evento che ha una ricaduta economica assai rilevante. Ma anche il canto lirico italiano è dal 2023 patrimonio mondiale dell’umanità e viene da chiedersi non solo se si realizzerà - com’è auspicabile - una sinergia tra canto e piatto che definisce al massimo livello possibile il valore Italia, ma perché ciò che vale per la tagliatella non vale per «l’intermezzo» di Cavalleria Rusticana di Pietro Mascagni una coinvolgente tarantella? Perché il teatro lirico da tempo soffre in Italia di sottovalutazione e di asfissia economica. È settore larghissimamente sovvenzionato e politicizzato (il caso di Beatrice Venezi ne è viva e sguaiata testimonianza) che ha perduto dinamicità imprenditoriale. Una dimostrazione è stato il centenario pucciniano, scivolato via senza troppa attenzione. Eppure Giacomo Puccini fu genio assoluto.
Ci sarà, stasera a Milano, il ministro della Cultura, Alessandro Giuli. E da lui parte una iniziativa per il rilancio dei teatri d’opera. La riforma dovrebbe esser varata entro il prossimo anno: il sottosegretario Giancarlo Mazzi - ne sa di organizzazione di concerti - ha scritto che 12 dei palcoscenici oggi Fondazioni liriche diventeranno Gran teatri d’opera. Nuovo sistema sinergico di vendita dei biglietti, un corpo di ballo nazionale, obbligo di avere direttore artistico e direttore marketing. Si cambiano i consigli di amministrazione con meno poteri ai sindaci e più ai ministeri della Cultura e dell’Economia. E si punta a una gestione manageriale, perché dei 420 milioni del Fus (Fondo unico per lo spettacolo), l’opera se ne «mangia 200 e serve cambiare. Peraltro, dopo il Covid, i palcoscenici lirici hanno avuto un rinascimento, ma hanno bisogno di un vigoroso ammodernamento. Il sold out di stasera della Scala dimostra che la lirica è un buon affare.
L’ultimo bilancio ha chiuso con 130 milioni di fatturato, quasi 9 di utile e il contributo pubblico incide per un terzo: il resto sono soldi di privati. Lo stesso vale per l’Arena di Verona - genera, ha stimato Nomisma, un indotto che vale 2 miliardi e impiega quasi 6.000 persone - che deve il 71% del valore della produzione a risorse proprie, col contributo pubblico sotto il 29%. La Siae certifica che nel 2024 si sono staccati biglietti d’opera per 110 milioni, ogni spettatore ha speso in media 51 euro e ogni euro ne genera 6,3 di moltiplicatore. Un volano potente che unito, ad esempio, alla cucina, ci manda in mete nel turismo. Lo sanno bene nel resto del mondo, dove la lirica è sacra. Lo sa meno l’Italia che pure gode, grazie al melodramma, di un primato culturale: le maggiori programmazioni sono nella nostra lingua e i grandi cantanti studiano in italiano! Da qui la necessità di cambiare.
A oggi le 12 fondazioni a statuto ordinario, salvo alcune eccezioni (Arena, Opera di Roma e San Carlo di Napoli), stanno in piedi per i contributi pubblici che arrivano da più rivoli. Le due fondazioni speciali, Scala e Accademia di Santa Cecilia di Roma, dimostrano, al contrario, che con un fatturato che supera i 110 milioni si possono ottenere risultati economici soddisfacenti, oltre ad attivare un potente indotto.
C’è dunque un rinnovato interesse del governo per la lirica che parte dalla Scala. Con Cho Cho San-Madama Butterfly, appassionati e artisti intonano perciò: un bel dì vedremo levarsi un fil di fumo? E la speranza!







