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2019-01-23
Super esercito, affari e mani libere. Merkel e Macron sposi per interesse
Ansa
«E ci fu prima un tempo i Galli superavano i Germani in valore», scriveva Giulio Cesare nel De bello Gallico. Un paio di millenni dopo, con i Germani che hanno ribaltato la situazione, il trattato di Aquisgrana, firmato ieri da Angela Merkel e Emmanuel Macron, unisce tedeschi e francesi in un patto che sostanzialmente fa calare il sipario su ogni ipotesi di vera integrazione europea, con Parigi che spinge per una difesa comune e Berlino che punta all'«annessione» economica della Francia. Merkel e Macron hanno sottoscritto il trattato («contro populismi e nazionalismi») alla presenza dei presidenti della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e del Consiglio europeo, Donald Tusk: i vertici istituzionali dell'Unione benedicono un accordo che rappresenta un fattore positivo per tutta l'Europa sotto almeno un aspetto, il crollo del muro dell'ipocrisia.
In 16 pagine, e 28 articoli, Francia e Germania, «convinte», si legge nell'introduzione, «che sia giunto il momento di elevare le loro relazioni bilaterali a un livello superiore», dicono addio al sogno europeo e procedono «mano nella mano» (come ha poeticamente commentato Angela Merkel), verso il futuro.
Il tentativo di dare una dimensione «storica» al trattato, che rilancia il contratto dell'Eliseo, che nel 1963 fu firmato da Konrad Adenauer e Charles de Gaulle, sta nella richiesta di ammettere la Germania (Paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale) nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, considerata «una priorità della diplomazia franco-tedesca». Il resto è un fulgido esempio di arrocco: Parigi e Berlino si chiudono a riccio, probabilmente in previsione della probabile affermazione delle forze populiste e sovraniste alle prossime elezioni europee.
Vediamo i punti salienti del trattato.
EUROPA
«I due Stati si consultano regolarmente a tutti i livelli prima delle principali scadenze europee, cercando di stabilire posizioni comuni e di concordare i discorsi coordinati dei loro ministri». Succede da sempre, ma ora è scritto nero su bianco.
SICUREZZA
«I due Stati», recita l'articolo 4, «si prestano assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la forza armata, in caso di aggressione armata contro i loro territori. Sostengono la più stretta cooperazione possibile tra le loro industrie della difesa sulla base della fiducia reciproca. Entrambi i Paesi svilupperanno un approccio comune alle esportazioni di armi in relazione a progetti comuni. I due Stati stabiliscono il Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza come organo politico per gestire questi reciproci impegni. Questo Consiglio si riunirà al più alto livello a intervalli regolari».
Per la Merkel, il trattato è un passo in avanti «verso la creazione di un futuro esercito europeo». Leggendo il documento, e l'auspicio della cancelliera tedesca sulla costituzione di una «comune industria militare», sembra più un passo avanti verso la creazione di un esercito franco-tedesco come nocciolo fondativo di un eventuale sviluppo continentale.
«I due Stati», recita l'articolo 11, «promuovono il collegamento in rete dei loro sistemi di istruzione».
COOPERAZIONE
«I due Stati», recita l'articolo 13, «intendono facilitare la rimozione degli ostacoli nei territori di confine al fine di attuare progetti transfrontalieri e facilitare la vita quotidiana degli abitanti di questi territori».
Qui c'è la parte più concreta del Trattato di Aquisgrana, quella che riguarda la «grana». «I due Stati», si legge all'articolo 20, «stanno approfondendo l'integrazione delle loro economie al fine di stabilire una zona economica franco-tedesca con regole comuni. Il Consiglio economico-finanziario franco-tedesco promuove l'armonizzazione bilaterale della loro legislazione, in particolare nel campo del diritto commerciale, e coordina regolarmente le politiche economiche tra la Repubblica francese e la Repubblica federale di Germania per promuovere la convergenza tra i due Stati e migliorare la competitività delle loro economie. I due Stati», prosegue il testo, «hanno istituito un Consiglio di esperti economici franco-tedeschi». Germania e Francia, secondo la Deutsche presse-agentur, si sarebbero accordate su un elenco di 15 progetti da implementare subito. Fra questi ci sarebbero progetti ferroviari per le zone di confine, un impegno comune per la regolamentazione degli standard Ue sui servizi finanziari e l'istituzione di un gruppo di lavoro di alto livello sulla politica energetica. Un dossier già aperto, comunque, c'è: riguarda la fusione tra la divisione ferroviaria della tedesca Siemens e la francese Almstom, per dar vita a un gigante dei binari.
ORGANIZZAZIONE
«Le riunioni tra i governi dei due Stati», recita l'articolo 23, «hanno luogo almeno una volta all'anno, alternativamente nella Repubblica francese e nella Repubblica federale di Germania. Il Consiglio dei ministri franco-tedesco adotta un programma pluriennale di progetti di cooperazione. I segretari generali per la cooperazione franco-tedesca incaricati di preparare queste riunioni controllano l'attuazione di questo programma e riferiscono al Consiglio dei ministri. Un membro del governo di uno dei due Stati», si legge all'articolo 25, «partecipa, almeno una volta al trimestre, al Consiglio dei ministri dell'altro Stato».
Anche Salvini va «à la guerre», Conte isolato
«Il problema dei migranti ha tante cause: in Africa c'è chi sottrae ricchezza al continente, e la Francia è tra questi». Ieri il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha impugnato lo spadone della polemica con Parigi, e ha rinfocolato così la querelle accesa domenica dai vertici del Movimento 5 stelle sull'uso «colonialistico» del franco Cfa (la sigla sta per «Comunità finanziaria africana»): la moneta battuta dalla Banque de France che 14 Stati africani hanno dovuto adottare nel dicembre 1945 e che Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista hanno accusato di essere usata da Parigi come strumento d'impoverimento del continente.
Nelle parole di Salvini, però, lo scontro ieri si è alzato di livello e si è spostato geograficamente dall'Africa centrale alla Libia: in quel Paese, ha dichiarato, «la Francia ha interessi opposti a quelli italiani, e non ha alcun interesse a stabilizzare la situazione». E ha aggiunto che «comunque Parigi ha poco da arrabbiarsi, perché ha respinto migliaia di migranti, comprese donne e bambini, alla frontiera. E quindi io lezioni di umanità e generosità dal presidente Emmanuel Macron non ne prendo».
Rischia insomma di peggiorare la crisi diplomatica che lunedì sera aveva visto convocata al Quai d'Orsay l'ambasciatrice italiana a Parigi, Teresa Castaldo. Del resto, ieri il commissario europeo agli Affari economici, il francese Pierre Moscovici, si è inevitabilmente schierato con Macron criticando le parole di Salvini come «ostili, molto inappropriate e perfino assurde». Certo, le malelingue sottolineano che in questo momento quel che più preme a Moscovici sia cercare la benevolenza di Macron per farsi dare la presidenza della Corte dei conti francese al termine del suo incarico a Bruxelles.
È vero che ieri da parte italiana, se si esclude Salvini, è venuta una salva di dichiarazioni pacifiche. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha inneggiato alla «nostra storica amicizia con la Francia e con il popolo francese», augurandosi che il rapporto resti «forte e saldo a dispetto di qualsiasi discussione politica». Lo stesso Di Maio ha cercato di placare gli animi: «Si vuole far passare il dibattito di questi giorni sul franco Cfa come un attacco dell'Italia al popolo francese» ha scritto sui social. «Sciocchezze: il popolo francese è nostro amico. Infatti il dibattito sul franco Cfa va avanti da anni anche in Francia, ed è anche nelle rivendicazioni del programma dei gilet gialli».
Ma l'apparizione della parola «Libia» sulla bocca di Salvini, sempre da ieri, lascia ipotizzare che lo scontro non sia destinato a spegnersi, e anzi possa accendersi ancora di più. La «guerra libica» tra Roma e Parigi, del resto, è aperta almeno dal marzo del 2011, quando l'allora presidente francese Nicholas Sarkozy lanciò un attacco aereo contro le forze terrestri di Muhammar Gheddafi a Bengasi, obbligando poi anche il recalcitrante Silvio Berlusconi a partecipare alla missione per detronizzare il dittatore.
Quell'intervento, così insistentemente voluto da Sarkozy, mirava a ben altro che alla democrazia (e del resto s'è visto com'è finita quell'avventura bellica: con la disgregazione della Libia e un disastro sociale e politico). Da allora, infatti, la francese Total cerca di allargarsi nelle acque libiche soprattutto a spese dell'Eni, che sotto Gheddafi controllava quasi il 90% delle estrazioni di gas e di petrolio. Prima del 2011, la Libia riusciva a produrre 2 milioni di barili di petrolio al giorno, oggi è scesa a 500.000: secondo il Sole 24 Ore, però, ancora nel 2017 l'Eni continuava a essere il primo estrattore, con 384.000 barili al giorno, mentre i francesi si fermavano a 31.000. Ma da quasi due anni, spalleggiata da Macron, la Total ha cominciato a espandersi. Nel marzo 2018, per 450 milioni di dollari, s'è fatta vendere dalla statunitense Marathon Oil la sua quota del 16% nel ricco giacimento di Waha, a sud-est di Sirte, capace di produrre in totale sui 300 mila barili al giorno.
Ma queste sono scaramucce. La vera guerra libica si sta giocando sulla sopravvivenza della National oil corporation, la compagnia petrolifera nazionale che oggi possiede metà del petrolio del Paese. Il futuro della Noc è legato all'integrità statuale della Libia, un obiettivo per cui oggi spinge soprattutto l'Italia, anche allo scopo di arginare i traffici di migranti. Per questo Salvini oggi parla degli interessi francesi in Libia definendoli «contrari» a quelli italiani, e sostiene che Macron non abbia tra le priorità una «stabilizzazione del Paese». Perché giocando proprio sulle divisioni tra il governo legittimo di Fayez al Serraj a Tripoli, (riconosciuto dall'Onu e sostenuto dall'Italia), e il rivale governo del generale Khalifa Haftar in Cirenaica (appoggiato dalla Francia), in realtà Macron e la Total puntano a rompere in due il Paese per arrivare alla creazione di due distinti enti di gestione del petrolio, e riuscire così a spodestare l'Eni. A Parigi la chiamano «géopolitique». A Roma si sono messi a definirlo «colonialismo». La parola è rude, ma qualche senso forse ce l'ha.
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Il seggio Onu con Berlino è lo specchietto per le allodole. Il trattato di Aquisgrana, in realtà, permette ai due Paesi di scavalcare Bruxelles. Il dossier più caldo: l'armata comune e la fusione strategica Siemens-Alstom.I due vicepremier uniti contro la Francia. Mentre Luigi Di Maio mette i gilet gialli nel fronte contrario al Cfa, il leghista punta l'economia: «Parigi impoverisce l'Africa». E ricorda l'attivismo anti Eni di Total in Libia. Al premier tocca fare il paciere: «Francia storica amica».Lo speciale contiene due articoli.«E ci fu prima un tempo i Galli superavano i Germani in valore», scriveva Giulio Cesare nel De bello Gallico. Un paio di millenni dopo, con i Germani che hanno ribaltato la situazione, il trattato di Aquisgrana, firmato ieri da Angela Merkel e Emmanuel Macron, unisce tedeschi e francesi in un patto che sostanzialmente fa calare il sipario su ogni ipotesi di vera integrazione europea, con Parigi che spinge per una difesa comune e Berlino che punta all'«annessione» economica della Francia. Merkel e Macron hanno sottoscritto il trattato («contro populismi e nazionalismi») alla presenza dei presidenti della Commissione europea, Jean-Claude Juncker, e del Consiglio europeo, Donald Tusk: i vertici istituzionali dell'Unione benedicono un accordo che rappresenta un fattore positivo per tutta l'Europa sotto almeno un aspetto, il crollo del muro dell'ipocrisia. In 16 pagine, e 28 articoli, Francia e Germania, «convinte», si legge nell'introduzione, «che sia giunto il momento di elevare le loro relazioni bilaterali a un livello superiore», dicono addio al sogno europeo e procedono «mano nella mano» (come ha poeticamente commentato Angela Merkel), verso il futuro.Il tentativo di dare una dimensione «storica» al trattato, che rilancia il contratto dell'Eliseo, che nel 1963 fu firmato da Konrad Adenauer e Charles de Gaulle, sta nella richiesta di ammettere la Germania (Paese sconfitto nella Seconda guerra mondiale) nel Consiglio di sicurezza dell'Onu, considerata «una priorità della diplomazia franco-tedesca». Il resto è un fulgido esempio di arrocco: Parigi e Berlino si chiudono a riccio, probabilmente in previsione della probabile affermazione delle forze populiste e sovraniste alle prossime elezioni europee. Vediamo i punti salienti del trattato. EUROPA«I due Stati si consultano regolarmente a tutti i livelli prima delle principali scadenze europee, cercando di stabilire posizioni comuni e di concordare i discorsi coordinati dei loro ministri». Succede da sempre, ma ora è scritto nero su bianco.SICUREZZA«I due Stati», recita l'articolo 4, «si prestano assistenza con tutti i mezzi a loro disposizione, compresa la forza armata, in caso di aggressione armata contro i loro territori. Sostengono la più stretta cooperazione possibile tra le loro industrie della difesa sulla base della fiducia reciproca. Entrambi i Paesi svilupperanno un approccio comune alle esportazioni di armi in relazione a progetti comuni. I due Stati stabiliscono il Consiglio franco-tedesco di difesa e sicurezza come organo politico per gestire questi reciproci impegni. Questo Consiglio si riunirà al più alto livello a intervalli regolari». Per la Merkel, il trattato è un passo in avanti «verso la creazione di un futuro esercito europeo». Leggendo il documento, e l'auspicio della cancelliera tedesca sulla costituzione di una «comune industria militare», sembra più un passo avanti verso la creazione di un esercito franco-tedesco come nocciolo fondativo di un eventuale sviluppo continentale.«I due Stati», recita l'articolo 11, «promuovono il collegamento in rete dei loro sistemi di istruzione». COOPERAZIONE «I due Stati», recita l'articolo 13, «intendono facilitare la rimozione degli ostacoli nei territori di confine al fine di attuare progetti transfrontalieri e facilitare la vita quotidiana degli abitanti di questi territori». Qui c'è la parte più concreta del Trattato di Aquisgrana, quella che riguarda la «grana». «I due Stati», si legge all'articolo 20, «stanno approfondendo l'integrazione delle loro economie al fine di stabilire una zona economica franco-tedesca con regole comuni. Il Consiglio economico-finanziario franco-tedesco promuove l'armonizzazione bilaterale della loro legislazione, in particolare nel campo del diritto commerciale, e coordina regolarmente le politiche economiche tra la Repubblica francese e la Repubblica federale di Germania per promuovere la convergenza tra i due Stati e migliorare la competitività delle loro economie. I due Stati», prosegue il testo, «hanno istituito un Consiglio di esperti economici franco-tedeschi». Germania e Francia, secondo la Deutsche presse-agentur, si sarebbero accordate su un elenco di 15 progetti da implementare subito. Fra questi ci sarebbero progetti ferroviari per le zone di confine, un impegno comune per la regolamentazione degli standard Ue sui servizi finanziari e l'istituzione di un gruppo di lavoro di alto livello sulla politica energetica. Un dossier già aperto, comunque, c'è: riguarda la fusione tra la divisione ferroviaria della tedesca Siemens e la francese Almstom, per dar vita a un gigante dei binari. ORGANIZZAZIONE «Le riunioni tra i governi dei due Stati», recita l'articolo 23, «hanno luogo almeno una volta all'anno, alternativamente nella Repubblica francese e nella Repubblica federale di Germania. Il Consiglio dei ministri franco-tedesco adotta un programma pluriennale di progetti di cooperazione. I segretari generali per la cooperazione franco-tedesca incaricati di preparare queste riunioni controllano l'attuazione di questo programma e riferiscono al Consiglio dei ministri. Un membro del governo di uno dei due Stati», si legge all'articolo 25, «partecipa, almeno una volta al trimestre, al Consiglio dei ministri dell'altro Stato». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/super-esercito-affari-e-mani-libere-merkel-e-macron-sposi-per-interesse-2626747832.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="anche-salvini-va-a-la-guerre-conte-isolato" data-post-id="2626747832" data-published-at="1766005431" data-use-pagination="False"> Anche Salvini va «à la guerre», Conte isolato «Il problema dei migranti ha tante cause: in Africa c'è chi sottrae ricchezza al continente, e la Francia è tra questi». Ieri il vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini ha impugnato lo spadone della polemica con Parigi, e ha rinfocolato così la querelle accesa domenica dai vertici del Movimento 5 stelle sull'uso «colonialistico» del franco Cfa (la sigla sta per «Comunità finanziaria africana»): la moneta battuta dalla Banque de France che 14 Stati africani hanno dovuto adottare nel dicembre 1945 e che Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista hanno accusato di essere usata da Parigi come strumento d'impoverimento del continente. Nelle parole di Salvini, però, lo scontro ieri si è alzato di livello e si è spostato geograficamente dall'Africa centrale alla Libia: in quel Paese, ha dichiarato, «la Francia ha interessi opposti a quelli italiani, e non ha alcun interesse a stabilizzare la situazione». E ha aggiunto che «comunque Parigi ha poco da arrabbiarsi, perché ha respinto migliaia di migranti, comprese donne e bambini, alla frontiera. E quindi io lezioni di umanità e generosità dal presidente Emmanuel Macron non ne prendo». Rischia insomma di peggiorare la crisi diplomatica che lunedì sera aveva visto convocata al Quai d'Orsay l'ambasciatrice italiana a Parigi, Teresa Castaldo. Del resto, ieri il commissario europeo agli Affari economici, il francese Pierre Moscovici, si è inevitabilmente schierato con Macron criticando le parole di Salvini come «ostili, molto inappropriate e perfino assurde». Certo, le malelingue sottolineano che in questo momento quel che più preme a Moscovici sia cercare la benevolenza di Macron per farsi dare la presidenza della Corte dei conti francese al termine del suo incarico a Bruxelles. È vero che ieri da parte italiana, se si esclude Salvini, è venuta una salva di dichiarazioni pacifiche. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha inneggiato alla «nostra storica amicizia con la Francia e con il popolo francese», augurandosi che il rapporto resti «forte e saldo a dispetto di qualsiasi discussione politica». Lo stesso Di Maio ha cercato di placare gli animi: «Si vuole far passare il dibattito di questi giorni sul franco Cfa come un attacco dell'Italia al popolo francese» ha scritto sui social. «Sciocchezze: il popolo francese è nostro amico. Infatti il dibattito sul franco Cfa va avanti da anni anche in Francia, ed è anche nelle rivendicazioni del programma dei gilet gialli». Ma l'apparizione della parola «Libia» sulla bocca di Salvini, sempre da ieri, lascia ipotizzare che lo scontro non sia destinato a spegnersi, e anzi possa accendersi ancora di più. La «guerra libica» tra Roma e Parigi, del resto, è aperta almeno dal marzo del 2011, quando l'allora presidente francese Nicholas Sarkozy lanciò un attacco aereo contro le forze terrestri di Muhammar Gheddafi a Bengasi, obbligando poi anche il recalcitrante Silvio Berlusconi a partecipare alla missione per detronizzare il dittatore. Quell'intervento, così insistentemente voluto da Sarkozy, mirava a ben altro che alla democrazia (e del resto s'è visto com'è finita quell'avventura bellica: con la disgregazione della Libia e un disastro sociale e politico). Da allora, infatti, la francese Total cerca di allargarsi nelle acque libiche soprattutto a spese dell'Eni, che sotto Gheddafi controllava quasi il 90% delle estrazioni di gas e di petrolio. Prima del 2011, la Libia riusciva a produrre 2 milioni di barili di petrolio al giorno, oggi è scesa a 500.000: secondo il Sole 24 Ore, però, ancora nel 2017 l'Eni continuava a essere il primo estrattore, con 384.000 barili al giorno, mentre i francesi si fermavano a 31.000. Ma da quasi due anni, spalleggiata da Macron, la Total ha cominciato a espandersi. Nel marzo 2018, per 450 milioni di dollari, s'è fatta vendere dalla statunitense Marathon Oil la sua quota del 16% nel ricco giacimento di Waha, a sud-est di Sirte, capace di produrre in totale sui 300 mila barili al giorno. Ma queste sono scaramucce. La vera guerra libica si sta giocando sulla sopravvivenza della National oil corporation, la compagnia petrolifera nazionale che oggi possiede metà del petrolio del Paese. Il futuro della Noc è legato all'integrità statuale della Libia, un obiettivo per cui oggi spinge soprattutto l'Italia, anche allo scopo di arginare i traffici di migranti. Per questo Salvini oggi parla degli interessi francesi in Libia definendoli «contrari» a quelli italiani, e sostiene che Macron non abbia tra le priorità una «stabilizzazione del Paese». Perché giocando proprio sulle divisioni tra il governo legittimo di Fayez al Serraj a Tripoli, (riconosciuto dall'Onu e sostenuto dall'Italia), e il rivale governo del generale Khalifa Haftar in Cirenaica (appoggiato dalla Francia), in realtà Macron e la Total puntano a rompere in due il Paese per arrivare alla creazione di due distinti enti di gestione del petrolio, e riuscire così a spodestare l'Eni. A Parigi la chiamano «géopolitique». A Roma si sono messi a definirlo «colonialismo». La parola è rude, ma qualche senso forse ce l'ha.
Emmanuel Macron (Ansa)
La sola istanza che ha una parvenza di rappresentanza è il Palamento europeo. Così il Mercosur, il mega accordo commerciale con Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, più annessi, che deve creare un’area di libero scambio da 700 milioni di persone che Ursula von der Leyen vuole a ogni costo per evitare che Javier Milei faccia totalmente rotta su Donald Trump, che il Brasile si leghi con la Cina e che l’Europa dimostri la sua totale ininfluenza, rischia di crollare e di portarsi dietro, novello Sansone, i filistei dell’eurocrazia.
Il Mercosur ieri ha fatto due passi indietro. Il Parlamento europeo con ampia maggioranza (431 voti a favore Pd in prima fila, 161 contrari e 70 astensioni, Ecr-Fratelli d’Italia fra questi, i lepenisti e la Lega hanno votato contro) ha messo la Commissione con le spalle al muro. Il Mercosur è accettabile solo se ci sono controlli stringenti sui requisiti ambientali, di benessere animale, di salubrità, di rispetto etico e di sicurezza alimentare dei prodotti importati (è la clausola di reciprocità), se c’è una clausola di salvaguardia sulle importazioni di prodotti sensibili tra cui pollame o carne bovina. Se l’import aumenta del 5% su una media triennale si torna ai dazi. Le indagini devono essere fatte al massimo in tre mesi e la sospensione delle agevolazioni deve essere immediata. Tutti argomenti che la Von der Leyen mai ha inserito nell’accordo. Ma sono comunque sotto il minimo sindacale richiesto da Polonia, Ungheria e Romania che sono contrarie da sempre e richiesto ora dalla Francia che ha detto: «Così com’è l’accordo non è accattabile».
Sono le stesse perplessità dell’Italia. Oggi la Commissione dovrebbe incontrare il Consiglio europeo per avviare la trattativa e andare, come vuole Von der Leyen, alla firma definitiva prima della fine dell’anno. La baronessa aveva già prenotato il volo per Rio per domani, ma l’hanno bloccata all’imbarco! Perché Parigi chiede la sospensione della trattativa. La ragione è che gli agricoltori francesi stanno bloccando il Paese: ieri le quattro principali autostrade sono state tenute in ostaggio da trattori che sono tornati a scaricare il letame sulle prefetture. Il primo ministro Sébastien Lecornu ha tenuto un vertice sul Mercosur incassando un no deciso da Jean-Luc Mélenchon, da Marine Le Pen ma anche dai repubblicani di Bruno Retailleau che è anche ministro dell’interno.
Domani, peraltro, a Bruxelles sono attesi almeno diecimila agricoltori- la Coldiretti è la prima a sostenere questa manifestazione - che con un migliaio di trattori assedieranno Bruxelles. L’Italia riflette, ma è invitata a fare minoranza di blocco dalla Polonia; la Francia vuole una mano per il rinvio. Certo che il Mercosur divide: la Coldiretti ha rimproverato il presidente di Federalimentare Paolo Mascarino che invece vuole l’accordo (anche l’Unione italiana vini spinge) di tradire la causa italiana. Chi invece vuole il Mercosur a ogni costo sono la Germania che deve vendere le auto che non smercia più (grazie al Green deal), la Danimarca che ha la presidenza di turno e vuole lucrare sull’import, l’Olanda che difende i suoi interessi commerciali e finanziari.
C’è un’evidente frattura tra l’Europa che fa agricoltura e quella che vuole usare l’agricoltura come merce di scambio. Le prossime ore potrebbero essere decisive non solo per l’accordo - comunque deve passare per la ratifica finale dall’Eurocamera - ma per i destini dell’Ue.
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Ursula von der Leyen (Ansa)
Questo allentamento delle norme consente che nuove auto con motore a combustione interna possano ancora essere immatricolate nell’Ue anche dopo il 2035. Non sono previste date successive in cui si arrivi al 100% di riduzione delle emissioni. Il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha naturalmente magnificato il ripensamento della Commissione, affermando che «mentre la tecnologia trasforma rapidamente la mobilità e la geopolitica rimodella la competizione globale, l’Europa rimane in prima linea nella transizione globale verso un’economia pulita». Ursula 2025 sconfessa Ursula 2022, ma sono dettagli. A questo si aggiunge la dichiarazione del vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné, che ha definito il pacchetto «un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea». Peccato che, in conferenza stampa, a nessuno sia venuto in mente di chiedere a Séjourné perché si sia arrivati alla necessità di un’ancora di salvezza per l’industria automobilistica europea. Ma sono altri dettagli.
L’autorizzazione a proseguire con i motori a combustione (inclusi ibridi plug-in, mild hybrid e veicoli con autonomia estesa) è subordinata a condizioni stringenti, perché le emissioni di CO2 residue, quel 10%, dovranno essere compensate. I meccanismi di compensazione sono due: 1) utilizzo di e-fuel e biocarburanti fino a un massimo del 3%; 2) acciaio verde fino al 7% delle emissioni. Il commissario Wopke Hoekstra ha spiegato infatti che la flessibilità è concessa a patto che sia «compensata con acciaio a basse emissioni di carbonio e l’uso di combustibili sostenibili per abbattere le emissioni».
Mentre Bruxelles celebra questa minima flessibilità come una vittoria per l’industria, il mondo reale offre un quadro ben più drammatico. Ieri Volkswagen ha ufficialmente chiuso la sua prima fabbrica tedesca, la Gläserne Manufaktur di Dresda, che produceva esclusivamente veicoli elettrici (prima la e-Golf e poi la ID.3). Le ragioni? Il rallentamento delle vendite di auto elettriche. La fabbrica sarà riconvertita in un centro di innovazione, lasciando 230 dipendenti in attesa di ricollocamento. Dall’altra parte dell’Atlantico, la Ford Motor Co. ha annunciato che registrerà una svalutazione di 19,5 miliardi di dollari legata al suo business dei veicoli elettrici. L’azienda ha perso 13 miliardi nel suo settore Ev dal 2023, perdendo circa 50.000 dollari per ogni veicolo elettrico venduto l’anno scorso. Ford sta ora virando verso ibridi e veicoli a benzina, eliminando il pick-up elettrico F-150 Lightning.
La crisi dell’auto europea non si risolve certo con questa trovata dell’ultima ora. Nonostante gli sforzi e i supercrediti di CO2 per le piccole auto elettriche made in Eu, la domanda di veicoli elettrici è debole. Questa nuova apertura, ottenuta a fatica, non sarà sufficiente a salvare il settore automobilistico europeo di fronte alla concorrenza cinese e al disinteresse dei consumatori. Sarebbe stata più opportuna un’eliminazione radicale e definitiva dell’obbligo di zero emissioni per il 2035, abbracciando una vera neutralità tecnologica (che includa ad esempio i motori a combustione ad alta efficienza di cui parlava anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz). «La Commissione oggi fa un passo avanti verso la razionalità, verso il mercato, verso i consumatori ma servirà tanto altro per salvare il settore. Soprattutto servirà una Commissione che non chiuda gli occhi davanti all’evidenza», ha affermato l’assessore allo Sviluppo economico di Regione Lombardia Guido Guidesi, anche presidente dell’Automotive Regions Alliance. La principale federazione automobilistica tedesca, la Vda, ha detto invece che la nuova linea di Bruxelles ha il merito di riconoscere «l’apertura tecnologica», ma è «piena di così tanti ostacoli che rischia di essere inefficace nella pratica». Resta il problema della leggerezza con cui a Bruxelles si passa dalla definizione di regole assurde e impraticabili al loro annacquamento, dopo che danni enormi sono stati fatti all’industria e all’economia. Peraltro, la correzione di rotta non è affatto un liberi tutti. La riduzione del 100% delle emissioni andrà comunque perseguita al 90% con le auto elettriche. «Abbiamo valutato che questa riduzione del 10% degli obiettivi di CO2, dal 100% al 90%, consentirà flessibilità al mercato e che circa il 30-35% delle auto al 2035 saranno non elettriche, ma con tecnologie diverse, come motori a combustione interna, ibridi plug-in o con range extender» ha detto il commissario europeo ai Trasporti Apostolos Tzizikostas in conferenza stampa. Può darsi che sarà così, ma il commissario greco si è dimenticato di dire che quasi certamente si tratterà di auto cinesi.
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(Totaleu)
Lo ha dichiarato l'europarlamentare di Fratelli d'Italia durante un'intervista a margine dell’evento «Con coraggio e libertà», dedicato alla figura del giornalista e reporter di guerra Almerigo Grilz.
Andrea Crisanti (Imagoeconomica)
In particolare, la riforma abolisce l’Abilitazione scientifica nazionale, una procedura di valutazione avviata dal ministero dell’Università e della Ricerca per accertare l’idoneità scientifica dei candidati a ricoprire il ruolo di professore universitario ordinario o associato, senza la quale non si può partecipare a concorsi o rispondere a chiamate nei ruoli di professore associato o ordinario presso le università italiane. Una commissione di cinque docenti decide se il candidato può ricevere o no l’abilitazione: tutto viene deciso secondo logiche di appartenenza a questa o quella consorteria.
Intervenendo in aula su questa riforma, il senatore Crisanti ha pronunciato un discorso appassionato, solenne: «Lo dico chiaramente in quest’Aula», ha scandito Crisanti, «io, in 40 anni, non sono venuto a conoscenza di un singolo concorso di cui non si sapesse il vincitore prima e non c’è un singolo docente che mi abbia mai smentito. Questa è la situazione dei nostri atenei oggi. La maggior parte del nostro personale universitario ha preso la laurea all’università, ha fatto il dottorato nella stessa università, ha fatto il ricercatore, l’associato e infine il professore. Questo meccanismo di selezione ha avuto un impatto devastante sulla qualità della ricerca e dell’insegnamento nelle nostre università». Difficile non essere d’accordo con Crisanti, che però ha trascurato, nel corso del suo discorso, un particolare: suo figlio Giulio dall’ottobre 2022 è dottorando in fisica e astronomia all’Università del Bo di Padova, la stessa dove il babbo insegnava quando ha superato la selezione.
Ora, nessuno mette in dubbio le capacità di Crisanti jr, laureato in astrofisica all’Università di Cambridge, ma la coincidenza è degna di nota. Lo stesso Giulio, intervistato nel marzo 2022 dal Corriere del Veneto, affrontava l’argomento: «Ha deciso di fare il dottorato a Padova perché suo padre era già qui?», chiedeva l’intervistatore. «No, l’avrei evitato più che volentieri», rispondeva Crisanti jr, «ma ho fatto tanti concorsi in Italia e l’unico che ho passato è stato quello del Bo». Ma come mai il giovane Crisanti veniva intervistato? Perché ha seguito le orme di babbo Andrea anche in politica: nel 2022 si è candidato alle elezioni comunali di Padova, nella lista Coalizione civica, a sostegno del sindaco uscente di centrosinistra Sergio Giordani. Il sindaco ha rivinto le elezioni, ma per Giulio Crisanti il bottino è stato veramente magro: ha preso appena 25 preferenze.
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