2020-01-11
United crollos of Benetton
In Argentina, i Mapuche da anni rivendicano l'area comprata da una società controllata dalla famiglia italiana, famosa per le campagne a favore del multiculturalismo. A Natale alcuni militanti hanno occupato un'azienda agricola: denunciati.Report del Mit: 105 sono gestite da Aspi, 90 da altri. C'è il rischio di incidenti e crolli; spesso mancano illuminazione e vie di fuga.Lo speciale contiene due articoli.L'ultima volta che Luciano Benetton si è esposto pubblicamente su temi cosiddetti «sociali» è stato lo scorso 13 ottobre. Chiariamo subito: non ha parlato di autostrade né di ponti o di gallerie. Per sentirlo affrontare quegli argomenti abbiamo dovuto aspettare la fine di novembre, quando il patron ha scritto una lettera a Repubblica lamentandosi per «la campagna di odio scatenata contro la nostra famiglia». No, il 13 ottobre Benetton si è espresso su un tema che gli sta molto più a cuore della viabilità, e cioè l'immigrazione. Assieme all'Aga Khan, il celebre Luciano ha presentato a Londra una mostra intitolata Don't ask me where I'm from (non chiedermi da dove vengo). I due illuminati investitori, ci ha spiegato sempre Repubblica, hanno dato «a 15 artisti, immigrati di seconda o terza generazione e provenienti dai luoghi più diversi del globo, la possibilità di riflettere su radici e futuro, su culture e differenze». In effetti, iniziative come quella londinese rientrano perfettamente nella filosofia di United colors of Benetton: multiculturalismo, integrazione, elogio delle differenze... Argomenti su cui, specie negli ultimi tempi, l'azienda di Ponzano Veneto ha insistito parecchio, complice il ritorno di Oliviero Toscani alla guida dell'apparato pubblicitario. L'arzillo fotografo ha scodellato una bella serie di campagne tutte basate sull'elogio dell'immigrazione di massa, giusto per godersi lo sdegno dei sovranisti. Insomma, i nostri amici - ormai da tempo - non perdono occasione per ribadire l'adesione ai valori liberal. C'è però un angolo del mondo in cui l'atteggiamento progressista e umanitario di casa Benetton non è molto apprezzato, e non stiamo certo parlando dei Comuni italiani in mano alla Lega.Il luogo in questione è la Patagonia, e a non gradire i Benetton sono gli indigeni Mapuche, la popolazione autoctona. La notte tra il 25 e il 26 dicembre, un gruppo di militanti nativi della comunità Lof Kurache ha deciso di occupare una «estancia» che si trova nel Comune di El Maitén, provincia di Chubut, nella Patagonia argentina. È un terreno appartenente ai Benetton. «Abbiamo recuperato ciò che ci è stato rubato», dicono i militanti. E spiegano di avere iniziato un «processo di recupero territoriale delle terre di El Platero occupate dalla multinazionale Tuierras del Sur di proprietà di Benetton». Come spiega un comunicato ufficiale della famiglia, «nel 1991 Edizione holding (la finanziaria controllata dai Benetton, ndr) acquisisce in maniera del tutto legale e legittima la società Compañía de Tierras Sud Argentino da tre famiglie argentine che la possedevano da lungo tempo. [...]. Attualmente l'azienda offre lavoro a centinaia di persone, prevalentemente di origine Mapuche in una moderna struttura agricola dedicata soprattutto all'allevamento ovino. Fin dalla sua creazione», conclude il comunicato dei Benetton, «Compañía de Tierras Sud Argentino reinveste in Argentina risorse e capitali, scommettendo sullo sviluppo e sulla crescita del Paese». Gli indios, però, la pensano diversamente. Sostengono che l'azienda sfrutti la loro terra madre, e non solo per l'allevamento, ma pure per attività estrattive che consentirebbero alla multinazionale di arricchirsi alle spalle dei nativi. Come ha spiegato in un'intervista visibile sul sito di Micromega la giornalista Monica Zornetta, i Mapuche ritengono che «la donazione iniziale fatta dallo Stato argentino a quella che sarebbe poi diventata Compañía de Tierras Sud Argentino, poi passata in mano ai Benetton, sia avvenuta in violazione alla legge». La compagnia possiede qualcosa come 900.000 ettari di territorio della Patagonia. Un impero (pagato, pare, 50 milioni di dollari nel 1991) che ospita la gran parte dei Mapuche, i quali dall'inizio degli anni Duemila sono in lotta per rivendicare la sovranità su quelle terre. Un «diritto ancestrale», lo definiscono. Curioso davvero: in Italia i Benetton sono una specie di emblema dell'imprenditoria liberal e impegnata. In Patagonia, invece, sono i padroni da combattere, e hanno contro una larghissima fetta della sinistra più o meno estrema. Che, in aggiunta, accusa le autorità argentine di «complicità» con i ricchi capitalisti italici. Il conflitto negli ultimi anni si è inasprito. In particolare da quando, nel gennaio 2017, una occupazione finì con scontri pesanti. In quell'occasione intervenne pure Amnesty international, spiegando che le forze di sicurezza argentine avevano «attaccato violentemente la comunità Mapuche di Cushamen ». Ad Amnesty i Mapuche raccontarono di «essere stati picchiati, anche con manganelli. [...] I membri della comunità hanno riferito che gli agenti hanno sparato, ferendo alcune persone».Sempre nel 2017, durante l'ennesimo conflitto nella provincia di Chubut tra Mapuche e polizia, sparì un attivista argentino, Santiago Maldonado, di 28 anni. Fu ripescato da un fiume, morto, circa un anno dopo. Le indagini sul suo caso sono state riaperte a settembre, e sono ancora in corso. Compañía de Tierras, ovviamente, tiene a precisare di non avere «avuto alcun legame diretto o indiretto con l'accaduto: la procedura di ordine pubblico viene condotta dalla gendarmeria nazionale, senza partecipazione, sostegno o coinvolgimento di alcun tipo da parte della società».L'occupazione dello scorso Natale, per fortuna, non ha ancora causato scontri, solo una denuncia da parte dell'azienda alle autorità argentine. Gli indigeni, dal canto loro, chiedono l'appoggio dei militanti di tutte le nazioni per continuare la lotta. Chissà, magari il compagno Toscani li contatterà per la prossima campagna multiculturalista. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/indios-contro-i-benetton-ridateci-la-terra-2644667118.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="autostrade-a-pezzi-duecento-gallerie-violano-le-norme-di-sicurezza-dellue" data-post-id="2644667118" data-published-at="1763168570" data-use-pagination="False"> Autostrade a pezzi: «Duecento gallerie violano le norme di sicurezza dell’Ue» La galleria Bertè, sull'autostrada A26 Genova-Gravellona Toce, non è la sola che rischia di crollare. Il tunnel, dal quale lo scorso 30 dicembre si sono staccate dalla volta quasi tre tonnellate di cemento, è solo uno dei tanti a non rispettare le norme di sicurezza europee. Senza che nessuno si sia ancora preoccupato d'intervenire per rimediare. In totale sono quasi 200 le gallerie fuorilegge in Italia: 105 si trovano sulla rete gestita da Autostrade, mentre 90 sono sotto la responsabilità di altre società. Lo rivela un'indagine condotta dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e pubblicata da Repubblica: secondo questo documento, i trafori lunghi oltre 500 metri presentano pericoli di incidenti e crolli, non sono impermeabilizzati, sono privi di sistemi di sicurezza, di corsie di emergenza e vie di fuga. Mancano anche le luci guida in caso di evacuazione. E proprio per questo il nostro Paese rischia una procedura di infrazione da parte dell'Unione europea. Non sono, infatti, più solo i viadotti a fare paura, anche le gallerie sono considerate dal report bombe a orologeria. Prova ne sono i cedimenti che si sono ripetuti su diversi tratti. Due giorni fa un grosso calcinaccio è caduto dalla volta del tunnel del Turchino, ancora sulla A26. Ieri notte un altro episodio simile all'interno della galleria Ricchini, sulla A6 nel tratto fra Savona e Altare, lo stesso dove il 24 novembre scorso una frana ha provocato il collasso del viadotto Madonna del Monte. Insomma, anche i tunnel stanno cedendo al peso degli anni, dell'incuria e della mancata manutenzione. Così un nuovo ciclone giudiziario potrebbe abbattersi sulle società concessionarie e su Aspi, già sotto inchiesta per la tragedia del ponte Morandi e per lo scandalo dei report sulla sicurezza dei viadotti, che per gli inquirenti sarebbero stati falsificati. Il problema dei controlli «ammorbiditi», secondo la Procura di Genova, potrebbe riguardare infatti anche i trafori per i quali il sistema e gli attori coinvolti sono gli stessi. La scala di valutazione dei rischi andava da 10 (condizioni ottime) fino a 70 (valore che impone la chiusura del ponte o della galleria). La Bertè aveva ricevuto come voto 40, cioè un rischio di cedimento molto contenuto. Votazione che era stata assegnata dai tecnici di Spea, la controllata di Aspi che si occupava delle ispezioni. Gli investigatori stanno cercando di capire se la società fosse a conoscenza delle reali condizioni della volta, intanto è stato aperto un fascicolo a carico di ignoti per crollo colposo. Da parte sua, Autostrade fa sapere che l'adeguamento degli impianti nelle gallerie citate dal rapporto è in corso nel 90% dei casi, mentre per il restante 10% sono partite le gare d'appalto per i lavori. Gli interventi previsti dalla normativa Ue, sottolinea ancora Aspi, non riguardano però la sicurezza strutturale delle gallerie. Nel frattempo c'è un'altra spada di Damocle che continua a incombere sul futuro della rete autostradale italiana. Perché il nodo della revoca delle concessioni, annunciata all'indomani della tragedia di Genova, a quasi un anno e mezzo dal disastro non è ancora stato sciolto. Da una parte ci sono i 5 stelle, fermi sulla necessità di sospendere gli accordi con il gruppo della famiglia Benetton, dall'altro il resto della maggioranza, che propende per una linea più «morbida». Le ultime indiscrezioni dicono che il governo starebbe pensando a una maxi multa che eviti la revoca. Sul tavolo ci sarebbe, quindi, una compensazione in denaro fino a 4 miliardi, che si accompagnerebbe a una riduzione delle tariffe attuali fino al 5%, ad aumenti programmati per i prossimi anni non oltre il 2% e a una riduzione della remunerazione del capitale investito. Inoltre Autostrade sarebbe pronta a presentare un piano che prevede 13 miliardi di euro di investimenti nei prossimi 18 anni. Quelli, cioè, che mancano al termine della concessione. Uno sforzo con il quale la società intende, evidentemente, marcare una presa di distanza rispetto al passato. Un passato nel quale gli investimenti sulla rete autostradale, ma anche su tutte le altre infrastrutture del Paese, sono stati pochissimi. Come sostiene una ricerca condotta dalla società di consulenza Deloitte in collaborazione con l'università Luiss. Emerge che il cosiddetto indice di dotazione infrastrutturale dell'Italia è fermo a 0,161, contro una media Ue di 0,022. Questo vuol dire che se il nostro Paese decidesse di costruire i servizi viari che mancano, e che lo tengono lontano dal livello dei partner europei, dovrebbe spendere una montagna di denaro. Lo studio disegna tre scenari in base ai quali si dovrebbero investire almeno 138 miliardi, nel migliore dei casi. Ma l'ipotesi è che si possa salire a 415 o, nello scenario più pessimista, addirittura 787 miliardi di euro solo nel settore dei trasporti, autostrade comprese. Per farsi un'idea del nostro ritardo basta un dato: tra il 2008 e il 2012 abbiamo speso in infrastrutture solo 58 miliardi di euro. E le scellerate conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
Susanna Tamaro (Getty Images)
Nel periodo gennaio-settembre, il fabbisogno elettrico italiano si è attestato a 233,3 terawattora (TWh), di cui circa il 42,7% è stato coperto da fonti rinnovabili. Tale quota conferma la crescente integrazione delle fonti green nel panorama energetico nazionale, un processo sostenuto dal potenziamento infrastrutturale e dagli avanzamenti tecnologici portati avanti da Terna.
Sul fronte economico, i ricavi del gruppo hanno raggiunto quota 2,88 miliardi di euro, con un incremento dell’8,9% rispetto agli stessi mesi del 2024. L’Ebitda, margine operativo lordo, ha superato i 2 miliardi (+7,1%), mentre l’utile netto si è attestato a 852,7 milioni di euro, in crescita del 4,9%. Risultati, questi, che illustrano non solo un miglioramento operativo, ma anche un’efficiente gestione finanziaria; il tutto, nonostante un lieve aumento degli oneri finanziari netti, transitati da 104,9 a 131,7 milioni di euro.
Elemento di rilievo sono gli investimenti, che hanno superato i 2 miliardi di euro (+22,9% rispetto ai primi nove mesi del 2024, quando il dato era di 1,7 miliardi), un impegno che riflette la volontà di Terna di rafforzare la rete di trasmissione e favorire l’efficienza e la sicurezza del sistema elettrico. Tra i principali progetti infrastrutturali si segnalano il Tyrrhenian Link, il collegamento sottomarino tra Campania, Sicilia e Sardegna, con una dotazione finanziaria complessiva di circa 3,7 miliardi di euro, il più esteso tra le opere in corso; l’Adriatic Link, elettrodotto sottomarino tra Marche e Abruzzo; e i lavori per la rete elettrica dedicata ai Giochi olimpici e paralimpici invernali di Milano-Cortina 2026.
L’attenzione ai nuovi sistemi di accumulo elettrico ha trovato un momento chiave nell’asta Macse, il Meccanismo di approvvigionamento di capacità di stoccaggio, conclusosi con l’assegnazione totale della capacità richiesta, pari a 10 GWh, a prezzi molto più bassi del premio di riserva, un segnale di un mercato in forte crescita e di un interesse marcato verso le soluzioni di accumulo energetico che miglioreranno la sicurezza e contribuiranno alla riduzione della dipendenza da fonti fossili.
Sul piano organizzativo, Terna ha visto una crescita nel personale, con 6.922 dipendenti al 30 settembre (502 in più rispetto a fine 2024), necessari per sostenere la complessità delle attività e l’implementazione del Piano industriale 2024-2028. Inoltre, è stata perfezionata l’acquisizione di Rete 2 S.r.l. da Areti, che rafforza la presenza nella rete ad alta tensione dell’area metropolitana di Roma, ottimizzando l’integrazione e la gestione infrastrutturale.
Sotto il profilo finanziario, l’indebitamento netto è cresciuto a 11,67 miliardi di euro, per sostenere la spinta agli investimenti, ma è ben bilanciato da un patrimonio netto robusto di circa 7,77 miliardi di euro. Il consiglio ha confermato l’acconto sul dividendo 2025 pari a 11,92 centesimi di euro per azione, in linea con la politica di distribuzione che punta a coniugare remunerazione degli azionisti e sostenibilità finanziaria.
Da segnalare anche le iniziative di finanza sostenibile, con l’emissione di un Green Bond europeo da 750 milioni di euro, molto richiesto e con una cedola del 3%, che denuncia la forte attenzione agli investimenti a basso impatto ambientale. Terna ha inoltre sottoscritto accordi finanziari per 1,5 miliardi con istituzioni come la Banca europea per gli investimenti e Intesa Sanpaolo a supporto dell’Adriatic Link e altri progetti chiave.
L’innovazione tecnologica rappresenta un altro pilastro della strategia di Terna, con l’apertura dell’hub Terna innovation zone Adriatico ad Ascoli Piceno, dedicato alla collaborazione con startup, università e partner industriali per sviluppare soluzioni avanzate a favore della transizione energetica e della digitalizzazione della rete.
La solidità del piano industriale e la continuità degli investimenti nelle infrastrutture critiche e nelle tecnologie innovative pongono Terna in una posizione di vantaggio nel garantire il sostentamento energetico italiano, supportando la sicurezza, la sostenibilità e l’efficienza del sistema elettrico anche in contesti incerti, con potenziali tensioni commerciali e geopolitiche.
Il 2025 si chiuderà con previsioni di ricavi per oltre 4 miliardi di euro, Ebitda a 2,7 miliardi e utile netto superiore a un miliardo, fra conferme di leadership e rinnovate sfide da affrontare con competenza e visione strategica.
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Il presidente venezuelano Nicolas Maduro (Getty Images)
Il presidente venezuelano Nicolas Maduro ha ordinato alle forze armate di essere pronte ad un’eventuale invasione ed ha dispiegato oltre 200mila militari in tutti i luoghi chiave del suo paese. il ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez sta guidando personalmente questa mobilitazione generale orchestrata dalla Milizia Nazionale Bolivariana, i fedelissimi che stanno rastrellando Caracas e le principali città per arruolare nuove forze.
L’opposizione denuncia arruolamenti forzati anche fra i giovanissimi, soprattutto nelle baraccopoli intorno alla capitale, nel disperato tentativo di far credere che la cosiddetta «rivoluzione bolivariana», inventata dal predecessore di Maduro, Hugo Chavez, sia ancora in piedi. Proprio Maduro si è rivolto alla nazione dichiarando che il popolo venezuelano è pronto a combattere fino alla morte, ma allo stesso tempo ha lanciato un messaggio di pace nel continente proprio a Donald Trump.
Il presidente del Parlamento ha parlato di effetti devastanti ed ha accusato Washington di perseguire la forma massima di aggressione nella «vana speranza di un cambio di governo, scelto e voluto di cittadini». Caracas tramite il suo ambasciatore alle Nazioni Unite ha inviato una lettera al Segretario Generale António Guterres per chiedere una condanna esplicita delle azioni provocatorie statunitensi e il ritiro immediato delle forze Usa dai Caraibi.
Diversi media statunitensi hanno rivelato che il Tycoon americano sta pensando ad un’escalation con una vera operazione militare in Venezuela e nei primi incontri con i vertici militari sarebbe stata stilata anche una lista dei principali target da colpire come porti e aeroporti, ma soprattutto le sedi delle forze militari più fedeli a Maduro. Dal Pentagono non è arrivata nessuna conferma ufficiale e sembra che questo attacco non sia imminente, ma intanto in Venezuela sono arrivati da Mosca alcuni cargo con materiale strategico per rafforzare i sistemi di difesa anti-aerea Pantsir-S1 e batterie missilistiche Buk-M2E.
Dalle immagini satellitari si vede che l’area della capitale e le regioni di Apure e Cojedes, sedi delle forze maduriste, sono state fortemente rinforzate dopo che il presidente ha promulgato la legge sul Comando per la difesa integrale della nazione per la salvaguardia della sovranità e dell’integrità territoriale. In uno dei tanti discorsi alla televisione nazionale il leader venezuelano ha spiegato che vuole che le forze armate proteggano tutte le infrastrutture essenziali.
Nel piano presentato dal suo fedelissimo ministro della Difesa l’esercito, la polizia ed anche i paramilitari dovranno essere pronti ad una resistenza prolungata, trasformando la guerra in guerriglia. Una forza di resistenza che dovrebbe rendere impossibile governare il paese colpendo tutti i suoi punti nevralgici e generando il caos.
Una prospettiva evidentemente propagandistica perché come racconta la leader dell’opposizione Delsa Solorzano «nessuno è disposto a combattere per Maduro, tranne i suoi complici nel crimine. Noi siamo pronti ad una transizione ordinata, pacifica e che riporti il Venezuela nel posto che merita, dopo anni di buio e terrore.»
Una resistenza in cui non sembra davvero credere nessuno perché Nicolas Maduro, la sua famiglia e diversi membri del suo governo, avrebbero un piano di fuga nella vicina Cuba per poi probabilmente raggiungere Mosca come ha già fatto l’ex presidente siriano Assad.
Intanto il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha espresso preoccupazione per i cittadini italiani detenuti nelle carceri del Paese, sottolineando l’impegno della Farnesina per scarcerarli al più presto, compreso Alberto Trentini, arrestato oltre un anno fa.
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