2025-06-28
Sa pompia, l’agrume «mostruoso» che non si mangia ma si trasforma
L’antico frutto, ibrido naturale tra cedro e limone, nasce in Sardegna. Ha una caratteristica buccia bitorzoluta e un diametro che raggiunge i 70 cm. Non si può bere così: il succo è troppo acido. Ma sa diventare dolcissimo.La recente candidatura della cucina italiana a Patrimonio dell’umanità Unesco è una ghiotta occasione per valorizzare eccellenze riconosciute quali paste, salumi, pizze e quant’altro. Ma lungo la Penisola, per il turista curioso, c’è molto altro da scoprire, animati da golosa curiosità.Ad esempio nella Sardegna ben conosciuta per i suoi culurgiones (sorta di agnolotti farciti) o le dolci seadas, una bella storia è quella di sa pompia. Un agrume «antico e misterioso» che ha radici secolari nella Baronia, quell’area della Sardegna Nord-orientale compresa tra la marittima Gallura e la selvaggia Barbagia, con capitale ideale la piccola Siniscola. Nella terra dei nuraghi una storia antica che vede popolazioni giunte dall’area costiera per sfuggire alle invasioni barbariche. Un’areale con una forte tradizione legata alla coltivazione agrumicola con diverse varietà di cedri, arance, limoni e… sa pompia. Qua scatta lo Sherlock Holmes gourmet per dare identità a un frutto che non passa certo inosservato, anzi.Come lo ha definito qualcuno, è un frutto «dalla dubbia avvenenza». Ha una superficie bitorzoluta, «panciuto» dalle forme che, al diametro, possono raggiungere anche i 70 centimetri, un peso medio di diversi etti tanto che una pianta può offrire anche oltre quaranta chili di frutto all’anno. Nella tradizione le piante sono considerate sempre marginali alle coltivazioni organizzate lungo i declivi collinari, tanto che i frutti non venivano vendute a peso, ma a dozzine. Premesso che, in sardo, per pompia si identificava il cedro, tuttavia, all’analisi morfologica, le due piante non hanno caratteristiche comuni. La pianta, dell’altezza tra i due e i tre metri, potrebbe ricordare quella di un’arancia ma i rami spinosi rimandano a quella di un limone.Le prime tracce scritte si trovano in una mappa redatta nel 1760 per ordine del vicerè di Sardegna. Sa pompia, poi, viene descritta da un avvocato sassarese appassionato di agronomia, Andrea Manca dell’Arca e, nel 1837, il botanico Giacinto Moris cerca di darle un’identità: «Citrus medica, variante mostruosa», ovvero una sorta di degenerazione del cedro classico. Dopo accurati studi, la quadra viene trovata nel 2015 dal professor Ignazio Camarda, dell’Università di Sassari: «Citrus limon, variante pompia». In sostanza prevale la tesi che si tratti di un ibrido naturale tra cedro e limone. Una piccola Cenerentola, paragonata al consumo classico di altri agrumi, in quanto non commestibile al naturale per l’estrema acidità del succo, ma principessa al gusto se opportunamente lavorata con pazienza e dedizione come dimostra la sua storia ben radicata, soprattutto a Siniscola. I segreti del ricettario sono protagonisti di una gelosa trasmissione, di tradizione orale, di madre in figlia, da suocera a nuora, tanto che le sue lavorazioni principali, sa pompia intrea e sa aranzada, erano ambito omaggio per pochi fortunati a battesimi, matrimoni, notabili del posto (in primis medici e notai). Un prodotto di per sé non commerciabile al naturale, il più delle volte regalato, ma impegnativo per la valorizzazione pasticcera, sia per il tempo richiesto alla sua lavorazione, che per gli ingredienti necessari, zucchero e miele, posto che nella Baronia vi era una forte presenza di sos mojareros, i produttori di miele.Sa pompia ha due caratteristiche uniche, una sorta di ossimoro alimentare. È l’unico agrume di cui la polpa non è commestibile, ma che diventa un’eccellenza assoluta se adeguatamente trasformato in quella che, per altri, è una componente secondaria, ossia l’albedo, quella sorta di «terreno di confine» tra la buccia e la polpa stessa. Ecco perché la sua preparazione richiede perizia e pazienza. Si inizia togliendo la buccia con attenzione a non intaccare l’albedo stesso. Una volta ottenuta questa specie di palla bianca, si pratica un piccolo forellino in corrispondenza del picciolo e si inizia a svuotare dall’interno, facendo bene attenzione a non bucarne la superficie. Sono le premesse per procedere alla preparazione di sa pompia intrea, ovvero intera. Una sorta di grosso candito. L’albedo viene, quindi, lessato per liberarlo dall’acidità e poi messo lentamente a sobbollire in una teglia per circa tre ore assieme a miele millefiori. La bandiera a scacchi è scandita dalla frase «Quando assume il colore del marengo, è pronta». Citazione di una pregiata moneta d’oro dell’Ottocento, il marengo, che raffigurava Carlo Alberto, re di Sardegna, tra i pezzi più ambiti per gli appassionati di numismatica.Con questa lavorazione, la canditura smorza l’acidità mantenendo quel sottofondo amarognolo che caratterizza sa pompia al naturale. C’è chi se la gusta a scottadito, tagliata a spicchi, assieme a fettine di pecorino sardo. Una volta fatta raffreddare, può essere conservata all’interno di apposito contenitore di vetro o di coccio e poi ricoperta con altro miele, oltre a quello residuo della lavorazione. C’è la variante prena, ossia piena, in cui l’interno dell’albedo, oltre a miele, contiene mandorle tritate. Altra star della pasticceria di Siniscola e, quindi, della Baronia è s’aranzada siniscolesa, una rivisitazione dell’originale, inventata dal pasticcere nuorese Battista Guiso nel 1886, con bucce d’arancia. Qui si usano, invece, striscioline di scorza pompia, bollite e distese su di un tavolo ad asciugare. Poi, su di un tegame, si lavora il miele con mandorle sminuzzate. Quando assumono un colore dorato, si aggiungono le scorze di pompia. Si rimescola il tutto con pazienza per circa tre ore con una paletta di legno. Quando il composto assume il «colore marengo», si lascia riposare per qualche ora. Per abbellire il tutto c’è chi usa sa trazea, sorta di confettini colorati che vanno a decorare i piccoli rombi finali della s’aranzada, serviti poi su foglie d’arancio e offerti in degna cornice: battesimi, cresime, matrimoni.Nella tradizione locale del «non si butta via mai niente», il succo non commestibile tornava utile nell’economia domestica come ottimo corrosivo di ossidazioni varie, per lucidare oggetti di rame, oro, ottone. Efficace anche per la pulizia finale delle mani, grazie alla sua acidità. Ecumenica, invece, la marmellata che fa tesoro di buccia, albedo e polpa stessa. Eclettico il suo utilizzo. Ci può stare sopra il pane carasau come in lambada golosa con yogurt di pecora o ricotta fresca, ma superando anche barriere impensate sino a ieri, ad esempio con arrosti o bolliti, fonte di goloso bilanciamento acidulo. Nel creativo «ricettario pompesco» c’è chi ha proposto con successo un’insalata di aragostelle al profumo di pompia. Luca Pedata, allievo di Carlo Cracco, ha inserito nel menu il risotto affumicato con pompia. Il sorbetto alla pompia terra di mezzo lungo le tappe di un menù che può rendere onore a Babbo Natale con il panettone con pompia e mandorle.Anche per i sommelier, la sa pompia non è più un tabù. Vi è una birra artigianale, ribattezzata goliardicamente sexi pompia. Se nella costiera amalfitana si chiude la festa con il limoncello, qui troviamo il licore de pompia, preparato con la scorza e servito freddo come digestivo. Non manca il calice della staffa. Ivano Fodde, di Budoni, si è inventato il Luis Gin, omaggio a nonna Luigina, che gli ha trasmesso la passione per questo agrume di nicchia. Bella intuizione, che gli ha permesso di vincere l’«Oscar green» regionale di Coldiretti. Sull’orlo oramai dell’estinzione, nel 1999 la sua coltivazione è stata rilanciata dal comune di Siniscola, con un lodevole progetto che vede coinvolti, nelle diverse fasi della produzione, un gruppo di giovani con disabilità, ben descritto a suo tempo sui canali televisivi da Luca Sardella, dando così visibilità nazionale a un prodotto con la sua storia, le sue tradizioni ed un futuro tutto da costruire. Se lo conosci, ti conquista.
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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