
L’unica cosa che non cambia sono i calzini arcobaleno. Per il resto tutto è modificabile nel pensiero liquido di Giuseppe Sala, sindaco di Milano, protagonista alla prima della Scala della più ardita ridefinizione del principio di non contraddizione. Con lui il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, la baronessa dell’Unione europea Ursula von der Leyen, attori, ballerine, grand commis dalle scarpe di vernice e ferventi radical del quartiere Paperonia in platea, che hanno tributato 13 minuti di applausi al Boris Godunov, il più russo dei melodrammi russi.
Con un titolo russo, un autore della musica russo (Modest Musorgskij), una storia profondamente russa scritta da un grande russo (Aleksandr Puškin), un protagonista russo (il basso Ildar Abdrazakov), una soprano russa (Anna Denisova). E pure Ignazio La Russa. Eppure, come disse il maresciallo Pietro Badoglio, «la guerra continua». Come si permettono? La risposta è da Club degli Illuminati di complemento, evidentemente convinti che gli italiani siano smemorati o imbecilli. Vanity Sala: «Mi sembrano polemiche mal poste. Si tratta di un’opera russa ma non è pensabile che, per il fatto che non si voglia appoggiare la politica di un Paese, sia necessario cancellare la cultura dello stesso. Specie se si tratta di un’esperienza come quella russa che in gran parte ha ispirato le radici della nostra sensibilità europea».
Mattarella: «La cultura russa non si cancella, è europea». Von der Leyen: «Non ce l’abbiamo con il popolo russo ma con una scelta politica. I due piani vanno tenuti distanti altrimenti facciamo confusione».
Ma sono stati loro i primi a fare confusione. A crearla, a cavalcarla, a bandire Mosca dal mappamondo, ad aprire la caccia alle streghe e a far portare ai loro schiavi mediatici le fascine per i roghi, a cancellare Kazimir Malevic, a sbianchettare Lev Tolstoj, a pubblicare le foto segnaletiche dei collaborazionisti.
«Vergogna, putinismo in purezza», hanno gridato per mesi coloro che oggi si innalzano a difensori della «diversità culturale»; brandivano fiaccole per bruciare le tende del sipario, accompagnati dal 90% dei giornalisti italiani in piena crociata ideologica. Allora essere russi (anche di 300 anni fa) era considerato un delitto. Allora era partita la caccia a Fedor Dostoevskij e lo scrittore Paolo Nori s’era visto cancellare un seminario dall’Università Bicocca, proprio a Milano.
Allora, un campione del progressismo all’ossobuco come Stefano Boeri, da presidente della Triennale (sempre Milano in pole position) aveva vietato agli espositori russi di partecipare con un proprio padiglione all’esposizione d’arte. Allora, si prendeva spunto da pizzini dei servizi segreti per stilare liste di proscrizione. Allora, chi criticava il fanatismo fasciocomunista e consigliava equilibrio veniva iscritto al partito di Vladimir Putin. Dov’è andato a nascondersi Gianni Riotta?
Poiché il vizio della memoria fa bene alla democrazia, è positivo dire «bentornati sulla Terra» a sindaci e presidenti che non si sono mai scomodati per difendere i fratelli Karamazov. Ma lo diciamo non prima di aver ricordato a Beppe Sala che nel marzo scorso (non dieci anni fa) quelle che oggi definisce «polemiche malposte» erano un suo cavallo di battaglia. E che il direttore d’orchestra Valery Gergiev fu invitato ad andarsene dalla Scala a tre giorni dalla messa in scena della Dama di picche di Piotr Ilic Ciajkovskij perché non aveva preso pubblicamente le distanze «in modo inequivocabile» da Putin (facile con la famiglia a Mosca).
Allora tutti i russi, compositori ottocenteschi compresi, erano criminali e il borgomastro aveva mostrato i muscoli. «Gli abbiamo chiesto di condannare la guerra, è uno sbaglio? Non so. Mi pare siano otto i teatri europei che hanno allontanato Gergiev. Sbagliano tutti?», ripeteva Sala.
Il ministro della Cultura, Dario Franceschini, furiere del Pd con l’elmetto aggiungeva: «Si devono fare scelte coerenti rispetto a quelle del resto del mondo». Per non dare l’impressione di tergiversare, il borgomastro meneghino aggiunse lo scalpo della soprano e star mondiale Anna Netrebko, che cancellò la tappa italiana dopo essersi rifiutata «di denunciare la mia terra di origine».
Tutto finito e nessuno chiede scusa, anzi si pontifica con gli ottoni. Gli applausi dei vip a Sant’Ambrogio hanno decretato la nuova tendenza autunno-inverno: la Russia sta tornando di moda e «non è necessario cancellare la cultura di un Paese anche se la sua politica è sbagliata». Ma va? Morale: i vecchi liberali impiegano mezza giornata a capire la differenza fra democrazia e follia, i socialisti mascherati nove mesi. Non per niente Socrate diceva che «la saggezza è un parto». Nel frattempo il console ucraino di Milano, Adrii Kartysh, vive un periodo di dissociazione cognitiva: aveva chiesto di «evitare la propaganda russa alla Scala» ed è stato preso a schiaffi dagli stessi che fino all’altroieri avevano censurato Dostoevskij, Gagarin e pure Borzov per «evitare la propaganda russa». Cambiato qualcosa? Niente. Hanno solo deciso che scherzavano.






