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Sono i Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia ad ospitare (sino all’8 febbraio 2026) una grande retrospettiva dedicata a Margaret Bourke-White (1924-1971), la grande fotografa statunitense celebre per i suoi reportage di guerra e sull’industria americana. In mostra oltre 120 immagini, che ne ripercorrono la vita avventurosa e le tappe salienti della sua brillante carriera.
Affascinante, colta, libera, ambiziosa,indipendente, irrequieta e anticonformista, tutto questo era Margaret Bourke-White, prima donna fotografa del celebre settimanale Life ( sua era la foto della diga di Fort Peck, copertina del primo numero della rivista, datato 23 novembre 1936) , prima fotografa straniera ad avere il permesso di scattare foto nell’ ex Unione Sovietica e prima fotoreporter di guerra ad essere accreditata al pool fotografico dell'esercito americano ai tempi del secondo conflitto mondiale.
A Margaret Bourke-White non bastava partecipare, voleva vincere. Non bastava «primeggiare », voleva sempre essere la prima… E di primati, nella sua trentennale e rocambolesca carriera (interrotta solo dal Parkinson che la colpì non ancora cinquantenne), ne conquistò molti. Nel clima di rinascita che seguì la grande depressione del ’29, la Bourke-White riuscì a ritrarre con occhio poetico, ma nel contempo realista, fabbriche e grattacieli, immortalando in chiave modernista (a tratti quasi cubista) la maestosità della fervente architettura produttiva americana: fu questa una svolta professionale importante, non solo per lei, ma per tutto il genere femminile, in precedenza sottovalutato e considerato poco «adatto » a questo tipo di fotografia: affascinata dal progresso e dalla tecnologia, in più occasioni sottolineò che «l'industria è il vero luogo dell'arte» e che «i ponti, le navi, le officine hanno una bellezza inconscia e riflettono lo spirito del momento».
Ma se i suoi «scatti industriali» l’aiutarono a farsi conoscere e ad imporsi nel mondo editoriale e fotografico (era il 1929 quando l'editore Henry Luce la invitò a contribuire alla nascita della rivista illustrata Fortune ), fu come inviata di guerra per Life che la Bourke-White divenne leggenda: spericolata e senza paura, al seguito dell’esercito americano fu in prima linea sui fronti europei, sovietici e africani; nel 1943 fu la prima donna ad accompagnare i caccia statunitensi, fotografando quello che fu uno dei più violenti attacchi all'esercito tedesco; vide l’orrore dei campi di concentramento nazisti, ( su tutti Buchenwald, dove entrò il giorno dopo la liberazione dei prigionieri) e fu testimone dell’avanzata americana in Italia, dove immortalò – fra le tante situazioni – anche i soldati statunitensi con sci e lenzuoli bianchi, indossati per mimetizzarsi e muoversi con più facilità sulla neve dell’ Appennino Tosco Emiliano.
Convinta che «il fascismo non avrebbe preso il potere in Europa se ci fosse stata una stampa veramente libera che potesse informare la gente invece di ingannarla con false promesse», fece del fotogiornalismo la sua missione di vita, realizzando intensi reportage anche in India, Pakistan e in Corea, squassata - tra il 1950 e il 1953 - da quella sanguinosa guerra che divise per sempre il Paese. Straordinaria anche nelle « foto di posa» per quella sua capacità di trasformare anche le persone più umili in attori, la Bourke-White ritrasse minatori e operai, ma anche personalità come Stalin ( fu lei a realizzarne il primo, e unico, ritratto non ufficiale con autorizzazione a circolare anche fuori dall’URSS…) e Gandhi, che ifotografò nel 1946 intento nella lettura. Maestra nell’uso del bianco e nero, nell’ultima fase della sua carriera sperimentò anche il colore, documentando ( e denunciando) con scatti forti e intensi apartheid , disuguaglianze e razzismo, dando voce a poveri ed emarginati, dagli Stati Uniti al Sud Africa. Realtà tragiche, di ingiustizie e miseria, rese ancora più drammatiche dal confronto con l’ abbondanza della società consumistica, rappresentata in alcuni scatti dell’artista da tavole imbandite e dalla bevanda americana per eccellenza, la Coca-Cola…
Fotoreporter, ritrattista, fotografa di industria e architettura, emancipata e libera, ma di grande sensibilità e con un lato romantico, Margaret Bourke-White è stata donna e artista di profonda umanità e di incredibile forza, come racconta la bella mostra allestita sino all’8 febbraio 2026 nei Chiostri di San Pietro a Reggio Emilia , un’esposizione che attraverso oltre 120 immagini ne ripercorre il lavoro, la vita e l’esperienza umana , regalando al visitatore un ritratto a tutto tondo di un’attenta testimone del suo tempo, capace di superare barriere e confini di genere.
La Mostra
Curato da Monica Poggi in collaborazione con CAMERA – Centro Italiano per la Fotografia, il percorso espositivo si snoda in 6 ricche sezioni tematiche, che spaziano dai primi servizi per Life sino agli scatti della maturità, con immagini che testimoniano la capacità della Bourke-White di passare dall’imponenza industriale alla vulnerabilità dell’essere umano.
Per la ricchezza, il significato e la quantità degli scatti esposti, è davvero difficile scegliere i migliori, perché la fotografia, come l’arte in generale, è sempre soggettiva, legata alla sensibilità, al pensiero, al gusto di ognuno: tuttavia, giudico fra i più interessanti la notissima Diga di Fort Peck, il Mohandas Karamchand Gandhi mentre legge vicino a un arcolaio, Soldato americano che chiacchiera con una ragazza tedesca e Due minatori tedeschi della Regione della Ruhr. E poi, splendido e iconico, il ritratto che la immortala in piedi, spavalda e coraggiosa, davanti al bombardiere Flying Fortress, a bordo del quale scattò fotografie di guerra durante l’attacco statunitense su Tunisi nel 1943.
A dare valore aggiunto alla mostra, per approfondire il mondo di Margaret Bourke-White la Fondazione Palazzo Magnani propone anche un ciclo di incontri pubblici (da novembre a febbraio) con alcuni tra i più autorevoli specialisti del cosiddetto Secolo americano: un’occasione unica per esplorare i caratteri storici, culturali, ideologici, economici e sociologici che hanno segnato il Novecento e che ancora oggi influenzano profondamente la cultura e la società contemporanea.
Dal Cubismo all’Art Brut, a Palazzo Zabarella di Padova in mostra (sino al 25 gennaio 2026) oltre 60 opere di 30 diversi artisti delle avanguardie del primo e del secondo dopoguerra, tutti provenienti dal LaM di Lille. Fra capolavori noti e meno conosciuti, anche cinque dipinti di Pablo Picasso e sei straordinarie tele di Amedeo Modigliani.
Un percorso polifonico quello della mostra «Modigliani Picasso e le voci della Modernità dal Museo LaM », un’esposizione che è un viaggio attraverso la modernità artistica del Novecento, scandito da capolavori che spaziano dal cubismo al surrealismo, dall'astrattismo all'Art Brut e che vede come protagonisti principali due figure fondamentali dell’arte moderna, due Geni che hanno rivoluzionato il volto della pittura del Novecento: Amedeo Modigliani (rappresentato da sei opere, tra cui Nudo seduto con camicia, il Ragazzo dai capelli rossi e Maternità) e Pablo Picasso (presente con cinque dipinti, fra cui Pesci e bottiglie e Donna con cappello). Due artisti pressochè coetanei (Picasso nacque nel 1881, Modigliani nel 1884), ma totalmente diversi per personalità e stile di vita, che si incrociarono qualche volta nell'ambiente bohémien parigino, che sicuramente si stimavano, ma che vissero un rapporto difficile, segnato da una sottile rivalità artistica e personale. Una cosa però li accomunava: una straordinaria libertà creativa che li spingeva a cercare nuove forme espressive, nuovi modi per interpretare la realtà e, soprattutto, le inquietudini interiori dell’uomo e della società moderna. Un mondo di cui Modigliani cercava lo spirito e che Picasso, a poco a poco, divise e suddivise in segmenti e asimmetrie, per poi ricomporlo in forme nuove.
Accanto a Modì e al Genio spagnolo, ad approfondire i diversi linguaggi e le molteplici tensioni dell'arte del secolo scorso le opere di artisti delle avanguardie e post-avanguardie storiche, da Georges Braque (insieme a Pablo Picasso iniziatore del cubismo) a Joan Mirò (in mostra con Testa di grande musicista, famosa tela datat 1931), da Alexander Calder a Henri Laurens, passando per l’arte visionaria di Auguste Lesage e Victor Simon e per artisti autodidatti e naïf come Gertrude O'Brady e Camille Bombois (straordinaria la sua Giovane contadina con un mazzo di papaveri ).
Nelle sei sezioni della mostra padovana trova spazio anche l’ Art Brut, termine coniato nel 1945 dall'artista francese Jean Dubuffet per definire quell’arte grezza e pura, spontanea e autentica, non contaminata da regole accademiche e culturali, figlia di artisti non convenzionali, spesso emarginati, detenuti o con problemi psichiatrici: a rappresentare l’«Arte Grezza » a Palzzo Zabarella, oltre a Pane filosofico del già citato Dubuffet, due sculture in granito di Antoine Rabany e una scultura in legno di Auguste Forestier, l’artista che creava le sue opere con gli oggetti e i materiali che reperiva nell’ospedale psichiatrico di St-Alban, dove trascorse la maggior parte della sua tormentata vita.
Il LaM e la collezione Roger Dutilleul
Le oltre 60 opere in mostra a Palazzo Zabarella provengono tutte dal del LaM, Lille Métropole Musée d'art moderne, d'art contemporain et d'art brut, creato nel 1983 e legato al lascito di Geneviève e Jean Masurel , membri di una nota famiglia di produttori tessili del nord della Francia. Un lascito di straordinario valore e importanza, che comprende le opere acquistate da Jean Masurel e quelle lasciategli in eredità dallo zio Roger Dutilleul (1872-1956), industriale appassionato d'arte, grande sostenitore del cubismo e fra i più importanti collezionisti di Modigliani (non a caso, rappresentato in mostra da un’intera sezione…), che Dutilleul conobbe di persona nel 1913. Oltre che dell’importante lascito Masurel, rappresentativo dei principali movimenti artistici della prima metà del Novecento in Francia, nel 1999 il LaM si è ulteriormente arricchito di una donazione di oltre 3.500 opere d'art brut , donate al museo dall'associazione L'Aracine: grazie a questi lasciti, il LaM è oggi un'istituzione chiave sulla scena culturale europea, offrendo un panorama unico dell'arte del XX e XXI secolo.
Da Guttuso a Fontana, passando per De Pisis e Vedova, allo Spazio Arca di Vercelli un’inedita mostra (sino all’11 gennaio 2026) racconta l’Espressionismo italiano attraverso un nucleo significativo di opere realizzate tra il 1920 e il 1945 e appartenenti alla sezione storica della collezione Giuseppe Iannaccone. Tra capolavori noti e lavori mai esposti prima, in mostra anche una giovane voce dell'arte contemporanea: Norberto Spina.
Una mostra davvero importante quella in corso allo Spazio Arca di Vercelli (innovativo e modernissimo polo culturale situato all'interno della suggestiva ex Chiesa di San Marco), che pone l’accento su uno dei movimenti più potenti e viscerali del Novecento italiano: l’Espressionismo. Ma chi sono gli espressionisti italiani e cosa esprime la loro arte, così distante dagli accademismi e refrattaria ad ogni tipo di costrizione?
L’Espressionismo italiano
Movimento complesso e forse meno conosciuto di altri, l’Espressionismo italiano si snoda nei difficili decenni che vanno dal 1920 al 1945, quando i venti del nascente Regime fascista sfoceranno nella tempesta del secondo conflitto mondiale e l’arte, pur non diventando mai un’ arte di Stato o totalmente propagandistica ( come accadde per esempio nell’ex Unione sovietica e nella Germania nazista), assunse un forte carattere di italianità, celebrativo e retorico. Figura di punta del panorama artistico e intellettuale del tempo Margherita Sarfatti e il movimento artistico del Novevcento, sostenitori di una pittura più figurativa e tradizionale, in contrasto con le avanguardie dell'epoca Futurismo in primis. Ecco. L’Espressionismo italiano, che assunse sfumature diverse a secondo dei vari «Gruppi» di artisti (i Sei di Torino, il Gruppo Corrente di Milano e la Scuola Romana di via Cavour quelli più famosi) nasce proprio in opposizione a questi rigidi stigmatismi e si apre all’Europa, ispirandosi al Der Blaue Reiter tedesco, al Fauvismo francese e ai grandi Maestri come Van Gogh e Picasso. Gli Espressionisti sono essenzialmente artisti liberi: liberi di pensare, liberi di guardare altrove, liberi nei contenuti. Oggetto della loro arte non è il sogno, ma la vita reale, le tensioni interiori, la condizione umana, e i colori intensi un modo per rappresentare la soggettività e trasmettere emozioni e verità profonde, anche quando le figure si deformano, per la gioia o per il dolore.
Guttuso, Fontana, Sassu, Vedova, De Pisis, ma anche Antonietta Raphaël, Fausto Pirandello , Mario Mafai, Carlo Levi e Pietro Martina i più noti (ma non i soli) Espressionisti italiani , tutti ( o quasi) riuniti nella straordinaria mostra vercellese, un’esposizione di altissimo valore che riunisce un importante numero di opere appartenenti alla prestigiosa Collezione Giuseppe Iannaccone, costituita, ad oggi, da circa cinquecento opere: circa centoventicinque pezzi per quanto riguarda l’arte moderna (dal 1920 al 1945) e ben oltre trecentocinquanta lavori di arte contemporanea.
La mostra
Curata da Daniele Fenaroli, la mostra si articola in un percorso espositivo che si sviluppa per nuclei tematici, esplorando il colore come forma di resistenza, il ritratto come ricerca dell'identità e il presente come soglia inquieta della memoria. Tra le opere più significative, l’umanità trasfigurata e deforme di Renato Birolli, le nature morte eloquenti e l’ironia tragica di Pirandello (bellissima la sua Siesta Rustica), Broggini, Ziveri, Valenti e Badodi; autoritratti e ritratti ( Ritratto di Mimise e Ritratto di Antonino Santangelo di Renato Guttuso in assoluto i miei preferiti…) lontani da ogni forma di idealizzazione ma specchio fedele dell’irriducibile complessità umana. Straordinaria, a dominare la terza sezione della mostra, si palesa al visitatore in tutta la sua bellezza La Battaglia dei tre cavalieri (1940-1941) di Aligi Sassu, maestosa scena mitologica caratterizzata da un dinamismo e uno sforzo fisico accentuati, con linee e colori espressivi che suggeriscono un movimento frenetico e una forza travolgente. Evidente il legame con la violenza del conflitto mondiale e l’inutilità della guerra (dove a morire è lo spirito umano e non solo i corpi), sebbene Sassu non l'abbia mai esplicitamente confermato…
A dialogare con Sassu e i grandi Maestri espressionisti una giovane voce del contemporaneo: Norberto Spina
Norberto Spina
Milanese, classe 1995, una laurea all’Accademia di Brera, Spina, la cui poetica si fonda sulla sovrapposizione di memoria personale e collettiva, è presente a Vercelli con una preziosa opera prestata dalla Royal Academy di Londra e opere site specific.
Il suo originale Presente, che rielabora un particolare del Sacrario di Redipuglia voluto da Mussolini nel 1938, si concentra sulla monumentalità del potere, che a distanza di decenni, continua a porci interrogativi. Guardare oggi le opere in mostra, accanto a quelle di Norberto Spina, significa non soltanto recuperare una pagina fondamentale della storia dell’arte italiana, ma anche riconoscere quanto quella stagione parli ancora al nostro presente. Non come immagine passata, ma come un linguaggio vivo e potente, capace di dirci (e insegnarci) ancora molto…


































